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E-book509 pagine7 ore

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Hope ha vissuto tutta la sua vita rinchiusa in un orfanotrofio, all’interno del quale ha da sempre vantato un’esistenza tranquilla e una famiglia che la ama. Il giorno in cui compie sedici anni, però, qualcosa scatta in lei. Le regole prevedono che a quell’età gli orfani possano uscire dai cancelli e, la ragazza, divorata da un irragionevole sentimento di oppressione, decide di sfruttare l’occasione. Fuori da quella che ha imparato a chiamare casa, però, niente è come ciò che ha letto nei libri. Presto scoprirà che nel buio della foresta si nascondono mostruosi segreti pronti ad essere svelati. Hope è la chiave per la salvezza di un mondo intero e verrà catapultata in una realtà a lei nuova e oscura. Fino a dove dovrà spingersi, pur di conoscere la sua vera identità?
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2021
ISBN9791220825740
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    Anteprima del libro

    Nessun Nome - Francesco Perrone

    PROLOGO

    12 DICEMBRE 1836

    La luce non entrava in casa Gray. Ogni fessura era stata tappata, così tanto che Blow non riusciva a vedere null’altro al di fuori di ciò che era illuminato dalla fievole luce emanata da un’unica lampada ad olio, ben posata sulla tavola di legno alla sua sinistra.

    Lui se ne stava sulla sua sedia a dondolo, la quale continuava a scricchiolare, donandogli l’illusione di non essere totalmente solo. Era seduto ormai da ore a giocare con le sue tre marionette, regali di sua madre e di suo padre, fatte a mano, soltanto per lui. Erano i suoi unici amici, che gli tenevano compagnia e con i quali si era sempre divertito molto.

    In quell’istante, però, niente stava andando per il meglio. Le marionette nelle sue mani stavano lottando. Lacrime trasparenti e salate scendevano dai suoi occhi cristallini sulle pallide guance. Era ancora un bambino e i suoi genitori stavano combattendo per sopravvivere; non poteva neanche immaginare di poterli perdere. Lo avevano serrato in casa mentre si allontanavano con le loro armi. Erano scomparsi, attraverso l’uscio, imbottiti dalla testa ai piedi. Blow non era ingenuo: era da giorni ormai che tornavano tardi dal castello e borbottavano tra loro con tono preoccupato; aveva capito che una battaglia li attendeva ma non aveva ancora compreso chi fosse il nemico e quale fosse il motivo per cui combattere.

    Blow era nato stregone, figlio di due stregoni. Il suo mondo non era come gli altri: la magia, buona o oscura che fosse, dominava quotidianamente le giornate. Un brivido di rabbia gli percorse la schiena, prima che, incapace di controllarsi, lasciasse scorrere la magia tra le sue dita e gettasse via le marionette, con impeto e forza. Ognuna delle tre colpì un muro diverso, atterrando nel buio sul freddo pavimento. Blow respirava dalla bocca, attraverso i denti serrati, emettendo aria condensata che gli riscaldava le gote gelate. Emma e George avevano pensato di proteggerlo, lasciandolo al sicuro nella loro casa, ma lui non si sentiva al sicuro, senza sapere cosa stesse accadendo ai suoi amati genitori.

    Improvvisamente, una forte ventata spalancò le imposte della finestra di fronte a lui, facendo entrare gelida aria violenta e pallidi fiocchi di neve. La fioca luce invernale illuminò l’interno dell’abitacolo, facendo strizzare gli occhi a Blow; i fogli che si trovavano sul tavolo volarono via come foglie, posandosi con grazia su qualsiasi superficie fosse a loro gradita. Una busta finì proprio di fronte a lui, ai piedi della sedia. Lui si chinò, la afferrò e ne tirò fuori il contenuto. Mentre il freddo gli bloccava le dita, lui aprì la lettera piegata a metà e la lesse. Era indirizzata a Emma e George Gray.

    Amici,

    il vostro sostegno in questo momento è fondamentale. La guerra è ormai inevitabile; da quando i vampiri hanno tradito la nostra legge la paura si è diffusa nel nostro villaggio, uniamo le forze e debelliamola. Sono forti e gli Innominati sono dalla loro parte; sembra impossibile ma dobbiamo provarci, la giustizia può vincere. Ci incontreremo nella valle, dove attenderemo le loro mosse; cappucci neri scenderanno dai monti e noi dovremo essere pronti a combattere. Sono potenti e quasi invincibili, ma non perdete le speranze. La luce ci aiuti.

    Sperando nel meglio, 

    Dir. McCourtney

    Blow tremava, nel leggere quelle parole, ma non aveva bisogno di altro. Lasciò la carta scivolargli di mano, mentre, al di fuori della finestra, non vedeva altro che l’orribile tempesta di neve incombere sulle strade. Poi, si alzò, parandosi il viso con un braccio per non essere spinto via dall’insolente forza del vento furioso. Non si sarebbe lasciato fermare, però; sapeva esattamente cosa fare.

    Emma era alle prese con un vampiro quando si rese conto che un Innominato era alle sue spalle, nel suo mantello nero che gli copriva schiena e testa, con il maestoso cappuccio rosso. Era quella la divisa di combattimento degli Innominati, creature invincibili, immortali, genialmente chiamate come alleati dai vampiri, i veri nemici degli stregoni che, invece, erano vestiti normalmente, in modo da mimetizzarsi con le persone che li circondavano.

    Emma aveva paura: come avrebbero fatto loro, mucchio di stregoni, a sconfiggere quell’esercito di creature incredibilmente potenti? I vampiri avevano commesso un grave errore: nutrirsi di sangue umano era severamente vietato dalla Costituzione del mondo magico, stabilita dagli stregoni. Dopo il torto, la lotta era stata inevitabile.

    George la raggiunse, gettando per terra un Innominato che stava per colpirla, così che lei potesse infilare la spada nel cuore del vampiro con cui stava lottando. Lui ed Emma erano un’anima sola: dove andava una andava l’altro. Una coppia di persone perfettamente in sintonia, che si sorreggevano reciprocamente. Emma sosteneva George senza esitazione e lui le aveva salvato più volte la vita. Era così che si erano conosciuti: l’uomo era riuscito a proteggere, quella volta, secondo le sue parole, la ragazza più bella che avesse mai visto. Nessuno poteva, infatti, resistere a quello splendore di capelli corvini e occhi azzurri, capaci di incantare chiunque. George era un mucchio di lentiggini e capelli mogano arruffati e la donna si era innamorata di lui per il suo comportamento impavido e coraggioso ma, soprattutto, per il suo inguaribile romanticismo.

    Il cuore di Emma singhiozzava senza controllo; erano stati allenati per occasioni come quella, si erano esercitati a diventare dei combattenti, ma quella era una prova che lei non era sicura di poter superare. Si guardò intorno, timorosa. Sentiva il respiro del marito accanto a lei, quando si accorse che qualcosa non andava: l’esercito nemico stava tramando qualcosa.

    Lentamente, vampiri e innominati si ritirarono, in gruppo, lasciando i loro rivali sbigottiti, tra chi agonizzava sul freddo terreno e chi si era ritrovato solo, in piedi, con le proprie armi. Si fermarono, in riga, immobili come statue, come se si stessero schierando, come a formare una barriera. Gli stregoni si guardarono intorno circospetti per un lasso di tempo che sembrava infinito, ma Emma si accorse presto di quale fosse il tranello. Dalle siepi e da dietro i tronchi degli alberi in lontananza si fecero vive delle creature mostruose. Quando riuscì a vedere che si trattava dei licantropi, espirò rumorosamente; erano troppi, tutti contro di loro, tutti contro chi aveva scritto le regole che fin dal primo momento avevano voluto trasgredire. Come fossero protagonisti un dipinto, vampiri e Innominati, raggiunti dagli ennesimi alleati, guardavano di fronte, anche loro certi di essere i più forti, oltre che i più numerosi.

    Non ce la faremo, pensò Emma.

    Quando il caos esplose di nuovo, lei si voltò di scatto e affondò il suo viso nell’incavo tra le clavicole del marito.

    «Cercherò di salvarti anche questa volta, Gray.» disse l’uomo, abbracciandola più forte che mai. Quello sarebbe stato l’ultimo abbraccio, Emma ne era certa. Le sue parole facevano fatica ad uscire, ostacolate dal nodo che sentiva salire in gola. Il suo viso era rigato di lacrime quando riuscì a rispondere.

    «Ti amo.»

    La pace venne presto spezzata. La battaglia era ricominciata e i due ne erano già stati invasi, quando qualcuno li separò, strattonandoli e gettandoli per terra. Emma alzò subito lo sguardo per vedere in faccia il responsabile e ne rimase sorpresa. Lo conosceva. Era un vampiro ed era suo amico. Lui, però, stava impugnando la spada in direzione della donna.

    «Cosa pensi di fare, Aaron?» gli chiese, rialzandosi più velocemente possibile.

    «T-tu cosa c-credi che p-possa fare?» era così indisposto da mettersi a balbettare.

    Qualcosa diceva a Emma che non avrebbe mai lanciato in avanti quell’arma. Si fidava di lui, lo conosceva bene. Quando si guardò intorno, vide che George era stato allontanato e, che era ora intento a cercare di staccare la testa di un vampiro e liberarsi dalla presa di un licantropo. Ebbe la tentazione di andare ad aiutarlo, ma forse stava sottovalutando Aaron. Che avrebbe fatto se solo lei si fosse spostata di un centimetro?

    Non fece in tempo nemmeno a pensare a cosa fare che si ritrovò con l’uomo alle spalle e la spada puntata alla gola. Lo sentiva tremare contro di lei, mugolare invece che respirare in silenzio; perché lo stava facendo, se non voleva?

    «Aaron, non farlo.» stava quasi supplicando. «Ho un esercito che mi vuole morta, ti prego, non volerlo anche tu.»

    «Devo farlo, Emma. Se non lo faccio, lui mi ammazza.»

    Lui. Chi era lui? Qualcuno stava ricattando Aaron per ucciderla? Chi poteva avere tanto rancore nei suoi confronti per volere tutto ciò? E poi, perché obbligare lui? C’erano decine di persone, intorno a lei, che avrebbero potuto ammazzarla alla luce del sole. Perché nascondersi?

    Emma non sapeva se fosse pronta a morire, in quell’istante; non sapeva se potesse sopportare il dolore. Non sapeva nulla. La lama che premeva contro la sua pelle bianca iniziava a fare male. Si preparò, ma non accadde ciò che stava aspettando. Vide i capelli fulvi di George passarle davanti agli occhi, prima di sentirsi spingere per terra, ritrovandosi illesa. Riuscì a udire solo i pesanti stivali di Aaron correre via.

    E, quando alzò lo sguardo, il suo amore, primo e ultimo, era a terra, in una pozza di sangue.

    Quando Blow raggiunse la valle, era già andato tutto a rotoli. Aveva camminato per un’ora, tra le intemperie e la foresta, ma non si sarebbe mai aspettato di vedere una scena talmente raccapricciante.

    La neve era ricoperta di liquido vermiglio. Appoggiate sul terreno vide teste mozzate, soldati feriti. Non avrebbe mai dovuto arrivarci. Non avrebbe mai dovuto vedere nulla di tutto ciò. Sua madre, ricoperta di lacrime, annegava nel dolore ed era inclinata su suo padre, morto, con la spada nel cuore e in un bagno di sangue. Nessuno aveva avuto ancora il coraggio di sfilargliela dal petto.

    Blow si nascose dietro un albero, appena si accorse che quello che stava vedendo era la cruda realtà. Distrusse parte della corteccia con le piccole mani, non riuscendo a capire se fosse adirato o tremendamente frustrato, distrutto. Entrambi, forse.

    Papà? si disse. Cosa avrebbe fatto adesso? Suo padre, il suo pilastro portante, era a terra, con l’ultimo respiro ancora posato sulle labbra, con il dolore ancora stampato negli occhi.

    Prima che le lacrime riprendessero a scorrere sulla sua pelle, accadde qualcosa di quasi impercettibile: un cappuccio rosso, con fare elegante, si avvicinò silenziosamente a sua madre. Lui avrebbe voluto gridare ma non fece in tempo. Avrebbe voluto correre ad aiutare, ma non avrebbe mai fatto in tempo. Il mantello nero si mosse velocemente: coprì sua madre alle spalle e, in un attimo, Emma, senza, forse, neanche accorgersene, era accanto a George; le lacrime ancora scorrevano, ma il suo cuore aveva cessato di battere.

    Blow lo sentì, sentì il suo di cuore spezzarsi in mille pezzi, così tanti da perdersi all’interno del suo corpo. Sopraffatto dal dolore e quasi incapace di respirare, uscì allo scoperto, con gli occhi stanchi, le gambe tremanti. La vista dei suoi genitori in un bagno di sangue lo fece inorridire. Li raggiunse, prima di accasciarsi accanto a loro. Con una carezza asciugò l’ultima lacrima di Emma e donò un ultimo sguardo pieno di riconoscenza a George.

    Chiuse gli occhi. Si alzò e, quando le sue palpebre si schiusero nuovamente, la sua espressione dimostrava tutt’altro che dispiacere. Gli stregoni, riconoscibili da tutte le armi che avevano addosso, erano stati sconfitti. Soltanto uno rimaneva in vita, ma era circondato e impaurito.

    Impulsivamente, Blow estrasse la spada dal petto del padre e la lanciò verso il gruppo di persone che lo teneva prigioniero. La lama colpì la gola di un licantropo, che crollò al suolo, soffocato con il suo stesso sangue. A quel punto, i due vampiri accanto a lui si voltarono verso la direzione dalla quale era arrivata l’arma.

    Blow avanzò, sempre più velocemente, fino a raggiungerli. Ne prese uno per il collo, lo guardò negli occhi e poi, senza pietà, usò l’altra mano per spezzarglielo. Il suo compagno sembrava tranquillo, probabilmente illuso dal pensiero che sconfiggere quel bambino sarebbe stato un gioco da ragazzi, che non ci sarebbe stato nulla da temere. Blow allungò un braccio e usò la sua immatura, incontrollata magia verso di lui. Il vampiro si sbagliava nel sottovalutarlo: sangue del colore della pece schizzò via dai suoi occhi, dalle sue orecchie e dal suo naso. Il piccolo vide la sua anima uscire dalle orbite, prima che anch’esso cadesse a terra inerme.

    Che sensazione era quella? Piacere? Vendetta? Se c’era una cosa davvero importante che i suoi genitori gli avevano insegnato era che uccidere fosse sbagliato, anche per difesa, e che la vendetta fosse il gioco della gelosia, dell’invidia, dell’ignoranza. Non avrebbe mai voluto deludere i suoi genitori.

    Si mise le mani nei capelli e cadde in ginocchio di fronte alle sue vittime. Lo stregone rimasto in vita guardava la scena allibito. Blow respirava affannosamente, non sapendo come agire: vendicare o ascoltare le voci nella sua testa?

    Quel bambino che si trovava al centro del campo di battaglia, e che era ormai diventata l’attrazione di tutti i presenti, urlò, sprigionando un’energia immensa. Una cupola di magia ricoprì tutti coloro che si trovavano intorno a lui, i quali non avevano la minima idea di cosa stesse accadendo. L’esercito era stato avvolto da quel mistico incantesimo, il quale si era sprigionato come una potente folata di vento, a contatto con ogni singolo corpo umano sulla scena. La folla smise di respirare, d’un tratto, come se quella cupola avesse tolto tutta l’aria presente nell’atmosfera. Chi cercava di boccheggiare, chi si manteneva il petto; e cadevano, uno dopo l’altro: i vampiri, poi i licantropi, poi gli Innominati e anche lo stregone rimasto in vita, tutti vittime di quell’incantesimo di cui nessuno aveva mai sentito parlare, o che nessuno aveva mai visto compiersi. Tutti morirono in pochi secondi. Tutti erano stati sconfitti.

    Blow si guardò le mani: non erano più le gracili manine di un ragazzino della sua età: erano rugose mani da uomo. Si alzò in piedi, rendendosi conto di non essere più alto poco più di un metro, ma ormai delle stazze di un uomo. Si sentiva potente, più che mai, in grado di andare contro ogni ostacolo. Nulla l’avrebbe fermato.

    Non sarebbe dovuto uscire di casa, non avrebbe dovuto vedere nulla.

    I cappucci rossi erano Innominati e un cappuccio rosso aveva ucciso sua madre. Ora li avrebbe massacrati tutti, uno ad uno, a costo di vendicare il dolore che gli avevano fatto passare. Il ghiaccio che scendeva dalle nuvole era quasi freddo come il suo cuore in quel momento.

    Col suo nuovo aspetto, si incamminò, in cerca di vendetta.

    Le marionette giacevano a terra, inermi. Una aveva i capelli corvini appoggiati sulle spalle, il maschio dai capelli fulvi era di fronte ad essa. Sul pavimento, di fronte alla sedia a dondolo, c’era invece un bambino, con gli stessi capelli corvini della madre, con gli stessi occhi blu del padre, lo sguardo ancora dolce, ancora sincero, ancora innocente.

    PARTE PRIMA

    «Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.»

    Lewis Carroll

    1

    OXFORD, 6 NOVEMBRE 1851

    In tutto l’orfanotrofio non si sentiva il ronzio di una sola mosca. Le regole erano rigide, in quel luogo: alle sei del mattino tutti dovevano essere in piedi. Mancava appena un quarto d’ora a quando, in ogni dormitorio, una delle suore, più severe che mai, sarebbe irrotta nelle stanze e avrebbe svegliato tutti con minor delicatezza possibile. L’undicesimo dormitorio, però, non era poi così rigido. Suor Agnes ne era la responsabile ed era una persona meravigliosa. Quel dormitorio era abitato da ragazzi che amavano divertirsi insieme, non dando alle regole dell’orfanotrofio la possibilità di appesantire le loro giornate. Suor Agnes aveva per esempio concesso loro di potersi addormentare a loro piacimento, anche se l’orario in cui gli orfanelli dovevano essere accucciati sotto le lenzuola e quello della sveglia dovevano essere rispettati.

    Quella notte, Hope non aveva chiuso occhio e ad un quarto alle sei ancora non riusciva ad addormentarsi. Pensava raramente alla mancanza di genitori nella sua vita ma, in quel momento di vuoto, avere soltanto il nome che la collegava a loro era una delle tante cose che le molestavano la mente. Non aveva un cognome, non ricordava nulla di sua madre e di suo padre, neanche un’immagine sfocata dell’amore che aveva provato per loro. Niente di niente. Forse odiava quel posto e l’idea di esserci all’interno senza la possibilità di uscirne. Era una ragazza introversa, non abituata ad esprimere le proprie emozioni, ma decisa ad ottenere ciò che voleva, anche se era una capacità che non le era permesso esternare. Una delle piccole cose che la faceva sentire felice e tranquilla, nel suo dormitorio, era la presenza dei suoi fratelli, ragazzi che, come lei, non erano quasi più nessuno. Erano dieci, divisi equamente in cinque ragazze e cinque ragazzi. Hope odiava quella continua aspirazione alla perfezione: tutto era matematicamente calcolato e misurato e lei credeva fosse innaturale. Pensava che nessuno e niente sarebbe potuto arrivare ad essere perfetto e che fosse inutile provarci.

    Cassie e Cecily dormivano ancora. Era l’unica sveglia nella stanza, in quel momento. Si sentiva schiacciata, come se da un momento all’altro dovesse succedere qualcosa di strano, di spaventoso o addirittura di pericoloso. Prese un libro dal suo comodino. Una delle poche cose concesse nell’orfanotrofio era poter leggere e per Hope era un sollievo riuscire ad allontanarsi dalla realtà semplicemente sfogliando un centinaio di pagine.  Quel libro Hope l’aveva già letto, probabilmente un miliardo di volte, ma non aveva la libertà di uscire dai cancelli ed andare in giro a cercarne altri. Quando lo aprì, si accorse che non era il momento giusto per leggere: le lettere le sembravano minuscole, impossibili da identificare, e al buio strizzava i suoi occhi azzurri per cercare invano di vedere qualcosa. Sbuffò, chiuse il libro, accese la lampada sul suo comodino, si alzò dal suo duro letto e si diede uno sguardo allo specchio subito sopra la lampada.

    Odiava il suo aspetto fisico, odiava i suoi capelli d’oro e i suoi occhi perfettamente blu. Vedere una ragazza del genere, così bella, era alquanto raro ed era proprio quello il problema: sapeva di essere così bella, e lo detestava. Non la rendeva una questione di stato, non era vanitosa o piena di capricci, ma se nessuno glielo ricordava, riusciva a vivere meglio anche quelle poche difficoltà che doveva affrontare. Infatti, non solo gli orfani avevano un passato complicato alle spalle ma, arrivati ad una certa età, iniziavano ad aiutare le monache nei lavori più pratici, come prendere il raccolto, cucinare o ripulire. Non era una costrizione ma sapevano che senza quel convento loro sarebbero potuti rimanere in mezzo alla strada, soli e impauriti; era una sorta di sollecitato ringraziamento verso le suore del monastero.

    Con quel senso di tristezza e oppressione che provava in quel momento il suo cuore e i suoi polmoni sembravano fare a pugni. Era insolito per lei provare così tanta malinconia in un momento solo. Era una ragazza solare e sorridente e amava portare sempre gioia a chi le era affianco. Si sentiva stringere lo stomaco, mancare il respiro, come se quella tristezza la stesse divorando. Cercò di respirare a lungo, poche volte. Una, due, tre. Cercò di non pensarci. Prese il suo solito nastro azzurro, acciuffò i capelli nella mano e se li legò facendo un fiocco. Emise un forte sospiro, per rilassarsi e tranquillizzarsi.

    Quel momento silenzioso non durò però tanto: la porta si spalancò rumorosamente e una figura minuta, veloce e completamente vestita di nero irruppe nella stanza. Suor Agnes, con il suo solito spirito gioioso e giovanile, proseguì nella piccola stanza e corse alla finestra per aprire le tende e fare entrare la luce del mattino.

    «Signorine! Su, su, sveglia!» si avvicinò a Cecily e Cassie e le scosse, ricevendo come risposta solo dei versi indecifrabili. Quando si girò verso Hope, si rese conto del fatto che lei fosse già in piedi e che, nonostante fosse ancora in camicia da notte, avesse già il fiocco ai capelli.

    «E tu che ci fai sveglia?» nonostante le parole evasive, si notava sempre in lei un certo amore per i suoi ragazzi.

    «Non mi sentivo bene, Suor Agnes. Non riuscivo più a restare a letto.» le sorrise.

    «D’accordo.» Si guardò intorno. «Ora, però, dato che sei già sveglia, vai a chiamare le bambine. Dormivano come angioletti e le ho lasciate fare. È meglio che si sveglino qualche minuto più tardi.»

    «Ma quando passerà la Madre...»

    «Quando passerà la Madre…» la interruppe. «Mi inventerò qualcosa, ma ce la faranno. L’importante è che si sbrighino.» E poi scosse nuovamente le due ragazze che ancora dormivano.

    «D’accordo, ho capito, ho capito!» urlò Cecily, ma Cassie ancora russava.

    «Va bene, Ceci, svegliala tu. E, Hope, corri! Io vado a chiamare i ragazzi. Mi raccomando, ragazze, tra mezz’ora nell’atrio.»

    Non ricevette risposta, ma Cecily e Hope avevano capito bene. Anzi, non c’era nulla da capire: sapevano già tutto. Era sempre la stessa storia, sempre le stesse regole, sempre la stessa giornata ripetuta centinaia di volte. Hope si gettò velocemente nel bagno per lavarsi velocemente e vestirsi, mentre Cecily si avvicinò piano all’orecchio di Cassidy.

    «Cassie, alzati.» Cecily aveva perlopiù uno spirito calmo e pacato. Le dispiaceva perfino disturbare la sua amica da quel profondo sonno. «Cassie!» urlò poi, però. Lo fece ad alta voce, molto alta. L’altra fece una smorfia, prima di aprire finalmente i suoi occhi.

    «Non urlare, mi alzo.» sussurrò, ancora assonnata.

    «Non ti muovevi, ho dovuto strillare.»

    Cassie si alzò. Fece lo stesso di Hope: la prima cosa che le venne in mente di fare fu quella di guardarsi allo specchio. Aveva un aspetto decisamente troppo disordinato ma, d’altronde, lei era sempre così. Le due ebbero poco da aspettare: in un batter d’occhio, Hope era già pronta.

    Quando uscì dalla stanza, si guardò addosso, mentre udiva ancora le sue compagne bisticciare per decidere chi dovesse lavarsi per prima. Lei era vestita con la sua solita veste bianca. Ovviamente, non aveva un guardaroba ampio e tutti i suoi indumenti sembravano identici. Niente colore, niente abiti da cerimonia: quasi tutte tuniche bianche, azzurre o grigie, e così anche le altre. Iniziò a proseguire silenziosamente nel corridoio. Camminava sulle punte delle sue scarpe di colore bianco sporco.

    Stava mantenendo lo sguardo fisso a terra, contando i passi, quando, sentendosi chiamare, si voltò velocemente.

    «'Giorno, Hope!» era Riley. Sul viso di Hope si illuminò un meraviglioso sorriso. Riley era bello, così bello, che vederlo, per lei, era un sollievo.

    «Riley! Dove vai?»

    «Vado a svegliare i bambini.»

    «Oh, Suor Agnes ha lasciato dormire anche loro? Dobbiamo darci una mossa. Se dovessimo essere in ritardo, quella vipera ci getterà nella terra per fare il doppio del lavoro. E io ne ho già abbastanza di quello normale.» ridacchiarono insieme, poi Riley entrò nella stanza dei bambini e Hope continuò a camminare, con le guance ancora rosse.

    Non le era sempre andato a genio: ricordava che da piccoli parlavano soltanto in caso di giochi di gruppo. Era da poco che si era sviluppato quel sentimento dentro di lei e le piaceva. Le piaceva Riley e le piaceva il fatto che le piacesse Riley.

    «Buongiorno, dormiglione!» urlò appena entrata nella camera che stava cercando, rendendosi conto dopo pochi secondi che non era stata la sveglia piena di tatto che aveva in mente. «Scusate, Suor Agnes ci vuole in piedi, sapete come funziona.» e sorrise dolcemente, prima di chiudere la porta e tornare nuovamente ad aspettare l’orario d’incontro nella sua stanza.

    Non avendo relativamente nulla da fare, si sedette sul letto, aspettando l’orario giusto e osservando le sue compagne, le quali si muovevano di qua e di là, cercando di sbrigarsi più velocemente che potessero.

    I capelli rossi di Cassie svolazzavano ovunque. Hope aveva sempre voluto avere i capelli rossi. Da quando aveva visto Cassie, aveva sempre sognato di avere una folta chioma infuocata che le ricadesse sulle spalle. Pensava che quel colore le desse un’immagine forte e resistente; al contrario, credeva che i suoi capelli la facessero sembrare una stupida bambola di porcellana.

    Erano tutte e tre pronte per un pelo quando Suor Agnes urlò dal corridoio di raggiungerla immediatamente. Le ragazze uscirono e si misero in fila, come ogni giorno. Di fronte a loro si trovavano Suor Agnes e la Madre Generale, con quella sua espressione di superiorità che nessuno, lì dentro, poteva sopportare. Hope si soffermò, stranamente quel giorno più che altri, a osservare l’intero dormitorio: stava letteralmente cadendo a pezzi. I muri, sui quali non si distingueva più un colore preciso, erano scrostati; molte delle finestre erano frantumate ed era davvero pericoloso scendere dalle scale, ormai sul punto di crollare.

    Il cuore e il suo respiro non avevano ancora smesso di vacillare, tanto che si sentiva a pezzi come il posto in cui si trovava; tra sé e sé si chiedeva cosa le stesse succedendo e come mai si sentisse così provata. Tirò un grosso respiro e cercò di calmarsi, al meglio che poteva, per l’ennesima volta.

    In men che non si dica erano tutti e dieci fuori dalle stanze, uno accanto all’altro, educati e perfetti dal capo agli alluci.

    «Bene.» disse la Madre, senza osare dire neanche un buongiorno e consegnando la pergamena a Suor Agnes. «Questo è il programma di oggi. Spero che lo seguiate alla lettera. Come sempre, ricordate di essere grati a Dio per quello che avete e anche che qui dentro non vi insegniamo a spaccarvi la schiena, noi vi...»

    «Insegniamo a diventare adulti.» Tutti completarono la sua frase, conoscendola a memoria, dato che la sentivano ogni singola mattina.

    «Bene, bravi.» e andò via, di nuovo senza un ciao, arrivederci, addio o a domattina. Hope sbuffò: non aveva mai sopportato una persona meno di quanto sopportasse la Madre Generale.

    Quando passerà la Madre, mi inventerò qualcosa.

    Hope guardò l’orologio e si rese conto che effettivamente era più tardi del solito: suor Agnes aveva mantenuto la parola e doveva aver preso tempo con la Madre, sapendo che i piccoli si sarebbero svegliati più tardi. Era una donna eccellente: sempre a pensare agli altri, prima che a sé stessa. Le sorrise e lei ricambiò.

    «Riley, vieni qui.» disse Suor Agnes, e lui le si avvicinò. «Ti va di leggerlo per tutti?»

    «Certo.» le rispose il ragazzo, prima di fare quello che lei gli aveva chiesto. Il programma non era diverso dal solito. Suor Agnes divise i compiti a seconda delle età e, come di consueto, Hope e Riley capitarono insieme a Cassie, essendo loro tre i più grandi. Ai più grandi venivano sempre dati i compiti più faticosi.

    «Perfetto, ragazzi, a lavoro! Ci vediamo tra un’ora per la colazione.» disse Suor Agnes e, con il sorriso, scese le scale.

    Hope sperò che non si rompesse un gradino mentre stava scendendo. Era davvero distrutto, quel posto. La fila si sciolse e Riley si avvicinò a Hope lentamente, poco prima che il sorriso rivolto alla ragazza venisse interrotto dall’arrivo di Greg, il suo compagno di stanza.

    «Riley, dove hai messo il mio cappotto? Devo dar da mangiare alle galline, oggi, e fuori fa freddo.»

    «Sì, scusa, credo sia nel mio lato dell’armadio.» e Gregor fuggì via in camera come un razzo. D’altronde, era d’obbligo rispettare gli orari ed erano già tutti in netto ritardo.

    Il compito di quella mattina di Hope, Riley e Cassie era raccogliere gli ortaggi. Non era una faccenda così piacevole. Era un dovere, però, quindi non si lamentavano mai più di tanto. E poi non era la prima volta: ormai ci avevano fatto l’abitudine. Sporcarsi le mani era qualcosa che Hope odiava davvero, ma non potevano evitarlo. Inginocchiarsi sulla terra e raccogliere tutto ciò che ore dopo avrebbero dovuto mangiare non aiutava esattamente ad incrementare la fame, però: anzi, la faceva passare totalmente.

    Quell’ora passò in un baleno, e, quando giunse il momento della colazione, tutti lasciarono qualsiasi cosa stessero facendo e rientrarono nel dormitorio. Hope adorava il tè fatto in casa da Suor Agnes e inzupparci i biscotti all’interno era per lei - e per quanto avesse mai mangiato in tutta la vita – la parte migliore.

    Il tavolo, in cucina, era allestito al centro della stanza. Ognuno aveva la sua porzione di bevanda e dolcetti, posizionati su un piccolo piattino di porcellana bianca. La cucina era un posto accogliente: il camino con il focolare sempre acceso, la porta con una piccola finestrella, che lasciava intravedere il panorama mattutino, e l’odore di colazione avrebbero sollevato l’umore a chiunque, tranne che a Hope, quel giorno. Si sedette alla piccola sediolina che contrassegnava il suo posto. Tutti loro, accomodati allo stesso tavolo, sembravano una grande famiglia, piena di amore e calore. Hope afferrò uno dei biscottini alla sua destra. Era bastata soltanto un’ora per suscitare in tutti quanti la voglia di raccontare qualcosa: quasi ognuno di loro aveva qualcosa da dire e, tra parole e sorrisi, l’atmosfera si riscaldava, rendendo il dormitorio un’esplosione di gioia.

    Dentro di lei, però, stava ancora accadendo qualcosa di insolito. Rimase in silenzio, incapace di comprendere sé stessa. Forse era stanca perché non aveva chiuso occhio, ma ci doveva essere qualcosa in più. Come un fiammifero al momento della sua accensione, come un rubinetto appena aperto, qualcosa scattò dentro di lei.

    Invece di continuare a ciondolare al di sopra della tazzina, il biscotto di Hope cadde all’interno del tè. Gocce di acqua spezzata le bagnarono il viso, fuoriuscendo dalla tazza.

    Un forte mal di testa l’aveva colpita. Era come se il suo cranio stesse lentamente implodendo. Partito come un dolore tremendo, era stato improvviso e per niente graduale. Sebbene quasi tutti le chiedessero cosa le stesse prendendo, il dolore era così forte da non farle sentire nulla. Hope strinse gli occhi e si tenne la testa con una mano. Si sentiva il cuore pulsare fuori dal petto; era come se l’aria si stesse improvvisamente esaurendo. Gridò, con il dubbio di farlo internamente, impedendo agli altri di sentirla. Lei, infatti, non udiva nulla.

    Quando tutto si fermò, riuscì subito a percepire la presenza di Riley, il quale le si era avvicinato così tanto da farla arrossire.

    «Hope, che ti prende?» era molto preoccupato. Quando la ragazza si tolse la mano dalla fronte vide che tutti la stavano guardando sbalorditi e spaventati.

    «Nulla, solo un forte mal di testa.» si alzò dalla sedia e fissò i suoi fratelli, uno per uno. Si guardò intorno. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, in quel giorno. «Vado... Vado a vedere se le galline hanno... Insomma, vado a vedere se hanno fatto le uova.» e, dopo aver preso un cestino di vimini dalla sedia a dondolo accanto al camino, uscì dalla porta, senza coprirsi, solo con la sua leggera divisa, camminando verso il pollaio.

    Cosa le stava succedendo? Perché quel giorno era come se la tristezza la stesse mangiando viva o danneggiando fisicamente? Era arrivata a metà strada, quando sentì la porta richiudersi. Fu a quel punto che si fermò e si voltò. Era Riley e anche lui aveva in mano un cestino.

    «Vengo con te.» le disse, ma Hope non sorrise, come avrebbe fatto in qualsiasi altra circostanza.

    «No, ti prego, non mi sento bene, voglio stare sola.»

    «Nessuno dice che ti parlerò o che ti starò attaccato per chiederti cos’hai o come stai.» Hope rimase in silenzio. «Non sottovalutarmi, non sono così stupido. Se vuoi stare sola, d’accordo, ma vorrei comunque tenerti d’occhio. Sei stata piuttosto strana, lì dentro.» lui sorrise e Hope perse un battito. Il suo sorriso era così bello, e lui era così buono.

    «Ascolta, Riley, non voglio scherzare, non voglio ridere, semplicemente voglio...»

    «Shh, zitta e muoviti: le galline aspettano.» disse infine lui, incamminandosi velocemente verso il pollaio.

    Hope sapeva che lui stesse facendo tutto questo per controllare che non le succedesse nulla o che non si sentisse di nuovo male, e sapeva che, anche supplicandolo, non avrebbe cambiato idea. Era fatto così: al constrario suo, otteneva sempre quello che voleva. Anche Hope si incamminò verso il pollaio, ma ancora non era riuscita a tirare fuori un sorriso.

    Improvvisamente, però, si sentì osservata.

    Girò lo sguardo intorno a sé e poi lo vide. Al di fuori del cancello, nascosto dietro un albero, nella foresta, c’era un uomo che la guardava. I suoi vestiti erano strappati e sporchi e la fissava senza l’ombra di un’emozione sul suo volto, spaventandola. Quando Hope fece per muoversi di un passo nella sua direzione, però, mentre lei sbatteva le palpebre incredula, lui scomparve. Scomparve nel nulla. Hope si sentiva disorientata: pensava di stare diventando pazza o di avere le allucinazioni.

    «Hope, se non hai nulla da fare, credo che qui siano tutte in combutta per uccidermi, ahi! Ehi, sta’ ferma con quel becco.» Hope sentì urlare Riley da dentro il pollaio e le sue labbra si curvarono, finalmente.

    Poi continuò a camminare verso di esso, senza smettere di pensare a che assurda giornata stesse vivendo.

    2

    Si guardò intorno.

    Hope era circondata da presenze incappucciate, tutte con addosso un lunghissimo mantello nero e un copricapo rosso. Non riusciva a vedere i loro volti e non capiva cosa stesse succedendo, se si dovesse sentire in pericolo oppure no.

    «Vieni con noi.» sentì. L’eco di quella frase le trapassò il cranio. Quando improvvisamente calò il silenzio, lei non riusciva comunque a distogliere il suo pensiero da quella voce lugubre.

    «È con noi il tuo posto.» Hope non sapeva dove si trovasse o perché non fosse all’orfanotrofio. Si sentiva terrorizzata e continuava a udire voci senza capire da dove provenissero. Le figure si avvicinavano sempre di più e lei non riusciva a immaginare un modo per fuggire senza che quel macabro gruppo di persone senza nome la vedesse. Da quelle parole e da come si muovevano, lentamente e nella sua direzione, Hope aveva l’impressione che volessero portarla via con loro. Lei non sarebbe andata proprio da nessuna parte però, non prima di aver capito cosa davvero volessero o che facce avessero.

    Così, in un impeto di coraggio, si fece avanti e sfilò il cappuccio ad uno di loro. Un gemito le uscì dalla gola. Il viso che c’era sotto ad esso non era un viso familiare e non era un viso normale: un lato della faccia era completamente bruciato. L’uomo che si era rivelato essere sotto quell’uniforme urlò di dolore. Fu un grido acuto. La ragazza si tappò le orecchie, mentre gli occhi dell’uomo si iniettarono di sangue. Poi la sua faccia iniziò a sciogliersi, a polverizzarsi, e l’uomo si accasciò a terra, lasciando solo cenere sotto il mantello ormai vuoto.

    Quando Hope ebbe il tempo di guardare gli altri, si accorse che tutti, ora, le stavano mostrando il loro vero aspetto, e che tutti avevano brutte ferite oppure erano stati pesantemente sfigurati. Si girava ovunque: voleva che la smettessero e voleva che anche lei la smettesse, di avere paura e di avere quello spettacolo orribile dinanzi ai suoi occhi. Uno di loro aveva un grosso taglio sul viso e il sangue vi sgorgava al di fuori ininterrottamente, un altro aveva una freccia nello stomaco e un altro stava soffocando. Hope muoveva la sua testa velocemente, cercando di evitare di incrociare quegli sguardi supplicanti.

    «Hope.» si voltò di scatto e notò che uno di loro non stava soffrendo. Era un uomo in vestiti d’epoca che non aveva il cappuccio tipico di tutti gli altri. «Che piacere rivederti, sei cresciuta molto.»

    Ridacchiò tra sé e sé, prima di rompere il collo ad uno degli incappucciati vicino a lui. Hope si fece scappare un urlo di sorpresa, accorgendosi di star tremando. Appena il pover’uomo cadde a terra, ormai morto, tutti quanti scomparvero. A Hope girava la testa, incapace di comprendere cosa stesse accadendo. Poi si fermò a guardare l’unica persona rimasta: l’uomo in vestiti d’epoca. Aveva degli occhi di un blu così intenso che le sembrò di affondare nel suo sguardo, contornati da un corpo decisamente di bell’aspetto: i suoi capelli erano ordinati e neri come il buio e il suo panciotto color sabbia gli segnava il corpo scolpito. La ragazza restò a fissarlo senza ricordare nulla di lui, anche nonostante l’uomo avesse affermato di averla già vista.

    «Ferma tutto questo, ti prego.» Hope si girò ancora una volta. La voce proveniva da un cappuccio rosso. Non si era accorta che ce ne fosse ancora uno, soltanto uno. «Sei l’unica che lo può fermare.»

    E poi, mentre Hope lo guardava, un coltello, volato a pochi centimetri dalla sua faccia, lo colpì alla gola. Hope urlò ancora, mettendosi le mani alla bocca. Era sconvolta. Si girò verso l’altro. Quei seducenti occhi azzurri facevano trasparire una natura malvagia. Hope era inorridita.

    Ma non fu troppo veloce da spostarsi, quando lui si avvicinò repentinamente a lei, respirandole in faccia e inserendole un pugnale nello stomaco.

    Si svegliò affannata e con la fronte bagnata.

    Non riusciva a dare una spiegazione a quell’incubo: non aveva mai conosciuto nessuna di quelle facce. Quando si toccò lo stomaco, fu felice di accorgersi che fosse tutto perfettamente in ordine. Non sapeva come ci si sentisse con un coltello piantato nella pelle e si era svegliata proprio nel momento in cui aveva realizzato che niente di tutto quello che stava vivendo fosse reale. Non smetteva di pensare a quelle povere anime o di essere intimorita dall’uomo che le aveva parlato.

    Si rese presto conto di essere davvero stupida a creare congetture intorno a quello che aveva visto in quel sogno. Era ovviamente frutto della sua fervida immaginazione. Non credeva nemmeno alla possibilità di spezzare il collo di un uomo con così tanta facilità o di lanciare un coltello a una notevole distanza colpendo perfettamente il bersaglio. Rise tra sé e sé: stava diventando ridicola.

    Guardò la sveglia, sorprendendosi della precisione con cui aveva deciso di svegliarsi: infatti, erano precisamente le cinque

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