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Una bambina cattiva
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E-book419 pagine6 ore

Una bambina cattiva

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Info su questo ebook

«Il miglior libro dell’anno.» Publishers Weekly

Per Suzette Jensen la nascita di Hanna è stata una benedizione. Le sue condizioni di salute sembravano escludere la possibilità di una gravidanza, ma alla fine lei e suo marito Alex hanno ottenuto la famiglia che avevano sempre desiderato. Hanna, però, a sette anni non ha ancora pronunciato neppure una parola. È riuscita a farsi espellere da tutte le scuole in cui l’hanno mandata, costringendo Suzette a seguirla a casa. Hanna è una bambina difficile. Capricciosa, aggressiva, diventa ogni giorno più ostile. L’unico momento in cui sembra calmarsi è quando suo padre è presente. Agli occhi di Alex, Hanna è il ritratto della brava bambina, un angioletto innocente che ha bisogno di affetto per sbloccarsi. Eppure Suzette sa che c’è molto di più. Sente che sua figlia non la ama, e sospetta che covi un odio viscerale nei suoi confronti. Un odio che peggiora fino a diventare una vera e propria minaccia…

Finalista ai Goodreads Choice Awards
Candidato al Bram Stoker Award

«Esplosivo.»
The New York Times

«Originale e sorprendente.»
USA Today

«Avvincente e inquietante.»
The New York Post

«Una lettura imperdibile.»
Bookish

«Il miglior libro dell’anno.»
Publishers Weekly
Zoje Stage
Vive a Pittsburgh ed è una regista con una predilezione per il buio e la suspense. Una bambina cattiva ha conquistato pubblico e critica, è diventato immediatamente un bestseller di «USA Today», si è aggiudicato il titolo di libro del mese per «People» ed «Entertainment Weekly» ed è stato finalista ai Goodreads Choice Awards e al Bram Stoker Award per il romanzo d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2019
ISBN9788822734136
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    Anteprima del libro

    Una bambina cattiva - Zoje Stage

    Hanna

    Forse la macchina riusciva a vedere le parole che lei non pronunciava mai. Forse brillavano nelle sue ossa. Forse, se le persone con i camici bianchi avessero ingrandito le foto, avrebbero visto i suoi pensieri, mappati come montagne e binari della ferrovia sulla spettrale immagine della sua testa. Hanna sapeva di non avere alcun problema. Ma la mamma aveva chiesto che controllassero. Per l’ennesima volta.

    La stanza nel sotterraneo dell’ospedale evocava la minaccia degli aghi e odorava di caramelle al limone avvelenate. Quando era piccola, la macchina la spaventava. Ma ora che aveva sette anni, faceva finta di essere un’astronauta. Il razzo spaziale girava emettendo dei suoni, mentre lei studiava le coordinate e ricontrollava la rotta. Dal finestrino rotondo, vedeva la Terra diventare sempre più piccola e sparire, poi si trovava nell’oscurità totale, con le stelle luccicanti che sfrecciavano via. Nessuno poteva prenderla. Sorrise.

    «Stai ferma, per favore. Abbiamo quasi finito. Sei stata bravissima».

    Il direttore di volo la guardò dal suo monitor. Hanna odiava quelli della torre di controllo, con i camici bianchi e le voci cantilenanti, i sorrisi di plastilina che diventavano smorfie tristi. Erano tutti uguali. Bugiardi.

    Hanna teneva le parole per sé perché le davano potere. Dentro di lei, conservavano la loro purezza. Esaminava la mamma e gli altri adulti, li studiava. Le parole cadevano come insetti morti dalle loro bocche. Papà era una persona speciale, e quando parlava uscivano farfalle e colori sussurrati che le toglievano il fiato. Dentro, lei era un caleidoscopio di esclamazioni esplosive, scoppiettanti, veloci, piene di meraviglia e punti interrogativi. Un turbinio di forme, e in ogni tasca segreta aveva nascosto un tesoro; a volte rubato, a volte trovato. Quando era più piccola, si era sforzata di esprimere ciò che aveva dentro. Ma erano uscite solo parole senza senso. Palline di vetro. Deludenti persino per lei. Si era esercitata, da sola nella sua stanza, ma dalla bocca le cadevano vermiciattoli, spaventosamente vivi, che le zampettavano addosso e sulle lenzuola. Li aveva cacciati. Li aveva osservati mentre fuggivano sotto la porta chiusa.

    Le parole, sempre inaffidabili, non erano amiche di nessuno.

    Ma, a essere sincera, c’era un altro motivo. Un vantaggio. Il suo silenzio faceva diventare matta la madre. La povera mamma le aveva fatto chiaramente capire, nell’arco di quei sette anni disperati, quanto desiderava che parlasse. La implorava persino.

    «Ti prego, piccola. Ma-mma. Ma-mma».

    Papà, invece, non la implorava mai e non ne faceva un dramma. Quando la teneva in braccio, i suoi occhi si illuminavano, come se stesse assistendo alla formazione di una supernova. Era l’unico che la vedesse davvero, perciò lei gli sorrideva ed era ricompensata da baci e solletico.

    «Bene, abbiamo finito», annunciò il direttore di volo.

    Dalla torre di controllo spinsero un bottone e la sua testa sgusciò fuori dal gigantesco tubo meccanico. Il razzo spaziale tornò sulla Terra e lei si ritrovò in un cratere di squallore. Emersero delle creature viscide. Una le tese le braccia e si offrì di riportarla dalla mamma, come se fosse un premio.

    «Sei stata bravissima!».

    Bugia. Lei non aveva fatto altro che tornare sulla Terra troppo presto. Non era difficile stare immobili, e tacere era il suo stato naturale. Permise alla donna di prenderla per mano, anche se non voleva tornare dalla sua mamma lunatica, in un’altra stanza soffocante. Avrebbe preferito esplorare gli infiniti corridoi dell’ospedale. Fare finta di camminare nelle budella di un drago gigante. Soffiando una fiammata rabbiosa, lui l’avrebbe catapultata in un altro mondo. Un mondo fatto per lei, dove poteva correre attraverso un’oscura foresta con la sua fidata spada, urlando il richiamo per evocare gli altri. I suoi servitori l’avrebbero seguita mentre guidava l’assalto. Squarci, schianti, grugniti e pugnalate. La sua spada avrebbe assaggiato il sangue.

    Suzette

    Le lisciò i capelli dietro alla testa: si erano arruffati durante l’esame.

    «Visto, Hanna, non è stato tanto brutto. Ora sentiamo cosa dice il dottore». Il sorriso forzato le fece venire un tic all’occhio. Se ne picchiettò l’angolo con il dito indice. L’assalì un brivido di terrore, che la turbò. Studi medici, ospedali: centri di tortura. La schiacciavano, come una massiccia lastra di pietra. Hanna era seduta con i gomiti sui braccioli della sedia, la testa incuneata tra le mani, assorta e inespressiva come se stesse davanti alla tivù. Suzette diede un’occhiata all’immagine incorniciata che aveva catturato l’interesse di sua figlia. Quadrati colorati. Seguendo i movimenti degli occhi di Hanna, cercò di indovinare se stesse contando il numero dei quadrati o se li stesse raggruppando in base alle tonalità di colore. Hanna fingeva di ignorarla e lei lesse il solito rimprovero nel suo rifiuto di guardarla. Dopo tanti anni, aveva perso il conto delle punizioni che le aveva inflitto sua figlia.

    Forse Hanna era ancora arrabbiata con lei perché erano finite le banane. Quella mattina aveva sbattuto i pugni sul tavolo, fissando con rabbia la tazza dei cereali. O magari non riusciva a perdonarle qualche presunta offesa della sera prima, o del mese precedente o dell’anno passato. Hanna non sapeva che era stata riluttante a portarla in ospedale per un’altra TAC (radiazioni cinquecento volte più alte di quelle di una singola radiografia), ma che alla fine aveva ceduto al volere di Alex. Le preoccupazioni di suo marito continuavano a basarsi sull’insistenza pragmatica che fosse un problema fisico a impedire il progresso verbale di Hanna. Non vedeva ciò che a lei appariva chiaro, e che non avrebbe mai potuto confidargli. Era stato un errore, fin dall’inizio: lei non sapeva fare la madre; perché avevano creduto che fosse una buona idea? Così lo assecondava. Nessun problema, avrebbero fatto riesaminare Hanna. Certo, dovevano scoprire se c’era qualcosa di sbagliato dal punto di vista fisiologico.

    Osservò sua figlia. Si somigliavano molto. I capelli nerissimi. I grandi occhi castani. Se solo avesse ereditato un po’ dei tratti nordici di Alex. Le aveva messo un bel vestitino, calze lunghe al ginocchio e scarpe Mary Jane. Lei indossava uno chemisier di seta, con una cintura allentata per mettere in risalto la sua figura, e scarpe costate una fortuna. Sapeva che era sciocco vestirsi eleganti per una visita medica, ma temeva le situazioni in cui potevano giudicarla come madre: così almeno nessuno avrebbe potuto dire che sua figlia sembrava malata o trascurata. Inoltre, aveva pochissime occasioni per indossare i vestiti più belli, perché passava tutto il tempo a casa con Hanna. Si metteva in tiro alle feste aziendali di Alex e adorava quando lui la seguiva con occhi bramosi mentre sorseggiava vino e chiacchierava, godendosi la rara compagnia di altri adulti. Ma le babysitter si rifiutavano di tornare, e alla fine si erano arresi. Alex, sempre attento e premuroso, andava di rado a quelle feste e ci restava poco, eppure… A lei mancava la naturale disinvoltura con cui si relazionava con Fiona, Sasha e Ngozi. Non aveva mai chiesto ad Alex se al lavoro parlavano di lei o si comportavano come se lei non esistesse più.

    Aspettava con ansia il responso del dottore, e le sue possibili critiche, battendo nervosa le dita sul braccio della figlia. Hanna lo ritrasse e abbassò il mento, ancora ipnotizzata dai quadrati colorati. Suzette aveva una postura troppo tesa: le gambe accavallate, le spalle contratte, le mani chiuse a pugno. Le parti morbide dell’addome si torcevano e gemevano in segno di protesta, mentre lei si faceva aria con le mani, cercando di rilassarsi. Erano trascorse otto settimane dall’intervento chirurgico e quella era la sua prima vera uscita. L’avevano eseguito in laparoscopia stavolta, perciò si era ripresa più in fretta, almeno in apparenza, benché avesse chiesto al dottore di sistemarle anche l’orrenda cicatrice, già che c’erano. Quella cicatrice deforme l’aveva sempre infastidita: una diagonale di quindici centimetri, storta e profonda come un canyon, a destra dell’ombelico. Alex insisteva nel dire che faceva parte della sua bellezza, della sua forza. Un marchio di sopravvivenza, un segno delle sofferenze che aveva sopportato da ragazzina. Ma lei non aveva certo bisogno di qualcosa che le ricordasse quegli anni solitari e disgustosi, il nemico che si portava dentro e la mortale indifferenza di sua madre. Il suo primo intervento, a diciassette anni, l’aveva spaventata così tanto che aveva rifiutato la nuova resezione raccomandata dal dottor Stefanski finché il suo intestino non era stato a rischio di perforazione. All’inizio, la stenosi le aveva provocato solo un po’ di dolore e Suzette aveva ridotto le fibre nella sua dieta. Confidava che la terapia pesante che seguiva, a base di un farmaco biologico iniettabile, avrebbe contenuto i sintomi peggiori del morbo di Crohn. E così era stato. Tuttavia, man mano che l’infiammazione diminuiva, era cresciuto del tessuto cicatriziale intorno alle strozzature nell’intestino.

    «Non ne prenda troppo!», aveva chiesto al chirurgo, implorante, come se lui stesse per rapinarla, invece di rimetterla in salute.

    Alex aveva baciato le sue mani contratte, con le nocche sbiancate. «Andrà tutto bene, älskling, ti sentirai molto meglio e potrai mangiare di più».

    Certo, erano considerazioni sensate. Se non fosse stato per il terrore cieco che le togliessero così tanto intestino tenue da perdere il diritto inalienabile di cagare nel gabinetto come una persona normale. Per altri era la quotidianità, vivevano con ileostomie e sacchetti attaccati alla pancia. Ma lei non ce la poteva fare. Solo a pensarci cominciò a scuotere la testa finché Hanna non si voltò di scatto e la fissò irritata, come se avesse già appestato la stanza.

    Suzette riprese il controllo di sé, almeno per quanto potesse notare sua figlia. Ma la sua mente diabolica continuò a mostrarle gli scenari peggiori, refrattaria alle distrazioni consolanti delle settimane successive all’intervento.

    E se le fosse venuta un’altra fistola?

    Era il timore che la perseguitava dal giorno in cui aveva acconsentito a programmare l’intervento. L’ultima volta, la fistola si era sviluppata circa sei settimane dopo la resezione d’emergenza. Una mattina si era svegliata come se avesse dormito sui mattoni, ma il peso era tutto nella sua pancia, una sacca di rifiuti che doveva essere svuotata. Erano passate otto settimane dall’operazione, quindi forse il pericolo era diminuito. Alex ripeteva le sue frasi fatte, tipo: «Una cosa per volta». Il dottor Stefanski diceva: «No, no, continui a fare le iniezioni, i marker dell’infiammazione sono bassi». Ma nella sua testa, il pus e la merda aspettavano dietro le quinte, e immaginava Alex costretto a svolgere il ruolo che era stato di sua madre, quello di badante, a cambiare gli impacchi sudici su una ferita che non guariva mai…

    Qualcuno bussò rapidamente alla porta dell’ambulatorio, dissipando i suoi pensieri. Talvolta la presenza di un medico peggiorava il trauma, ma il dottore era lì per Hanna, non per lei. E lei, a sua volta, era lì perché era una brava madre, una madre che si preoccupava per la salute della figlia, a differenza della sua, di madre. Si premette un palmo sulla pancia formicolante e si sforzò di sorridere mentre il nuovo dottore si faceva avanti, più grigio del precedente. Aveva le sopracciglia troppo folte e i peli del naso in bella mostra, per cui era difficile mantenere il contatto visivo.

    «Signora Jensen». Le strinse la mano.

    Aveva pronunciato male il suo cognome, come tutti del resto. Lei non ne faceva un dramma ma suo marito Alex, nato in Svezia ma residente negli Stati Uniti da diciannove anni, ancora non riusciva ad accettare il fatto che gli americani non avrebbero mai pronunciato una J come una Y. Il dottore si sedette su uno sgabello con le ruote e aprì la cartella di Hanna sul computer.

    «Non è cambiato nulla dalla TAC che ha fatto… Quando è stato? Due anni e mezzo fa? Gli esami clinici e strumentali non hanno rilevato nessuna anomalia del cranio, della mandibola, della gola, della bocca. È una buona notizia, no? Hanna è una bambina sana». Sorrise alla piccola, che gli dava le spalle.

    «Quindi… non c’è niente…?». Cercò di non far trapelare la delusione. «Avrebbe dovuto finire la prima elementare e non possiamo neanche mandarla a scuola, se non parla. Non ci sembra che abbia bisogno di essere inserita in una classe speciale. È intelligente. La faccio studiare a casa ed è molto brillante. Sa leggere, fare i conti…».

    «Signora Jensen…».

    «Ma non le farà bene… non le fa bene essere così isolata. Non ha amici, non interagisce con gli altri bambini. Abbiamo cercato di incoraggiarla, sostenerla. Dev’esserci qualcosa che possiamo fare, un modo per aiutarla…».

    «Conosco un ottimo logopedista, se Hanna ha problemi…».

    «Abbiamo già provato con la logopedia».

    «Potrebbero esaminarla per diverse cose. Aprassia verbale, disturbo semantico-pragmatico del linguaggio…». Sfogliò la sua cartella online, cercando qualcosa. «Forse un disturbo di elaborazione uditiva, benché mostri un quadro atipico. Ha fatto questi test?»

    «L’abbiamo sottoposta a ogni genere di esame. Il suo udito funziona, non soffre di debolezza muscolare, non ha problemi cognitivi. Ho perso il conto di tutti i test che ha fatto. Lei li fa volentieri, sembra quasi che si diverta, ma non vuole dire una parola».

    «Non vuole?». Il dottore si girò per guardarla in faccia.

    «Non vuole. Non può. Non lo so. È proprio… Stiamo cercando di scoprirlo».

    Suzette si agitò imbarazzata, mentre il dottore spostava la sua colta attenzione da lei a Hanna e viceversa. Sapeva cosa vedeva: la figlia, persa nei suoi pensieri; la madre, una donna ben vestita e pettinata, ma pur sempre nevrastenica.

    «Ha detto che sa leggere e scrivere? Potete comunicare in questo modo?»

    «Scrive le risposte sui libri di testo, pare senza nessun problema. Sappiamo che capisce. Ma quando le chiedi di scrivere ciò che pensa o vuole, una qualsiasi comunicazione reale… No, lei non ci parla così». Le mani cominciavano a farle male e se le guardò, un po’ stupita dalla forza con cui le torceva. Afferrò la cinghia della borsa e cominciò a strozzare quella. «Sa produrre alcuni suoni… quindi sappiamo che forse potrebbe farne altri. Sa sbuffare. Strillare. Canticchiare a bocca chiusa».

    «Se il problema è che si rifiuta… Non vuole richiede un altro tipo di dottore rispetto a non può».

    Suzette si sentì avvampare, come se le mani avessero cominciato a stringerle la gola per spremere via ogni residuo di vita. «Io… noi… non sappiamo più che fare. Non possiamo andare avanti così». Iniziò a boccheggiare.

    Il dottore intrecciò le dita e le rivolse un sorriso comprensivo, benché sbilenco. «I problemi comportamentali possono essere difficili da gestire quanto quelli fisici, forse anche di più».

    Lei annuì. «Mi chiedo sempre… Sto sbagliando qualcosa?»

    «Possono provocare tensioni in una famiglia, lo capisco. Forse è il momento di tentare con… Posso raccomandarle uno psicologo pediatrico. Non le consiglierei uno psichiatra, almeno finché non abbiamo una diagnosi. A questa età, non ci pensano due volte a prescrivere farmaci, e magari è qualcosa che riuscite a risolvere in altro modo».

    «Sì, lo preferisco, grazie».

    «Le manderò la richiesta di una visita specialistica tramite la sua compagnia di assicurazione…». Tornò al computer.

    Suzette smise di tormentare la cinghia della borsa, sentendosi quasi stordita per il sollievo. Sistemò una ciocca di capelli della figlia dietro l’orecchio.

    «Cerco di evitare sostanze chimiche tossiche», disse rivolta alle spalle curve del dottore. «Non tutte le medicine sono tossiche, ma come ha detto lei, si fa troppo presto a trovare una pillola per tutto, senza preoccuparsi degli effetti collaterali. Ma se non si tratta di una disabilità… Una soluzione naturale mi sembra una buona idea». Si voltò verso Hanna. «Risolveremo tutto. Troveremo qualcuno con cui potrai parlare».

    Hanna allontanò la sua mano con uno schiaffo e arricciò le labbra in una smorfia. Suzette le lanciò un’occhiata di avvertimento, poi sbirciò il dottore per assicurarsi che non avesse visto.

    Hanna saltò in piedi e andò a mettersi davanti alla porta a braccia conserte.

    «Solo un minuto, abbiamo quasi finito». Suzette assunse un tono infinitamente paziente.

    Girando sulla sedia, il dottore ridacchiò. «Non ti biasimo neanche un po’, signorina, rinchiusa in uno studio medico in una giornata così bella». Suzette si alzò insieme al dottore. «La richiesta probabilmente ci metterà un paio di giorni ad arrivare, a quel punto potrà prendere un appuntamento direttamente con la dottoressa Yamamoto. È una psicologa dello sviluppo ed è molto brava con i bambini, ha parecchia esperienza. Speriamo che Hanna riesca a comunicare con lei. Le daranno un riepilogo di tutte le informazioni all’uscita».

    «Grazie mille».

    «Magari potrà anche raccomandarle una scuola adatta».

    «Perfetto». Guardò la figlia, per niente sorpresa di vederla imbronciata. Con la sua pessima condotta, Hanna era riuscita a farsi cacciare da tre scuole materne e due asili nido. Suzette era arrivata a credere che la loro relazione madre-figlia sarebbe migliorata solo se si fossero allontanate un po’, magari quando Hanna sarebbe andata a scuola. E lei desiderava che la loro relazione migliorasse. Era stanca di urlare: «Hanna, smettila!», e forse era sbagliato che la sgridasse, ma c’erano infinite ragioni, grandi e piccole, che la spingevano a farlo. Staccava tutte le foglie dalle piante. Tirava ogni filo scucito le capitasse a tiro, distruggendo maglioni, tovaglie, qualsiasi cosa. Creava cocktail a base di succo d’arancia e solvente per smalto. Lanciava la palla contro le pareti di vetro del loro appartamento. La fissava a lungo, immobile, senza battere ciglio. Scagliava matite affilate come frecce. Hanna aveva modi creativi per divertirsi, la maggior parte dei quali era inammissibile.

    Siccome il dottore aveva confermato che non c’era alcun problema fisiologico, per salvaguardare la salute fisica e mentale di Suzette era arrivato il momento di convincere Alex che dovevano trovare una scuola per Hanna. Forse qualcun altro avrebbe avuto successo dove lei aveva fallito. Non poteva presentarglielo come un bisogno disperato di dedicare un po’ di tempo e spazio a se stessa; non doveva riguardare lei. Hanna si comportava in maniera piuttosto adorabile in presenza del padre, e spesso Alex vedeva immaturità dove lei scorgeva malizia, e attribuiva gli scherzi più provocatori all’intelligenza. Restava cieco alla propria ipocrisia, giustificava ogni cosa come normale e al tempo stesso esultava per la precocità della figlia. Dunque, quella sarebbe stata la sua argomentazione: Hanna era una bambina dotata e si annoiava; le servivano più stimoli di quelli che aveva a casa.

    In un modo o nell’altro, avrebbe impedito alla figlia di continuare a sabotare la sua vita.

    Mano nella mano, uscendo, si impegnarono in una gara silenziosa a chi stringeva più forte, mentre Suzette sorrideva alle infermiere.

    Hanna

    La mamma a volte era una piovra che brandiva una lama affilata con i tentacoli. Hanna riteneva giusto contrattaccare ogni volta che lei la feriva al cuore o la faceva sentire vergognosamente fragile. Non le era piaciuto quando il dottor Sopracciglia a Forma di Bruco l’aveva scrutata con la sua vista a raggi X, cercando di scovare cosa non andasse in lei. Non le era piaciuto il modo in cui la mamma aveva parlato di lei, come se fosse rotta. Cattiva. Inutile. Tanto più che era tutta una recita. La mamma voleva solo trovare un buon motivo per restituirla. Gliel’aveva già visto fare una volta, in un negozio.

    «È difettoso. Posso avere un rimborso?».

    Sapeva che la mamma voleva sbarazzarsi di lei; cercava sempre di abbandonarla. A quello serviva la scuola, benché lei avesse altre ragioni per opporsi. I rumori. I bambini appiccicosi. L’intenso panico scarlatto di non avere uno spazio per sé. Già quando aveva quattro anni aveva capito gli altri trucchi della mamma, come le babysitter. Era inaccettabile; continuava a fallire le prove per dimostrare il suo amore materno. E più falliva, più lei cercava di darle opportunità per redimersi. Anche se non era sempre sicura delle regole dei loro giochi di guerra. Si arrovellava il cervello, ma non riusciva proprio a ricordare chi avesse incominciato.

    Abha. Era l’ultima babysitter. Ricordava il suo nome perché somigliava agli ABBA, un gruppo musicale del Paese in cui era nato papà. Le piaceva quando lui le cantava Dancing Queen, tenendola stretta mentre ballava e faceva le giravolte. Non era stata colpa di Abha. Lei era pronta a esplodere ancora prima che la ragazza suonasse il campanello. Voleva mettersi il vestito elegante e andare alla festa dove gli amici di papà le avrebbero sorriso dicendole cose carine, che l’avrebbero fatta sentire piena di bollicine. Non voleva stare a casa, dimenticata, insieme a un’estranea con gli occhi da insetto.

    Ricordava di essere entrata in punta di piedi nella stanza della mamma. Quando l’aveva vista nel bagno, in piedi di fronte allo specchio con un abito che sembrava una macchia di petrolio, si era messa carponi sul pavimento ed era strisciata fino al suo lato del letto. Non era la sua prima missione di spionaggio e furto. Conosceva tutte le abitudini della mamma, come per esempio quella di scegliere sempre i gioielli prima di andarsi a vestire e di lasciarli come tesori perduti sul comodino. La mamma aveva deciso di indossare un paio di orecchini luccicanti a cerchio e una gemma color piscina appesa a una collanina.

    Hanna rubò gli orecchini dal comodino e scappò in camera sua.

    Non c’era molto tempo, la mamma era già pronta a uscire, così infilò gli orecchini in un piccolo buco nella schiena di Mungo. Mungo era una vecchissima scimmia di peluche che amava aiutarla a nascondere le cose. Indossò in fretta uno scintillante vestitino color lavanda. Le andava un po’ piccolo, non lo metteva da un pezzo, ma era la cosa più carina che avesse nell’armadio.

    Quando tornò nella camera dei suoi genitori, la mamma era ancora in bagno a mettersi il mascara, appoggiata al lavandino: un cumulo di neve su cui brillavano cristalli di ghiaccio sospesi in aria. Hanna entrò a passo di valzer, tenendo l’orlo increspato del vestito mentre faceva un paio di giravolte. Era ancora un vestito bellissimo, anche se le andava un po’ stretto sulle spalle.

    «Pensavo che ti stessi mettendo il pigiama». Il riflesso della mamma la fulminò con un occhio deforme.

    Hanna fece un saltello, poi la indicò. Sparisci, sparisci, sparisci, disse tra sé e sé.

    La mamma rimise il pennello nel tubetto e si girò verso di lei. Hanna era sicura che si sarebbe accorta del suo aspetto speciale, di quanto fosse raggiante, matura e pronta per la festa. Ridacchiò, pensando a papà che la portava in giro dicendo: «Non è bellissima la mia scoiattolina?»

    «Te l’ho già detto. E papà te l’ha spiegato stamattina. È una festa per grandi, non ci saranno bambini e il cibo e le bibite non saranno adatti per te. Inoltre devi andare a letto presto. La babysitter arriverà a momenti…».

    Hanna gettò indietro la testa e lanciò uno strillo di protesta. Quando la mamma uscì con passo marziale, le corse dietro afferrandole un lembo del vestito luccicante. Non era giusto. La mamma era stata indaffarata tutto il giorno: doveva sistemare tante cose prima della festa, doveva prepararsi. Era talmente ovvio. La sua voce giuliva quando aveva confermato la richiesta all’agenzia di babysitter, le continue domande a papà: «Ti serve altro? Devo portare qualcosa?». Hanna aveva cenato da sola, mentre la mamma si sistemava i capelli nel piccolo bagno al piano terra. Era ciò che aveva desiderato per tutto il giorno. Smettere di pensare a lei. Abbandonarla.

    Hanna tese le braccia e lasciò che fossero i polpastrelli a sussurrare la sua richiesta, con gentilezza, sul braccio nudo della mamma. Era il suo modo di dire per favore. Aveva un groppo in gola.

    Ma era troppo tardi. La mamma fissò il comodino.

    «Dove sono i miei orecchini?». Si allacciò la collana, senza smettere di cercare. Alzandosi il vestito, si chinò e perlustrò il pavimento con lo sguardo, passandoci sopra le mani come se gli orecchini fossero diventati invisibili. Quando la guardò, erano alla stessa altezza. «Hai preso tu i miei orecchini?».

    Hanna non si mosse. Non batté ciglio.

    «Erano diamanti. Un regalo costoso di… Li hai presi tu?».

    Suonò il campanello.

    La mamma si alzò. La sua pancia andava su e giù mentre respirava, fissandola infuriata.

    «Ti prego, Hanna. L’ultima volta, erano solo… Non avevano nessun valore, ma… Per favore».

    Nessun movimento. Nemmeno un battito di ciglia.

    Il campanello suonò di nuovo.

    La mamma sbuffò e uscì. Hanna le corse dietro. Magari avrebbe perso la pazienza e avrebbe mandato via la babysitter, poi avrebbe messo a soqquadro l’appartamento per cercare gli orecchini. Che spettacolo sarebbe stato, la mamma che faceva un casino! Hanna li avrebbe trovati e glieli avrebbe restituiti. E la mamma sarebbe stata così felice che l’avrebbe portata alla festa.

    Con il suo abito scuro e scintillante, sembrava un’onda che si infrangeva e colava giù dalle scale fino alla porta d’ingresso.

    «Ciao, grazie mille per essere venuta. Sono Suzette, lei è Hanna».

    «Ciao Hanna, sono Abha». Aveva capelli lisci e neri che le ricaddero sulle spalle quando si piegò per sorriderle.

    «Accomodati. Non sa ancora parlare…».

    «Sa usare il vasino?», domandò Abha, entrando.

    «Oh, certo».

    Hanna ruggì come un leone che avesse pestato una spina. La stupida Abha avrebbe rimpianto amaramente di averla presa per una bambina piccola; aveva quattro anni.

    La mamma le mostrò la cucina, «Serviti pure», e le spiegò come funzionava il telecomando della tivù: «Nel caso tu voglia guardare qualcosa».

    «Devo studiare un po’, dopo aver messo a letto Hanna».

    «Frequenti la Pitt?», le chiese la mamma.

    «Sì, sono al terzo anno».

    Hanna seguì il tour al piano di sopra, sempre più delusa e immusonita. La mamma intendeva comunque lasciarla con la babysitter, anche se non aveva trovato i preziosi orecchini di diamante.

    «Può darsi che Hanna faccia i capricci perché vuole dormire nella nostra stanza. Ci ha già provato con altre babysitter. Ma sa che deve dormire nel suo letto». La mamma accese la luce nella sua cameretta. «Può guardare la televisione per circa quindici minuti dopo che sarò uscita, ma poi deve andare a dormire. Puoi leggerle un libro».

    «Sembra vestita come una principessa. Sei una principessa?».

    È un abito da festa, idiota.

    «Ha un pigiama pulito sotto il cuscino».

    Abha le tese la mano. «Vuoi guardare un po’ di televisione? Che programma ti piace?».

    La mamma fece strada al pian terreno e Hanna non prese la mano della babysitter. «Sa quali canali ha il permesso di guardare. I nostri numeri di cellulare sono sul frigorifero…».

    Hanna corse avanti e saltò sul divano. Sentì un piccolo strappo, ma non se ne preoccupò. L’avrebbe mostrato a papà e lui avrebbe detto: «Ehi, dobbiamo comprare un vestito nuovo». Premette i piccoli pulsanti che controllavano il grosso televisore… Ma la mamma non aveva finito di parlare con Abha.

    «Ehm, ho chiesto all’agenzia di mandarmi una persona con molta esperienza, perché Hanna…». Incrociò il suo sguardo dall’altra parte della stanza. «Può essere una vera peste. Voglio solo accertarmi che tu sia davvero…».

    «Non si preoccupi. Ho un certificato di primo soccorso, so come intervenire se le va qualcosa di traverso. Ho fatto da tata per un anno a due gemelli di due anni, ho una sorella più piccola, un nipotino… Sono pratica di bambini».

    «Va bene, solo non vorrei che tu… Può essere difficile perché non parla. Quindi, per favore, chiama se la situazione… Non ci disturbi affatto».

    «Lo farò, non si preoccupi».

    «Buonanotte, piccola. Fai la brava». La mamma le soffiò un bacio che evaporò prima di raggiungerla sul divano. «Perché non ti metti il pigiama prima di guardare la tivù? Sei sicura di non sapere dove sono i miei orecchini?».

    Hanna alzò il volume del televisore, ma riuscì lo stesso a sentire quando la mamma uscì, chiudendosi dietro la porta. Abha si sedette accanto a lei e Hanna soffocò l’impulso di appendersi ai suoi lunghi capelli. La babysitter sorrise e lei la guardò in cagnesco. Finché una fitta allo stomaco le fece venire un’idea magnifica.

    Saltò in piedi e scavalcò lo schienale del divano, per correre al piano di sopra.

    «Vai a metterti il pigiama?», domandò Abha.

    Lei annuì, sorridendo, eccitata per l’esecuzione del piano.

    Aveva quasi finito di spogliarsi prima di arrivare in camera. Gettò il vestito a terra.

    Un minuto dopo, era sulla soglia del bagno, con le mutandine ai piedi, e cominciò a lamentarsi. Per sicurezza lanciò anche un paio di strilli, nel caso Abha non avesse sentito con il televisore acceso.

    La babysitter, spaventata, si precipitò su per le scale, e Hanna si sforzò di continuare a piangere, anche se avrebbe voluto ridere, vedendola alle prese con il problema: la pozza di pipì e la montagna di cacca che aveva lasciato per terra.

    «Oh, no, hai avuto un piccolo incidente?».

    Hanna annuì, continuando a piangere.

    «Be’, adesso puliamo, non c’è problema». Ma Abha arricciò il naso e Hanna sapeva che era un disastro disgustoso. Ecco cosa meritava la babysitter per aver pensato che non sapesse usare il gabinetto.

    Si fece lavare e mettere il pigiama da Abha, anche se avrebbe potuto benissimo farlo da sola. Incrociò le gambe e si appoggiò alla ringhiera del corridoio, ansiosa di vedere la tecnica di Abha per pulire la cacca e la pipì. Conosceva quella della mamma, l’aveva persino vista all’opera una volta, quando aveva solo due anni e legittimamente non era riuscita ad arrivare in tempo al vasino. La mamma teneva guanti e prodotti per le pulizie sotto ogni lavandino, ma Abha non lo sapeva.

    La babysitter stava lì, con le mani sui fianchi, a riflettere sul da farsi. «La mamma tiene le spugne e i detersivi in cucina?».

    Hanna annuì, succhiandosi le labbra per non sorridere. Stava diventando una serata interessante, tutto sommato. Saltellò dietro la babysitter, osservando elettrizzata ogni sua mossa.

    Abha si tolse gli anelli d’argento e li posò sul bancone della cucina. Hanna li trovò così interessanti che quasi si dimenticò di lei. Annuì quando la babysitter fece una domanda e la lasciò tornare da sola al piano di sopra con i tovaglioli di carta, i guanti e i prodotti per le pulizie.

    Erano quattro anelli, ognuno allettante a modo suo. Ma alla fine scelse il più piccolo, una treccia con una pietra rossa al centro. Sapeva che più tardi Abha avrebbe chiesto: «Dov’è finito il mio anello?», e non voleva un’altra gara di resistenza, immobile, senza battere ciglio, così decise di andare a letto. Ma prima nascose il telecomando, così Abha sarebbe stata costretta a guardare cartoni rumorosi per tutta la sera.

    Quando arrivò in cima alle scale, lo sporco non c’era più e Abha stava carponi a strofinare il pavimento. Hanna sbadigliò e si diresse in camera sua.

    «Pronta per andare a letto?».

    Fece di sì con la testa.

    «Appena finisco vengo a rimboccarti le coperte».

    Prima di infilarsi sotto le lenzuola, offrì a Mungo un altro tesoro da custodire. Sentì Abha nella stanza accanto che si lavava le mani

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