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Quarantine Prophets. Futuro fragile
Quarantine Prophets. Futuro fragile
Quarantine Prophets. Futuro fragile
E-book579 pagine8 ore

Quarantine Prophets. Futuro fragile

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Info su questo ebook

Qualcuno vorrebbe curarli. Qualcuno vorrebbe sfruttarli. Tutti vogliono catturarli.
Un nuovo tipo di prigione. Un gruppo di profeti rinchiusi contro la loro volontà.
Una guardia carceraria tormentata dal passato. Un amore nascosto nel futuro.


Sam fa la guardia carceraria. Non per scelta ma quasi per caso, dopo aver fallito l’addestramento militare. Vive giornate tutte uguali, con una vena violenta che cerca di tenere sotto controllo e una depressione non diagnosticata. Ma un’occasione inaspettata lo conduce a Clearwell, una struttura di quarantena nel nord degli Stati Uniti. È stata costruita di recente, per ospitare gli individui di cui tutti parlano di continuo alla radio, in tv, sui social: i cosiddetti profeti. Persone che improvvisamente manifestano capacità di chiaroveggenza, alterazione della percezione, manipolazione delle memorie altrui. È l’occasione per avere una nuova vita. A Clearwell – il Pozzo, lo chiamano alcuni – Sam trova uno scopo. Si sente utile. E il suo carattere duro, a tratti violento, è apprezzato dai suoi superiori. Ma un giorno viene colpito da una visione, vede il futuro, e il suo presente cambia per sempre. Perché ora è uno di loro. Da secondino passa a prigioniero, rinchiuso nella struttura insieme agli altri profeti.

Disprezzato dai suoi ex-colleghi e odiato dagli altri detenuti, dovrà cercare in ogni futuro possibile una via di fuga dalla fortezza, per se stesso e per Mikaela, la profeta di cui si è innamorato pur senza averla mai vista in volto, poiché il suo aspetto cambia costantemente agli occhi di chi la guarda. Sam ha sbagliato tutto nella vita. Ma intende almeno salvare lei. La sua ragazza sfocata.

Quarantine Prophets – Futuro fragile è il primo tassello di un grande progetto mai tentato prima in Italia: la creazione di un nuovo universo narrativo.

Fabio Guaglione, visionario regista milanese, e una squadra di giovani scrittori e sceneggiatori di talento stanno dando vita a storie fantastiche, popolate di personaggi indimenticabili, che saranno pubblicate al tempo stesso come romanzi, da HarperCollins, e come graphic novel, da Panini Comics.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2021
ISBN9788830532991
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    Anteprima del libro

    Quarantine Prophets. Futuro fragile - Luca Speranzoni

    1

    Perle leggere di sangue si posano sul volto di Samuel, come la nebbia fine che arriccia il naso d’inverno. Ansimando, alza di nuovo il manganello. Il braccio è già stanco dopo due colpi. Ne abbatte un terzo, mentre il detenuto si copre la nuca. Dall’esterno della cella si sentono già le urla dei prigionieri, che chiamano altre guardie o gridano insulti. Il momento durerà poco, Sam lo sa. Presto ci saranno altre guardie e altre grida. Non ne vale la pena, lascia perdere, segui il protocollo. Ma Sam sa anche che momenti come questi, in cui tutto pare rallentare per lasciare spazio alla violenza, durano più di quanto sembri. Ci sarebbe tutto il tempo per altri tre o quattro colpi sulla testa di Andres, se lo volesse. Ma anche tutto il tempo per il detenuto di afferrare un serramanico da sotto il materasso, voltarsi e spingerglielo nel gozzo. Momenti come questo durano un’eternità. Quello che deve succedere succede, poi il tempo inizia a scorrere di nuovo.

    Andres si gira su se stesso, proteggendosi dal manganello, e prova a fargli perdere l’equilibrio. Sam lo colpisce alla gola con il manico del manganello, e Andres molla la presa. Gli colpisce le gambe, spezza il suo equilibrio, e lo fa cadere in ginocchio. L’uomo si mette a strisciare sul pavimento. Si nasconde sotto la branda, le mani sempre alla nuca, i piedi che spingono sul suolo di cemento per allontanarsi, come uno scarafaggio quando accendi la luce in cucina. Sam resta immobile per un lungo istante, le guance rosse di adrenalina, poi si porta il walkie-talkie al volto, e preme il pulsante con il mento.

    «Sospetto di contrabbando, cella 34 blocco B» dice semplicemente.

    Poi si piega a fatica, oltre il proprio addome prominente, e afferra Andres per le caviglie. Il detenuto inizia di nuovo a gridare mentre Sam lo tira fuori da sotto la branda e gli stringe i polsi dietro la schiena, appoggiando il ginocchio sui suoi glutei, come da manuale.

    «Fermo. Stai fermo» gli dice mentre lui si dibatte.

    Poi passi di stivali pesanti d’ordinanza che riecheggiano tutto attorno e una mano si posa sulla sua spalla. Jurgen, il capo secondino, gli dice che adesso può lasciarlo andare.

    Altre guardie portano via Andres che fa scena, grida, si fa trascinare a peso morto. Sam si riassetta l’uniforme, stranamente immacolata, e si pulisce il volto dal sangue.

    «Che succede qui, Burrow?» chiede Jurgen.

    «Il solito. Contrabbando. Un vecchio cellulare, è sotto il lavello.»

    Sam si piega e recupera l’apparecchio dallo schermo crepato, incollato con lo scotch al tubo di scarico.

    «Un cellulare. E c’era bisogno di mandarlo all’ospedale?»

    «Nossignore. Ha reagito. Aveva intenzioni ostili, sono dovuto intervenire.»

    «È quello il problema. Intervieni troppo spesso per i miei gusti. Scrivi un rapporto, poi vai a casa. Aspettati una convocazione dal direttore. Cos’è, la quarta quest’anno?»

    «La terza.»

    «E pulisci il pavimento prima di chiudere» aggiunge Jurgen, prima di scavalcare una macchia a terra e scomparire al di là delle sbarre.

    Sam si siede sulla branda, il materasso sottile scomposto, per metà sul pavimento. Non ansima quasi più.

    Lo sapeva. Da quando ha visto Andres prendere qualcosa di mano a uno di quelli nuovi, uno di una gang ecuadoregna. Sapeva già come sarebbe andata. Avrebbe finto di effettuare un controllo a caso. Andres non l’avrebbe bevuta e si sarebbe opposto. Lui sarebbe entrato nella cella con la forza, Andres lo avrebbe spintonato, e lui avrebbe dovuto reagire di manganello.

    Ed è andata così. Nessuna sorpresa. Fin troppo facile prevederlo.

    Convocato tre volte dal direttore, due note di demerito in un anno. Jurgen ha ragione, è troppo. Ma finge di non sapere che entrambe le note erano in relazione ad Andres. Finge di non sapere che qualcuno, prima o poi, deve provare a fare il suo lavoro e metterlo in riga.

    Sam si alza dalla branda, stanco. Pulisce a terra con uno straccio preso dal letto di Andres, poi lo butta nel lavello e si dirige agli armadietti. Sorseggia caffè gelido dal termos e mette tutto nella borsa, poi si abbottona la camicia e si allaccia le scarpe. Si traveste da civile, timbra il cartellino e se ne va. È pomeriggio, ma non c’è luce fuori. L’inverno arriva anche in New Mexico, qualche volta.

    Sam raggiunge la Mercury e sale a bordo. Infila la chiave, ma non mette ancora in moto. È arrabbiato. Certo: è sempre arrabbiato. Ma ora, in qualche modo, lo è di più. Una terza convocazione per quella merda, un terzo demerito. E siamo solo a ottobre.

    Andres è il tipo di detenuto che Sam odia più di tutti. Non lo ammetterebbe mai, naturalmente, se non con altri secondini. Perché è solo con loro che non dovrebbe spiegarsi. Parlare con la gente fuori è diverso, devi stare attento a quello che dici. Devi mentire. Devi sentirti dire che sei razzista, o fascista, da persone che non capiscono quanto poco potere quelle parole abbiano qui dentro. Non è il colore della pelle. Non è la politica, o la classe sociale. Quello che divide loro da noi – loro da lui – sono gli occhi.

    Hanno occhi tutti diversi, quando arrivano in galera. Occhi spaventati, occhi sfidanti. Oppure ottusi, opachi. Occhi che guardano dappertutto, all’erta. Ma prima o poi quegli occhi cambiano. Perdono qualcosa. Iniziano ad assomigliarsi tra loro. Prendono atto della situazione e non appena capiscono che non c’è niente di niente da vedere, smettono di guardare in giro. Guardano solo fissi davanti a sé o, se Sam è nei dintorni, guardano lui. Non per paura né per rispetto, ma solo perché per qualche anno sarà lui a regolare le loro vite. Lo guardano come guardano passare le stagioni dalla finestra, oltre le sbarre. Quegli occhi li riconoscerebbe ovunque, anche là fuori.

    Un barista di Starbucks con un tatuaggio sull’avambraccio, coperto dalle maniche lunghe. Una donna che porta a spasso il cane. Uno spazzino dal sorriso triste. Gente normale, che ha lottato per tornare a guardare il mondo in maniera diversa. In maniera normale.

    Poi, però, ci sono detenuti i cui occhi non cambiano mai. Sono quelli ai quali non si può voltare le spalle. Quelli come Andres. Non è perché non si piegano al sistema o alla prigionia che i loro oggi restano uguali. Figurarsi. Tutti si piegano. No, quelli sono gli occhi di persone che sono in prigione anche quando sono a piede libero. Sono gli occhi di chi è cresciuto in cattività, là fuori, di chi per tutta la vita si è sentito intrappolato da una gabbia invisibile, le cui regole sono sempre sfuggite alla sua comprensione. Una gabbia fatta della famiglia sbagliata, degli amici sbagliati, degli amori sbagliati. Fatta di polvere e fumo, di pastiglie e incoscienza.

    Per loro entrare in un carcere non fa differenza. Anzi, alcuni sembrano quasi felici. Sam lo ha visto con i suoi occhi. Finalmente la gabbia è visibile, sembrano dire. Finalmente ne conosco i confini. Si sentono a casa.

    Ecco. Per Andres e quelli come lui, questa è una casa. Ed è Sam a essere loro ospite.

    Gira la chiave. La Mercury si mette in moto, con un lungo sospiro.

    2

    Nel 1995 Sam ha dodici anni.

    Esce dall’edificio centrale della Sidney Gutierrez Middle School di Roswell. Nei telefilm le scuole sono sempre alte, color laterizio, assediate da erba verde e giochi per bambini. La Sidney Gutierrez è bassa e larga, rossa come una macchia di aranciata sul tappeto. Un unico piano che si stende davanti a una distesa brulla. Come a dire: qui non siamo in tv.

    La ricreazione è troppo lunga e in cortile non ci sono giochi, quindi Sam si fruga in tasca e conta un dollaro e settanta centesimi. Abbastanza per un panino: per questo la mamma gli dà sempre la stessa cifra, ogni mattina. Ma Sam non vuole mai un panino. Un dollaro e cinquanta comprano anche una merendina e una Coca al distributore. Sono cose che le mamme non sanno. I venti centesimi che avanzano li mette sempre via, nella scatola da scarpe che tiene sotto il letto, nella sua cameretta. Ci potrebbe comprare un fumetto alla fine del mese, o un giro alle giostre ogni sabato.

    Svoltando attorno all’edificio raggiunge il campo di basket di terra battuta, lo supera e si dirige verso il fabbricato secondario, dove c’è la palestra. E, soprattutto, il distributore di merendine. Mentre passa dal corridoio, sente ridere da una delle classi con la porta aperta. Poi i passi rumorosi di Kyle Laughton, che lo raggiungono in corridoio. E se c’è Kyle, Sam non ha bisogno di voltarsi per sapere che ci sono anche Morty e Vivian.

    «Ehi, Sammy. Vai a comprare una merendina? Hai abbastanza soldi?»

    «Ciao Kyle.»

    «Avete fatto una colletta nei bassifondi? Lo sai che se hai bisogno puoi sempre chiedere al tuo amico Kyle, no?»

    «Non siamo amici.»

    Gli altri ragazzini non lo ascoltano, naturalmente. Non lo ascoltano mai.

    «No, non ha fatto nessuna colletta. Non vedi che gli cadono i pantaloni?» dice Morty. «Sono quelli del Salvation Army. Mi sa che li ha donati mia madre l’anno scorso.»

    Poi, a lui: «Sono gli stessi, Sammy? Che dici? Ridammi i miei pantaloni. Ho cambiato idea. Li rivoglio!».

    Vivian ride. Kyle dice in giro che è la sua ragazza, ma non si sono neanche baciati. Sam la conosce bene. Vive nel suo stesso quartiere. È povera anche lei, come lui. Ma forse per lei è diverso, forse alle ragazze è permesso essere povere se sono carine. Sam non lo sa. Ci sono tante cose che non capisce, a dodici anni. Ma sa riconoscere un nemico quando lo vede.

    «Cos’hai da ridere, Vivian? Ieri in classe hai detto che tua madre ha preso il tuo nome dal suo film preferito. Ma lo sai chi era, quella Vivian lì? Me lo ha detto mia mamma. E si è messa a ridere.»

    Sam fa un passo avanti. Kyle è teso. La sua espressione fintamente bonaria si incupisce di colpo.

    «Ehi. Non parlarle così.»

    Sam fa un altro passo verso di lui. Stringe i pugni ai fianchi, e fissa Kyle dritto negli occhi.

    «Era una puttana» dice semplicemente.

    Kyle si fa avanti per spintonarlo, ma Sam lo colpisce al volto senza aspettare. I suoi pugni sono deboli, non fanno male. Ma il gesto è sufficiente. Morty gli dà un calcio alla gamba e Kyle lo spinge contro il muro. Vivian grida.

    Sam sa cosa fare, l’ha visto in un film. Inarca il collo per far scattare la testa in avanti e dargli una testata. Ma non ha idea di come si faccia. Finisce per colpire il naso di Kyle con il proprio. Le due piccole facce si scontrano. Fa un male cane. Quando la voce del preside McKinney risuona nel corridoio, Sam ha finito le idee.

    «Cosa pensate di fare voi quattro?»

    Nessuno risponde.

    Sam attende nell’ufficio del preside per due ore prima che sua madre venga a prenderlo. Gli altri tre hanno aspettato venti minuti al massimo ma Linda, sua madre, doveva finire il turno, non poteva uscire prima dal lavoro. Così Sam ha dovuto sorbirsi due ore di ramanzina e gli sguardi ostili dei genitori degli altri tre. Sam sa solo che deve trattenere le lacrime, perché Clint Eastwood non piange mai. Ma vorrebbe gridare. Cosa c’è di me che non vi va bene? Cos’è che è così inaccettabile? E perché non mi dite come fare a cambiarlo, invece di sfottermi e basta? Vorrebbe chiederlo anche al preside, ma McKinney non è il tipo d’uomo che gli darebbe una risposta. Lo guarderebbe solamente, implorandolo con gli occhi di tenere duro per un altro anno. Poi non sarà più un suo problema.

    D’improvviso la porta si apre, e Linda Burrow entra nell’ufficio. È bellissima, sua madre. Anche con le borse sotto gli occhi e le braccia rese troppo toniche dal lavoro, scoperte per l’afa, non per vanità. Ha lunghi capelli marroni… no, castani. Si dice castani. E occhi grigio chiaro, sempre stanchi, sempre dolci.

    «Sono venuta appena ho potuto» dice.

    «Ah, signora Burrow. Sì. Quello che è successo oggi è molto grave, non il tipo di condotta che ci aspettiamo qui, alla Sidney Gutierrez. Spero che capirà che ci dovranno essere provvedimenti.»

    «Certo, capisco. Vuole fissare una data in cui ci saranno anche gli altri genitori, così potremo parlarne tutti insieme?»

    McKinney resta in silenzio.

    «Dei provvedimenti, intendo. Di certo non sarà solo Sammy a dover essere punito. O sbaglio?»

    «Be’, Kyle Laughton ha un labbro insanguinato.»

    «E gli altri due? Sa a chi mi riferisco, Morty e la figlia degli Spencer, Vivian. Gli altri due che hanno preso parte alla rissa contro mio figlio… loro come stanno? Niente di grave spero. Erano tre contro uno, giusto?»

    McKinney si alza sulla sedia: «Questo non lo sappiamo. Non è stato stabilito esattamente cosa…».

    Linda prende Sam per mano e lo fa alzare dalla sedia.

    «Ah, non lo sapete. Ho capito. Allora direi che è presto per parlare di provvedimenti, no? Ditemi qualcosa quando ricostruite la scena del crimine» aggiunge Linda. E Sam sorride.

    La donna lo trascina per il cortile polveroso fino alla macchina, una vecchia Ford grigia che un tempo apparteneva al nonno, senza dire una parola.

    Una volta all’interno Sam esplode: «Sei stata fighissima!».

    «Ah, sì?» dice Linda, senza emozione. Le mani strette sul volante, lo sguardo fisso sul parabrezza.

    «Sì! Neanche McKinney si azzarda a dirti niente. Sei tipo… la mamma più forte. Senza dubbio più di quella cicciona della madre di Kyle.» Sam si mette in ginocchio sul sedile.

    L’ilarità dura poco, pochissimo. Sam intravede sotto le ciglia finte di Linda una singola lacrima che si accumula, pronta a cadere, sul margine dell’occhio destro.

    Si risiede, sorpreso. Spaventato. È un’altra delle cose che non capisce. Quello che non capisce gli fa paura, perché raramente è qualcosa di bello.

    «Perché fai così, Sam?» chiede Linda, con un filo di voce. «Non ti basta che parlino tutti di noi, che ti guardino in quel modo in tutta la scuola? Devi anche comportarti così, e dargliene una ragione?»

    «Ma… mi hanno detto delle cose brutte. Sui vestiti, che sono povero. Cose così. Hanno iniziato loro.» Sam non sa cosa dire. Non sa come consolarla, come quando la vede piangere dalla soglia del salotto, di notte, quando pensa che lui stia già dormendo.

    «Lo so. Quella è colpa mia. Se si può chiamare colpa. Non ho i soldi per comprarti i vestiti nuovi, o le scarpe. Saremo l’unica famiglia che non ha il computer a casa.»

    «Ma a me non importa, mamma!»

    «Lo so, tesoro. Però ascolta quello che ti sto dicendo. È colpa mia se ti guardano in quel modo. Ma devi capire che il tuo lavoro, il tuo scopo, non deve essere dargli ragione. Devi dargli torto, Sammy. Se ti guardano come se fossi inferiore, devi dargli torto e dimostrargli quanto vali. Se pensano che sarai sicuramente violento, per via del quartiere in cui vivi o per qualsiasi altra ragione, non devi mai esserlo. Questo puoi farlo solo tu. Non per me. Per te.»

    «Ma se mi insultano non posso fargliela passare liscia. Non è giusto.»

    Linda si volta verso di lui per la prima volta da quando sono saliti in macchina. Il suo sguardo è severo. Le lacrime tentennano ancora sulle ciglia. Non cadranno più, ormai.

    «E un labbro che sanguina è giusto? È questa la punizione che cambierà il loro comportamento? No, Sammy. Sei grande ormai. Devi capire che picchiare qualcuno non è giustizia. Lo fai solo per te, per sentirti meglio. Lo sai chi ragiona così? Non i bravi bambini. Ma i criminali.»

    Sam pensa per un lungo istante. Adesso viene da piangere anche a lui.

    «Come papà» aggiunge solamente.

    «Sì, esatto» dice Linda, mentre in pochi istanti lo sguardo le si addolcisce. Come un temporale inevitabile e necessario, che lascia il posto a un cielo sereno, quando ha finito. «I criminali come papà.»

    «Scusa mamma» dice Sam, mentre allunga le braccia per farsi abbracciare, ancora piccolo, sul sedile della Ford.

    «No. Sei un Burrow, noi non chiediamo scusa, ricordi? Cosa diciamo?»

    «Farò meglio la prossima volta» dice Sam.

    «Niente più violenza, ok?»

    «Ok» sussurra Sam, mentre la abbraccia più forte.

    «Allora…» fa lei, imitando un tono imperioso, «gelato!»

    3

    Casa di Sam è su una bassa collina.

    La Mercury percorre il viale lungo e stretto. Con una sola manovra, sempre la stessa da otto anni, si infila nel garage e smette di sbuffare. I fanali restano accesi per qualche secondo, illuminando il cortile polveroso, poi Sam resta al buio nell’abitacolo. Alcuni dei suoi vicini spendono chissà quanto di irrigazione ogni mese cercando di far crescere l’erba, cosa che lui non ha mai nemmeno considerato. Il New Mexico è un deserto e lui, che è nato e cresciuto a Roswell, a circa trecento chilometri da Santa Fe, è una creatura del deserto. Come una di quelle piante che crescono dappertutto, nonostante tutto, anche sulle pareti dei canyon, e che le persone riconoscono solo per via dei cartoni di Willy il Coyote.

    Scende dalla macchina, si accende una sigaretta. Chiude il garage. L’aria è polverosa, ma sa che è perché è tornato a casa prima del solito. Per via dell’incidente con Andres. Quando si fa sera, la polvere dei venti pomeridiani si posa e l’aria è secca ma pulita. Ama stare seduto sotto il suo semplice portico, annusando l’aria, la sera, con le luci di Santa Fe ai suoi piedi – abbastanza lontane che la mattina gli ci vogliono venti minuti per arrivare al lavoro – ma non stasera. Stasera vuole bere.

    La sua è una bella casa. O, perlomeno, più bella di quanto ci si aspetterebbe dallo stipendio di una guardia carceraria. Grazie a Vivian, soprattutto. Tuttavia, negli ultimi anni il legno sbeccato delle pareti e l’odore leggero del muschio in cantina gli ricordano sempre più spesso che andrebbe ristrutturata. Ma non ha i soldi per farlo, né l’inclinazione. Linda, sua madre, non ha fatto in tempo a vederla, quella casa. Ma ne sarebbe stata fiera.

    Sam raggiunge il bagno, si fa una doccia. Si lava via il sangue di Andres dal viso. Piccole croste cadono nell’acqua corrente e scompaiono. Esce, e si guarda allo specchio mentre si asciuga i capelli. Sono troppo lunghi e l’attaccatura è alta, evanescente. Deve ricordarsi di tagliarli prima di vedere il direttore, o le note di demerito diventeranno due. Le sue braccia sono ancora forti quanto lo erano quando giocava a football, anche se meno definite; il resto del suo corpo, invece, peggiora impercettibilmente ogni volta che si guarda allo specchio. Un disastro al rallentatore. Il petto robusto, con poche lentiggini, sovrasta un addome disteso, largo. Sam non ha idea di quando abbia trovato il tempo di ingrassare. I peli sono sempre meno, chissà perché. Forse, per quando arriverà ai quaranta, sarà completamente glabro. I capelli, che si rapprendono sul capo come una bassa marea che si ritira, certamente sembrano prometterlo.

    Sam si butta sul divano, poi si accorge di aver dimenticato la birra sul tavolo. Troppo tardi. Chiude gli occhi e riposa. La testa gli esplode.

    Il cellulare, sul divano al suo fianco, ha aspettato il momento migliore per suonare. Sam impreca e per farlo smettere clicca sul pulsante del telefono verde prima di guardare il display. Poi legge il nome e impreca di nuovo.

    Vivian.

    «Sam?»

    «Ciao Viv. Come stai?»

    «Incazzata nera, se vuoi saperlo.»

    «Niente di nuovo, allora» dice Sam. Sa che non dovrebbe provocarla, ma è più forte di lui. Si porta le dita alla base del naso, strofinandolo, preparandosi alla conversazione.

    «Wow. Quand’è che sei diventato spiritoso?»

    «Lo sono sempre stato. Sei tu che hai smesso di ridere.»

    C’è una lunga pausa. Nessuno dei due dice niente. Sam accende la televisione sulla CNN, e abbassa subito il volume fino allo zero, leggendo le notizie in sovrimpressione.

    «Sai perché sono incazzata, Sam?»

    «Perché mi hai chiamato. E parlare con me ti fa incazzare.»

    «E perché sono costretta a chiamarti ogni santissima settimana? Lo sai?»

    «Sì, Viv. Lo so.» Un’altra pausa. «Oggi ho avuto un altro richiamo disciplinare» dice. Non sa nemmeno lui perché.

    «Cazzo. Che hai fatto stavolta?»

    «Il mio lavoro» risponde Sam, sbuffando mentre si alza dal divano per raggiungere la birra.

    «Be’, smettila allora. Se continui così ti licenziano, e poi come lo paghi il mantenimento?» La voce di Vivian è esasperata, ma poi cambia tono, ne affetta uno quasi dolce. «Senti. Non possiamo andare avanti così. Sto diventando una stronza. Non è quello che voglio, non sono così.»

    «Lo so» dice Sam. In tv una donna con un camice abbagliante parla di qualcosa. Il virus, probabilmente. Quello di cui parlano ventiquattr’ore su ventiquattro, da settimane. L’anchor annuisce compunto. «Vuoi la casa.»

    «Voglio quello che mi spetta. Potrei trascinarti in tribunale e dividere tutto a metà. Mia madre insiste. Ma sappiamo entrambi che se ti mettessi a pagare un avvocato non rimarrebbe niente. Non è quello che voglio. Non voglio che tu finisca in mezzo a una strada.»

    «È per questo che vuoi prenderti la mia casa? Per non farmi finire in strada?»

    «La casa è di tutti e due. L’abbiamo presa insieme.» Un gemito di frustrazione all’altro capo del telefono, e Sam lo allontana dall’orecchio con una smorfia. «Sei incredibile. Non si può parlare con te.» Dopo un momento di silenzio, il tono di Vivian è più diretto, meno coinvolto. «La scelta è tua. O mi intesti la tua parte della casa, e la chiudiamo lì, o finiamo in tribunale come la gente ricca. Decidi, poi fammi sapere.»

    «Sarà fatto» dice Sam. «Ehi, Viv, ti ricordi di Kyle? Laughton. Quello delle medie.»

    «Certo che mi ricordo. Perché?»

    «Niente. Mi è tornato in mente mentre guidavo. Chissà che fine avrà fatto.»

    «Ho sentito che vive ancora a Roswell. Avrei dovuto restarci anch’io, non seguirti qui, nella cazzo di Santa Fe. Tanto, se dovevi finire a fare il secondino, potevi farlo anche lì.»

    «No. Qui lavoro nella massima sicurezza. È più importante.»

    «Voglio la casa, Sam.»

    «Lo so.»

    «Fammi sapere cosa decidi. E, Sam?»

    La dottoressa in tv mostra dei grafici, che riempiono lo schermo. Sam non ha idea di cosa indichino. Qualcosa di brutto, a giudicare dalle facce.

    «… Non chiamarmi Viv.»

    La telefonata si chiude di colpo. La tv, adesso con un po’ di volume, parla di vettore di contagio. Una freccia rossa in aumento sull’asse ortogonale.

    Vivian… Rivedersi dopo dieci anni dalle scuole medie. Lui sportivo, sicuro di sé, pericoloso. Lei bella. No, non bella. Linda era bella. Vivian era sexy, questo sì. Ritrovarsi, passare le notti a scopare e bere e parlare del futuro. Sposarsi troppo presto, passare tre anni felici e quattro d’inferno. Una storia banale.

    Poi il divorzio e le telefonate al veleno, l’unico punto di contatto con un passato recente, ma perduto.

    Sam sorbisce un ultimo sorso di birra, quasi tutta schiuma amara, e spegne la tv. Troppo tardi per il letto, il divano dovrà bastare.

    Vivian è convinta che è per questo che non le ha ancora intestato la casa, Sam lo sa bene. Perché pensa che gli faccia piacere sentirla ogni tanto, nonostante tutto.

    Magari ha ragione.

    4

    La mattina successiva Sam esita, davanti al suo armadietto, nello spogliatoio delle guardie, con la chiave nella serratura lasciata lì a penzolare. La porta alle sue spalle si apre ed entra Jurgen. Sam si affretta a girare la chiave e aprire l’anta di metallo. All’interno solo un cambio d’abiti, munizioni, e la divisa.

    Jurgen tira l’acqua nel piccolo bagno adiacente.

    «Non c’è nessuna lettera» dice Sam al collega, mentre si lava le mani.

    «Uh?»

    «Nessuna convocazione dal direttore. Per il casino con Andres di ieri.»

    «Io gliel’ho segnalato. Ho dovuto. Si sarà dimenticato… o ha altro a cui pensare. Meglio, no?»

    Sam si limita ad annuire e chiude l’armadietto.

    «Sbrigati, c’è quella riunione stamattina. Tra cinque minuti sei in ritardo» dice Jurgen.

    «Sì, lo so. Quella sul virus.»

    «Ma stai bene? Dormi?»

    «Avrò dormito dieci ore stanotte.»

    «Be’ hai un aspetto orribile. Ci vediamo là.»

    Jurgen esce dallo spogliatoio. Sam chiude l’armadietto. Tre minuti per arrivare alla sala riunioni. C’è il tempo per un caffè.

    Sam raggiunge la sala e si siede a fianco di una delle reclute, una ragazza sovrappeso dal sorriso contagioso. Lara? Layla? Una cosa così. Lo stanzone è affollato di secondini dallo sguardo annoiato, disposti a ferro di cavallo, e al centro ci sono un uomo e una donna in borghese, e il direttore Torres.

    La sala riunioni della prigione sembra una cella più grande delle altre. Muri di mattone esposto, pochi tavoli di metallo, telecamere puntate. Viene usata anche per gli incontri supervisionati dei detenuti con i loro familiari. Le mattonelle del pavimento risplendono, appena lucidate.

    La donna in borghese appoggia una serie di cartelloni su un treppiede da presentazioni.

    Poche file più in là, Jurgen riprende tutto con il cellulare.

    La recluta si sporge verso Sam e sussurra: «Ma tu ci credi a questa storia?».

    Prima che lui possa rispondere, il direttore prende la parola.

    «Questi sono il signor Matthews e la dottoressa Stevens» dichiara, con voce decisa. «Sapete tutti perché siete qui. Questa situazione per il governo, e per noi dell’istituto correttivo di Santa Fe, è della massima importanza. Quindi mi aspetto che prestiate attenzione, prendiate appunti e facciate domande, se ne avete. Dopo non ce ne sarà più occasione. Tutto chiaro?»

    Un coro dissonante di signorsì si alza dalla folla in divisa. Poi l’uomo in borghese – Matthews – prende la parola con un passo avanti.

    «Buongiorno a tutti. So che è mattina presto, e che la metà di voi non si è ancora svegliata. Sembra la fine dell’Alba dei Morti Viventi qua dentro.»

    Risate educate spezzano la tensione nella sala.

    «Un ottimo esempio della tipica pianificazione governativa: c’è una cosa fondamentale da dire, quindi diciamola quando meno persone possibili sono disposte ad ascoltare.»

    Un’altra risata collettiva, più convinta stavolta.

    «Ma voglio che vi sia chiaro: quello di cui vi parleremo stamane è fondamentale. Una situazione che si sta sviluppando da settimane, ormai, e che non accenna a fermarsi. Voi dovete esserne a conoscenza e imparare come gestirla in sicurezza, o le conseguenze potrebbero essere disastrose. Che sia mattina presto o no.»

    Le risatine lasciano posto a un silenzio vigile. Alcuni dei secondini si guardano, incerti.

    «Non so cosa abbiate sentito sui canali di informazione o letto su Internet. Questa è la ventitreesima presentazione che facciamo in istituti penali e generalmente la conoscenza del problema che abbiamo riscontrato è stata piuttosto bassa. Ma sottovalutare la situazione è un lusso che non ci possiamo concedere. Quindi: cosa sapete di questo virus?»

    «Che non è un virus» sussurra la recluta. Sam sente la mentina che sta ancora masticando, nel suo alito.

    Una voce si alza dalle guardie: Jurgens. «La malattia dei profeti» dice sogghignando. Alcuni attorno a lui scuotono la testa, divertiti.

    «C’è chi la chiama così, è vero. C’è anche chi pensa che non sia neanche un virus.»

    La recluta – Lara o Layla – abbassa lo sguardo.

    «Non preoccupatevi. Siamo qui per parlarne. Potete intervenire quando volete» dice l’uomo, mentre alle sue spalle l’espressione cupa del direttore Torres dice l’esatto contrario. «È vero, non sappiamo se sia un virus, in realtà. Non abbiamo identificato il patogeno, non ancora. Ma quello che sappiamo è che si comporta esattamente come un virus. È contagioso, anaerobico, si diffonde per contatto con i fluidi corporei, e rende il contagiato infettivo a sua volta. Quindi, che sia o meno un virus non ci interessa per il momento. Lo trattiamo come tale. Perché lui ci tratta come tale.»

    Qualche cenno di assenso nella sala, altri hanno lo sguardo perso nel vuoto. Sam li capisce. Vorrebbe piuttosto parlare con Torres di quello che è successo ieri con Andres. Spiegarsi. O vorrebbe tornare al lavoro. Queste presentazioni sono sempre simili. Sempre inutili. Il loro lavoro, una volta concluse, rimane sempre lo stesso. A prescindere da quello che viene detto.

    «Per quanto riguarda quello che ha detto il vostro collega, invece… noi non usiamo quella definizione. I profeti stanno bene nella Bibbia, e oggi non è domenica. Noi la chiamiamo meningite allucinatoria, anche se non ha niente a che vedere con il batterio che causa la meningite classica. Tuttavia, i sintomi sono abbastanza simili da giustificare il nome, per ora. Ed è estremamente pericolosa.»

    Nella sala scende il silenzio. Qualche sguardo preoccupato, mentre Jurgens abbassa il telefonino in grembo ma continua a filmare.

    «Lascio la parola alla dottoressa Stevens per i particolari sui sintomi e sulle procedure da seguire. Ma ricordate quello che vi ho detto. Siete tenuti ad ascoltare e a prendere questa situazione sul serio. È essenziale, per la vostra sicurezza e per quella dei detenuti.»

    La donna in borghese si fa avanti. Alcune delle guardie percorrono il suo corpo con lo sguardo, studiando il tailleur e i tacchi a spillo, senza sottigliezza. A Sam piacerebbe poter dire di non essere uno di questi.

    «Il morbo si presenta dapprima con sintomi comuni. È quella che chiamiamo, al momento, la fase 1. Difficoltà a dormire, mancanza di equilibrio improvvisa, cambiamento della personalità e delle preferenze. Potrebbe essere qualcosa di banale, come una persona che di colpo mangia un gusto di gelato che ha sempre evitato, o qualcosa di evidente, come giorni di insonnia patologica o episodi dissociativi. È importante iniziare a riconoscere il morbo in questa fase, quando ancora può essere isolato e contenuto. La fase 2 è quella che avete probabilmente visto al telegiornale. Schizofrenia, megalomania, episodi allucinatori acuti. Il cervello smette di interpretare correttamente gli input che riceve dai sensi del contagiato e attribuisce all’esperienza un valore… mistico. Si convince di vedere il futuro, o il passato, o persino nelle menti delle altre persone. In questa fase il contagiato diventa imprevedibile e, pertanto, pericoloso.»

    Matthews si fa avanti, interrompendola, e svela il primo cartello di spesso cartone bianco, posato sul treppiede. Si legge chiaramente una stampa ingrandita di un articolo di giornale.

    «Ricorderete tutti il padre di famiglia dell’Ohio che ha ucciso la moglie davanti ai figli, pochi giorni fa, convinto di evitarle così una lenta e dolorosa morte per cancro. Se non fosse che la donna era sana come un pesce. O il senzatetto di Houston che ha ucciso due anziani nel loro salotto, solo per rubare un biglietto della lotteria del mese prossimo.»

    La dottoressa Stevens lotta per riguadagnare il palco, con una scherzosa ma decisa gomitata nelle costole di Matthews. Alcune guardie sogghignano.

    «Sì, grazie. Come ha detto il mio collega, non siamo ancora stati in grado di isolare il patogeno, ma quello che sappiamo per certo è che si sta diffondendo con una rapidità allarmante. E sappiamo tutti cosa voglia dire, ci siamo già passati in un certo senso. Per questo è di primaria importanza che tutti coloro che lavorano a contatto con il pubblico, soprattutto un pubblico così vulnerabile al contagio, siano addestrati a gestire l’eventuale insorgenza di sintomi in sistemi chiusi, come questa prigione. O anche un supermercato, una riunione di famiglia, un evento sportivo, nel corso della vostra vita privata.»

    La prima slide di cartone viene sostituita da una seconda, che riporta lo stesso grafico con la freccia rossa che Sam ha visto in tv la sera prima. Poi, subito dopo, il terzo e ultimo cartonato. Su di esso spicca una lista, impaginata in un semplice foglio di Excel. La dottoressa legge punto per punto, a voce alta e chiara.

    «Punto primo. D’ora in avanti, non toccate nessuna persona, a eccezione della famiglia, senza indossare guanti regolamentari. Venti paia di guanti riutilizzabili a testa vi verranno fornite dall’approvvigionamento della prigione. Punto secondo. In situazioni di estrema prossimità, o di contatto prolungato nella stessa stanza, indossate sempre le mascherine. Punto terzo, il più importante. Se uno dei vostri colleghi, uno dei detenuti o persino un amico o un familiare manifestano sintomi simili a quelli elencati prima, contattate immediatamente il CDC o il numero verde messo a disposizione dal governo. Segnalateli immediatamente così che si possa intervenire in modo tempestivo, e aiutarli per tempo. È per il loro bene.»

    Mezz’ora dopo, Sam cammina per i corridoi rialzati di metallo, lungo la sua ronda. Ci sono stati altri quindici minuti di discorsi, di orientamento, dopo l’ultimo cartonato, ma già adesso fatica a ricordarne il contenuto. Quello che ricorda senza fatica, invece, sono le occhiate che i colleghi si sono scambiati alla fine della presentazione. Alcuni si guardavano, cercando rassicurazione. Alcuni facevano capannello attorno a Jurgen, che continuava a sogghignare, e scherzavano. Minimizzavano. Ma ce n’erano altri – sei o sette, non di più – che sembravano sinceramente preoccupati. Come fosse tutto vero. Ognuno teneva lo sguardo fisso davanti a sé, immerso nei propri pensieri.

    Sam se ne vergogna, adesso. Ma quello che ha pensato in quel momento è che quegli sguardi assomigliassero allo sguardo dei prigionieri. Lo stesso di Andres, e di tutti gli altri.

    Incredibile cosa la gente sia disposta a credere se a parlare è una persona in camice.

    Sam arriva alla fine della passerella di metallo, scende le scale; la sua ronda termina in fondo al corridoio, poi deve tornare indietro. Con la coda dell’occhio vede Jurgen, per la prima volta senza sorrisetto beffardo, spingere in avanti un detenuto per portarlo alla sala visite. Ci mette meno forza del solito. Come se fosse, per la prima volta, reticente al contatto.

    5

    Nel 2001 Sam ha diciotto anni.

    Chiuso nella sua stanza, strimpella senza convinzione la vecchia chitarra che suo zio gli ha regalato per il compleanno. Gli accordi sono semplici e corretti. Non perché Sam abbia talento, ma solo perché si limita a suonare sempre gli stessi, senza provare davvero a migliorarsi. Mentre muove le dita sulle corde si guarda riflesso nello specchio a figura intera che divide il suo letto troppo piccolo, da bambino, dalla scrivania ingombra di fogli e compiti mai terminati. Vuole vedersi come lo vedrebbe un’altra persona mentre suona; magari una ragazza, magari Vivian Spencer, della sezione F. Ma l’immagine restituita dallo specchio non lo colpisce. Oltre i pruriti delle prime cotte, oltre la voglia di sentirsi ammirato e forte, adulto, nell’arduo affare del crescere, in lui è nata una profonda rabbia che non è mai scomparsa. Non la rivolge verso gli altri, se non occasionalmente, come nel caso del labbro di Kyle Laughton. Negli anni si sono aggiunte altre labbra, altre mascelle slogate e denti saltati e nocche livide, da tenere sempre nascoste alla mamma, a qualunque costo. La sua rabbia è sempre stata una voragine, un buco vigile e vorace al centro del petto che divora tutto quello che tocca, senza soddisfarsi mai. Rabbia per essere troppo povero, sì. Per il padre dal passato criminale che li ha abbandonati – lui e Linda – tanti anni fa. E per una volontà di rivalsa, di affermazione di sé, che Sam inizia già a sospettare che non si realizzerà mai.

    Poi, quella pubertà che lo ha colpito come un’esondazione, trascinando gli anni delle superiori con sé, confondendo e distorcendo quello che sentiva, ha lentamente iniziato a ritirarsi; a tornare negli argini o a disseccarsi al sole. E quello che ha lasciato dietro di sé, come un paesotto distrutto, è il ragazzo che vede nello specchio ora. Con qualche pelo di barba troppo lungo, occhi grigi penetranti, un cenno di muscoli sui bicipiti, una t-shirt slavata, il colletto ricucito di recente. Un ragazzo che a breve potrebbe iniziare a definirsi un uomo, con sguardo circospetto, sperando che nessuno se ne accorga.

    Sam sa di non conoscersi meglio oggi di cinque anni fa. Quel cambiamento che si aspettava, in grado di trasformare un ragazzino in adulto, lui non lo ha mai vissuto. Spera che sia solo perché non se lo è ancora guadagnato, perché l’alternativa sarebbe ammettere che non c’è un momento così nella vita di nessuno, e che gli adulti non sono altro che un gruppo di ragazzini spaventati con i capelli bianchi.

    A poca distanza, nel salotto, la serratura principale scatta due volte e infine la porta si apre. Linda Burrow entra in casa, le braccia cariche di buste di plastica gialla della spesa, mentre l’ultima nota di chitarra resta sospesa testardamente nell’appartamento.

    «Spesa!» dichiara Linda, e Sam scatta in piedi come un soldato.

    Solleva le borse dalle mani della madre, che ne porta sempre troppe alla volta, e le appoggia sul banco sbrecciato della cucina.

    «Ho preso i pancake, quelli buoni» ansima Linda, sedendosi sulla poltrona mentre Sam inizia ad archiviare il cibo negli scomparti del frigorifero.

    «Mi sto allenando, mamma. Non posso mangiarli.»

    Linda lo guarda con fare sospettoso. «In che senso?»

    «Sono pieni di zucchero…»

    Linda annuisce, soddisfatta. «Sarà meglio. Con quel che li ho pagati.»

    Sam sorride. Linda sa farlo ridere, da sempre. Ma è più di questo. Quando è con lei, le cose hanno senso. Riesce a ragionare meglio se lo fa in sua presenza. Anche se lei non dice nulla. Quando è solo i suoi pensieri sono… intasati. Non scorrono come dovrebbero. Come se troppe idee si affollassero tutte insieme, e inciampassero l’una sull’altra creando una pila inutile.

    Gli occhi di Linda sono velati di stanchezza, è solo pomeriggio, ma ha iniziato il primo lavoro alle tre della notte precedente. E ha fatto due full-time da allora.

    «Vai a riposarti» le dice Sam, stando attento a non far trasparire preoccupazione dalla sua voce. Linda non lo accetterebbe.

    «Quando sarò stanca ci andrò» dice lei. Poi, lentamente, si dirige al tavolino del salotto e inizia ad aprire la posta. Mette da parte le pubblicità, e ordina in fila le bollette. Poi sospira.

    «Niente, anche oggi. Nessuna lettera da Hobbs, o Las Cruces. Cazzo, nemmeno dal Community college.» Poi, girandosi verso il figlio: «Scusa il linguaggio. Mi è scappato… non dovrei neanche dirlo Community college. Sei un Burrow, dopotutto».

    Sam ridacchia, bevendo una spremuta. Il pomeriggio si fa sera, ma in New Mexico la temperatura è sempre alta d’estate. Sudare è un’abitudine.

    «Nessun Burrow, che io sappia, è mai stato al college. Quindi non so a cosa ti riferisci…»

    Linda si volta verso Sam di scatto. «Lo zio Ernie!» esclamano insieme, mentre Sam sogghigna. Sapeva perfettamente cosa avrebbe detto la madre.

    «Lo so, lo so. Lo zio Ernie ha studiato allevamento bestiame, e adesso coltiva marijuana. Questo è lo studioso della famiglia.»

    Linda ripone la posta nel portadocumenti di pelle consunta, e si alza dal tavolo.

    «E va bene. Parliamone» dice, facendo cenno a Sam di sedersi di fianco a lei sul divano. «Piano B.»

    Sam si siede al suo fianco. Sapeva da giorni che questo momento sarebbe arrivato, ora che la scuola stava per finire. Ma sperava di poterlo evitare ancora un po’.

    «Piano B» ripete Sam. «Se non mi accettano al college, intendi.»

    Linda scuote la testa. «No, no. Piano B: come allargare la cernita. Se non arriva una lettera a breve dovremo pensare a delle università fuori dallo stato. Arizona, magari anche California.»

    Sam abbassa lo sguardo. «Certo. California.»

    «Cos’hai da mugugnare?»

    «Hai vinto alla lotteria stamattina? Senza dirmelo? Perché se non è così, direi che la California è fuori dal nostro budget. Che, ti ricordo, è zero dollari.»

    Linda si appoggia allo schienale, esausta. «Va bene, allora dimmelo tu qual è il piano B.»

    Sam non dice nulla. Avrebbe voglia di abbracciarla, adesso. Non sa nemmeno lui perché non lo fa. Forse perché non è pronto ad ammettere a se stesso quanto, negli ultimi mesi, quella donna indistruttibile gli sembri piccola. Compressa dal peso del mondo, si rifiuta di piegarsi.

    «Forse il college non fa per me» dice infine Sam, sapendo di essere sul punto di ferire la sola persona che ama. «Voglio dire, i miei voti sono quello che sono. I costi sono quelli che sono.»

    Linda si alza dalla sua posizione comoda e gli afferra il braccio. Da qualche parte, chissà dove, trova le forze.

    «Non dirlo neanche per scherzo. Il college è il tuo futuro.» Nei suoi occhi c’è una preghiera silenziosa, ma Sam non può più tacere. È giunto il momento di parlare chiaro.

    «Ci credi veramente, mamma? Quanti dei tuoi colleghi cassieri hanno una laurea? Metà?»

    Linda stringe gli occhi. «Questo non…»

    Ma Sam la interrompe: «E quale college pensi che mi accetterebbe? Non uno di quelli buoni, di quelli che farebbero la differenza. Ma anche quelli più sfigati costano come una casa. Dovresti continuare a spaccarti la schiena così, come ora, o anche di più. E tra quattro anni sarei da capo. Sempre senza un lavoro, sempre dipendente da te. Non è questo che voglio».

    Linda resta un lungo momento in silenzio.

    «E cos’è che vuoi, sentiamo» dice poi con voce flebile, esausta, diversa da quella a cui Sam è abituato, la voce che di solito rimbomba per la casa come un colpo di fucile.

    «Non lo so» ammette infine. «Non questo. Lo sai anche tu che non ho mai compilato una sola domanda per il college. Hai fatto tutto tu. A volte penso che quello che vorrei veramente sarebbe scambiarmi di posto con te, mamma. Andare al lavoro al posto tuo.»

    «E io che farei? Starei qui in casa, servita e riverita? Non ho bisogno che pensi a me. Credi che la mia vita sia stata così uno schifo?» Il tono di Linda si alza, infervorato.

    Ma Sam sogghigna, e si limita a rispondere: «Certo».

    La madre strabuzza gli occhi per un istante, poi la sua espressione si addolcisce, e la sua risata strana, leggiadra, riempie il salotto. «Non hai torto» dice lei. Ridono insieme. Poi lei gli prende il mento tra le dita e lo guarda negli occhi. «Ma ho te.»

    Si abbracciano per un lungo istante. Poi si separano e si guardano. Sanno entrambi che non è ancora finita. Come per un’operazione chirurgica hanno inciso la carne ma devono ancora rimuovere l’infezione.

    «Il piano B» dice Sam «è l’esercito.»

    Linda balza in piedi, pronta a protestare. Sam continua, senza lasciarla parlare. Questo è il momento di farsi valere, di dirle l’unica cosa che non ha condiviso con lei.

    «Lì potrò studiare. Forse anche laurearmi, con il tempo. Lo stipendio è buono, riuscirei a mandare qualcosa a casa ogni mese. E non peserei più su di te. I pancake li pagherebbe lo zio Sam. Tu potresti lavorare meno, e io potrei essere indipendente.»

    «Lo stipendio è buono, hai ragione» dice Linda. Poi, con voce tonante, furiosa: «Perché siamo in guerra, imbecille! Se ti arruoli adesso è quasi certo che ti mandino

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