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E-book265 pagine3 ore

Prendimi, se mi vuoi

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Info su questo ebook

La prima volta che mi sentii osservata, uscivo di scuola per tornare al Saint Mary. La seconda volta mi sembrò di sentire qualcuno alle mie spalle, mentre attraversavo la strada per rientrare in orfanotrofi o. E la terza volta, quella sensazione diventò realtà il giorno in cui seppi di essere stata adottata dal mio carnefice. Avevo sedici anni quando fui catturata dal cacciatore. Da una gabbia di violenze psicologiche e regole rigide ero finita dentro un’altra gabbia di violenze fi siche e regole impossibili. Potevo usare la mia mente con astuzia per attaccare, e il mio corpo come arma di difesa. Tanto più mi mostravo remissiva, meno male ricevevo. Avevo una vendetta da riscattare e una libertà da riconquistare. Dovevo scegliere tra me e lui. Tra dolore e piacere. Tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Qualunque decisione avessi preso il mio destino era già segnato, con violenze e droga. 

Nella nuova casa sono in vigore delle regole:
1. Mai dire di no a qualunque sua richiesta.
2. Testa bassa e sguardo chino.
3. Niente domande.
4. Nessuna speranza.

«Una storia intensa che ti prende dalla prima pagina e fino alla fine non riesci a staccarti.»
Rose

«Uno dei libri più belli e intriganti che abbia mai letto, amo questo genere!»
Virgy

«Questo libro è semplicemente fantastico! Non ti stanchi mai di leggerlo.»

Ella Gai
È lo pseudonimo di una giovane regista e documentarista che vive a Roma. Odiare Amare Baciare, inizialmente autopubblicato, è stato accolto con enorme favore dalle blogger e dai lettori italiani arrivando in vetta alle classifiche dei libri più venduti sul web.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2019
ISBN9788822733085
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    Anteprima del libro

    Prendimi, se mi vuoi - Ella Gai

    Capitolo 1

    «Charlie, sbrigati! Charlie?!», sussurra allarmata Jennifer. Infilo in borsa, alla rinfusa, i tester di trucco prima che la commessa faccia il giro largo tra gli scaffali di make-up e torni di nuovo a chiedermi se ho bisogno di aiuto.

    «Muoviti!», mi incita Jennifer con un sottotono isterico. La vedo fare il palo da un paio di espositori più avanti, mentre fingo di guardare senza alcun interesse i prodotti.

    Non faccio in tempo ad alzare leggermente il capo che vedo la signorina del negozio avanzare con aria minacciosa. Se non ha ancora notato cosa sto facendo, presto lo vedrà. Rubo le ultime cose che riesco a far scivolare in borsa e con passo lento, per non dare nell’occhio, raggiungo la mia amica che finge di provare un nuovo rossetto sulla mano.

    «Hai preso tutto?», mi chiede volgendo lo sguardo oltre me.

    «Secondo te?», ribatto con aria superba.

    Sul viso le appare un sorriso entusiastico. «Andiamocene!», riprende quando vede la commessa raggiungere il punto in cui mi trovavo io.

    «Ora!», scandisce decisa.

    Una volta fuori dal negozio, facciamo il nostro solito salto nel bagno del centro commerciale.

    La prima regola della nostra associazione a delinquere è dividere il bottino, perciò, nascoste dietro la traballante porta del bagno delle donne, che blocchiamo con la schiena, spargiamo sul pavimento i nostri piccoli furti: alcuni tester di make-up, un fermacapelli con gli strass, uno shampoo alle erbe e un paio di smalti.

    «Solo questo?!», si lamenta come al solito Jennifer.

    «Scusa se ho preso poco!», ribatto.

    «La prossima volta fai tu il palo», precisa.

    «Continui a ripeterlo però poi quella che fa il lavoro sporco sono sempre io». In realtà so molto bene che sarò solo io quella che ruberà. Non voglio che lei rischi e venga presa dalla sicurezza e poi schedata. Io sono più veloce, più lesta, più furba di lei. L’unico motivo per il quale mi sento così protettiva nei confronti di Jennifer è che le voglio bene. Troppo.

    «Lo farò, stanne certa!», mi avvisa. Mentre esamina le cose rubate, io affino l’udito per ascoltare i rumori dietro la porta. Essere beccate ora, con il bottino tra le mani, sarebbe davvero un paradosso dopo tanta fatica.

    La maggior parte delle volte lascio che sia Jennifer a prendere le cose migliori. Glielo devo. Lei è la mia migliore amica. Lei è la sorella di sangue che non ho mai avuto. Se non fosse per lei, chissà a quest’ora dove sarei. Molto probabilmente segregata nelle cantine della nostra casa a marcire e diventare cibo per i topi. E poi, non sono una ragazza che dà importanza alle cose materiali, non l’ho mai fatto e mai lo farò. Quando vivi tutta la tua vita in un posto come il Saint Mary, impari in fretta a non tenere nulla per te. Quello che hai oggi, domani potresti non averlo più. Niente ti appartiene. Niente è mai realmente tuo. Per quello che so della mia vita, sono stata abbandonata da mia madre o mio padre davanti al portone dell’orfanotrofio una gelida notte di dicembre di sedici anni fa. Non conosco nulla del mondo se non quello che ho provato in tutti i modi a mie spese. Vivo al Saint Mary da sempre, quelle mura rappresentano l’unica casa che abbia mai avuto, nonostante sia l’inferno per tutte noi. È lì che ho appreso come vivere alla giornata, a tirare fuori le unghie e a non affezionarmi agli oggetti, perché il giorno prima li avevi e il giorno dopo non c’erano più, ma soprattutto ho imparato a non affezionarmi alle persone. Mai! L’unica eccezione è Jennifer. Senza di lei il mio mondo cadrebbe a pezzi. Lei è la mia bussola. Il mio ago della bilancia, il mio tutto.

    «Dammi anche il rimmel», pretende con un broncio bizzarro. «L’ho finito. E poi, in tutta franchezza, quello che abbiamo preso l’altra volta fa davvero schifo», dice esasperata con un gesto di disgusto.

    «La prossima volta dobbiamo prendere anche del latte detergente. Quello che sto usando ha un odore nauseante. Mi lascia tutti i residui di trucco sul cuscino. E sta diventando difficile togliere le macchie di fondotinta con quella merda di sapone che ci danno. Lo sai, poi, come strilla la Madame», mi ricorda con la sua parlantina svelta.

    So molto bene cosa è in grado di escogitare la Madame per noi, e come possa farci ritornare sulla retta via. Se solo scoprisse cosa combiniamo io e Jennifer, forse ci butterebbe nelle celle sotterranee dell’istituto e getterebbe via la chiave obbligandoci a passare il resto dei nostri giorni segregate lì e lontane dal mondo. Non che la vita delle orfane abbia importanza per qualcuno. Se sei viva o sei morta per la gente non conta nulla. Sei solo uno dei tanti mocciosi concepiti da una teenager che ti ha abbandonato dopo averti dato alla luce. Ecco cosa sei!

    Ancora due anni di sacrifici e questa vita di merda finirà e io e Jennifer saremo libere di andare dove vorremo. Ho già architettato un piano perfetto per sopravvivere, qualcosa che ci farà restare a galla prima di conquistare il nostro posto in società.

    Se non fosse per la nostra Madame, la responsabile del settore B, forse la nostra esistenza non sarebbe così pessima. Lei è quella che ci controlla e ci comanda su tutto. Perciò è meglio non inimicarsela mai. Se vuole rovinarti, lo può fare in modi davvero atroci, e soprattutto che lasciano un segno indelebile.

    «Lo so, non c’è bisogno che me lo ricordi», specifico subito dopo alla mia amica. Annuisco e apro lo zaino per rimettere dentro quello che Jennifer non ha voluto per sé.

    «Dai, muoviamoci», mi esorta mentre si alza. «Dobbiamo iniziare il turno in cucina», mi ricorda. Eh sì! Come potrei per un solo istante dimenticare i miei obblighi?

    Scuoto la testa seccata. «A volte penso che potrei darle qualcosa per farla dormire», mi riferisco alla Madame che ci controlla come una sorta di Grande fratello.

    «Sì, qualcosa per farla dormire per sempre», puntualizza la mia amica con una grossa risata. «Non sarebbe una cattiva idea. Te la immagini la Madame che non si sveglia più e noi che gironzoliamo felici per i corridoi e le stanze del settore B, spingendoci anche oltre?!».

    «Sì, fino a quando qualcuno si accorgerà di noi, e allora ci chiuderanno nelle cantine».

    «Sì! Ma la colpa subito ricadrebbe su di te, Charlotte Stone».

    «E perché mai?», la prendo in giro, una volta che sono in piedi anch’io.

    «C’è da chiederlo? Tu sei la nostra paladina delle malefatte. La nostra eroina. La ragazza capace di gettarsi nel fuoco per le sue cause. Senza di te che infrangi tutte le regole, nessuna ci proverebbe mai».

    «Ma sai anche tu quante volte mi sono scottata!», e lei annuisce. «Credo proprio che senza di te quel posto non sarebbe affatto sopportabile. Passerei i miei giorni nella più totale solitudine», le dico con sincerità.

    «Lo so», mi risponde con gli occhi lucidi.

    Una piccola lacrima solca il viso di Jennifer e io mi appresto subito ad asciugarla. «Dobbiamo resistere solo due anni e poi ce ne andremo da questo posto e staremo per sempre insieme».

    «Sì, solo due anni!», ribatte intanto che mi mette un braccio sulla spalla in modo affettuoso. Ci diamo una sistemata davanti allo specchio e sgattaioliamo via dal bagno.

    Mentre usciamo dal centro commerciale situato a un paio di isolati dalla nostra orrenda casa, scorgiamo la commessa parlare con un vigilante.

    «Credo che si sia appena accorta di quello che abbiamo fatto», interviene subito Jennifer, indicandoli.

    «Credo proprio di sì. Muoviamoci. Non ho voglia di cambiare centro commerciale solo perché siamo schedate».

    «Neanch’io».

    Arriviamo al Saint Mary in forte ritardo, con l’affanno e la fronte imperlata di sudore. Buttiamo i nostri zaini dentro un mobile della cucina che nessuno apre mai. Se la Madame o chiunque altro ci troverà i tester nelle borse sarà la nostra fine. Ricordo ancora cosa è successo l’ultima volta che ci hanno pizzicato con della refurtiva: ci hanno separato dalle nostre compagne di stanza e ci hanno messe in isolamento per una settimana. È stato un inferno. Il fatto di non poter parlare e vedere nessuno mi ha mandata fuori di testa. Posso accettare di non avere cibo, di avere poca acqua, ma non di essere sola.

    Infiliamo al volo i grembiuli e ci diamo subito da fare. Il nostro turno è iniziato da venti minuti e la cuoca, come ci vede, impartisce subito ordini.

    «Eccovi! Muovetevi! Siete sempre le ultime».

    Come ormai accade da oltre dieci anni, io sono l’addetta alla preparazione dei tavoli, Jennifer invece al supporto in cucina.

    Due volte a settimana sono impegnata a fare questo. Gli altri giorni a fare altro. In realtà tutte le orfane del Saint Mary hanno dei compiti precisi e sono supervisionate dalle Madame. Ogni dieci orfane c’è una Madame che le controlla. L’unico momento in cui non abbiamo addosso i loro occhi è la mattina quando usciamo per andare a scuola e il pomeriggio, lungo la via del ritorno. Fino a dieci anni fa, nell’istituto c’erano persino degli insegnanti; poi, lo sfollamento di orfani, il fatto che la gente non abbandonasse più i figli per strada, la costruzione di case-famiglia e una serie di leggi hanno fatto chiudere a poco a poco simili istituti. E quelli che non sono stati costretti a chiudere hanno dovuto licenziare del personale. Noi orfane abbiamo avuto la meglio. Ci siamo guadagnate uno spiraglio di libertà che altrimenti non avremmo mai avuto, se non dopo la maggiore età. Il Saint Mary è uno dei pochi istituti femminili ancora aperti, grazie alla stretta amicizia della direttrice con il governatore. I soliti accordi che hanno sempre la loro utilità economica. Non è un mistero che tra loro due scorra qualcosa di più di qualche mazzetta. Si vociferava che una delle orfane fosse il frutto del loro peccato. Io non ci ho mai creduto. Non credo che una madre, per quanto cattiva come la direttrice Storm, possa lasciare vivere la propria figlia in questo inferno; sta di fatto che poco dopo il mio arrivo l’istituto ha smesso di accettare orfane, meno che mai neonate.

    La vita di un’orfana è pari a zero. Non abbiamo nulla se non noi stesse. Ci svegliamo la mattina alle sei. Ci laviamo e ci vestiamo. Facciamo colazione, andiamo a scuola. Torniamo in orfanotrofio e svolgiamo i nostri incarichi a rotazione: lavare i pavimenti, i bagni, fare il bucato. Se abbiamo il turno in cucina, lo copriamo e poi, in tarda serata, dobbiamo fare i compiti, quando ormai siamo stanche.

    Non ci è concesso avere un cellulare, il computer è utilizzabile in determinati orari e sempre con la supervisione di un superiore, che dal suo portatile controlla cosa facciamo con il nostro pc fisso. Abbiamo regole rigide da rispettare. Persino quando andiamo a scuola, non possiamo permetterci il lusso di marinarla o di arrivare tardi, perché l’istituto verrebbe subito avvisato. Ma noi orfane abbiamo escogitato un modo per avere un po’ di libertà. Dopo la scuola ci muoviamo a gruppi di due, così le altre possono coprire quelle che mancano all’appello una volta in istituto e libere giriamo attorno all’isolato che lo circonda. Di solito cerchiamo di rientrare sempre tutte insieme. Se siamo in venti a tardare, di certo nessuno si insospettirà, ma se tardiamo in due le cose cambiano. Nessuna di noi vuole mettere in pericolo l’altra. Qualcosa mi dice, però, che questo nostro piano presto salterà. Sono giorni che osservo il comportamento irrequieto delle Madame. Si dice che il governatore non sarà riconfermato per il nuovo mandato, e se così fosse questo posto chiuderà molto prima del previsto. Eppure… non possono! Siamo tutte minorenni. Sì, prossime alla maggiore età, ma pur sempre minorenni e andremmo tutte nelle case-famiglia e Dio solo sa cosa potrebbe mai accadere tra quelle mura.

    Inizio subito a svolgere il mio compito appena vedo sopraggiungere le altre ragazze del gruppo B.

    Prendo le stoviglie e le sistemo sul carrello.

    «Divertite?», mi chiede Mary con aria saccente.

    Prendo i piatti dalla credenza.

    «Avevi qualche dubbio?», e le faccio l’occhiolino, con l’intento di irritarla.

    «Una volta dobbiamo fare a cambio», mi rivela.

    Faccio spallucce e continuo a riempire il carrello.

    «Voglio venire io al posto di Jennifer», pretende incrociando le braccia al petto. Mary è sempre stata gelosa dell’amicizia che mi lega a Jennifer. Per un certo periodo siamo state amiche, vere amiche. Poi, questo legame si è spezzato e senza un reale motivo ha iniziato a farmi la guerra. Se le si presenta l’occasione, pur di catturare il favore delle Madame, è disposta a infrangere il patto tra orfane. Ma fino a oggi non si è mai spinta tanto oltre. Non potrebbe. Noi non ci tradiamo.

    «Chiediglielo!», le dico prima di scomparire in sala.

    Apparecchio la tavola alla perfezione. Potrei farlo addirittura a occhi chiusi se mi venisse chiesto. Ma francamente, spero di non prepararne mai più nessuna, una volta uscita da questo posto.

    I piatti devono essere sistemati con il logo dell’istituto posizionato a ore dodici. Le posate messe rigorosamente in questo ordine: le forchette a sinistra, dopo il tovagliolo, e i coltelli a destra. Sui bicchieri deve riflettersi l’immagine di chi lo prende in mano e non possono trovarsi a più di tre centimetri dal piatto.

    A me e a Jennifer non è consentito mangiare durante il nostro turno. Dobbiamo servire le altre, le Madame e la direttrice, in totale poco più di una quarantina di persone. Ci tocca cenare dopo che abbiamo sparecchiato e lavato tutti i piatti e questo accade non prima delle undici di sera.

    Quando ero piccola l’istituto era stracolmo di orfane. Ce n’erano così tante che si faceva la fila per andare al bagno la mattina presto o la sera prima di andare a letto. Oggi non è più così. Negli anni, quelle che diventavano maggiorenni sceglievano se andarsene o restare come assistenti delle Madame.

    Chi restava al Saint Mary, non più come orfana ma come volontaria, lo faceva solo per cercare di capire cosa voleva fare della sua vita. Poche hanno accettato e sono durate solo un paio di settimane.

    Le altre, quelle che sono state adottate, hanno iniziato una vita migliore.

    Ma anche qui potrei avere tanto da dire: in genere a essere adottate sono sempre state le bambine più belle, le più brave, quelle che davano meno rogne. Quelle che qualunque famiglia avrebbe voluto avere. Ecco perché ogni anno sapevamo in anticipo chi veniva data in affido. Nessuno vuole in casa una bambina malata, una piantagrane. Tutti le vogliono belle, allegre e sorridenti e soprattutto accomodanti. Adottate o libere, una delle regole dell’istituto per le ragazze una volta andate via è quella di non tornare mai più e tagliare i contatti con le altre. La vita di prima scompare per lasciare il posto a quella nuova. Sperando che quello che trovi sia migliore di quello che lasci.

    Torno a sistemare un lembo della tovaglia, che non scende dritto e accarezzo la stoffa per stenderla meglio. La perfezione prima di tutto.

    Controllo per un’ultima volta le stoviglie sui tavoli, quando dalla cucina sento un tonfo di piatti rotti e gli strilli acuti di Jennifer.

    «La Madame!», mormoro con una mano alla bocca.

    Capitolo 2

    «È un po’ che ti tengo d’occhio», rinfaccia con aria cattiva la nostra Madame a Jennifer. «Ora tu mi dici dove hai rubato queste cose!». Le sventola davanti agli occhi i tester.

    «Da nessuna parte», lamenta impaurita Jennifer.

    «Sicura?», la minaccia ruotandole in senso antiorario il polso.

    Jennifer inizia a strillare, a pregare la Madame di smetterla, mentre quest’ultima imperterrita continua con la sua cattiveria. Do uno sguardo al mobile dentro il quale avevamo nascosto il nostro bottino, ormai sparpagliato per terra. Non è possibile che la Madame abbia avuto l’idea di curiosare là dentro. Lei non si abbasserebbe mai a stare troppo in questa stanza e soprattutto non aprirebbe mai le ante della cucina se non le fosse stato suggerito.

    «Mary!», esclamo a denti stretti, puntandola.

    «Sbrigati! Sto aspettando», continua la nostra Madame, «o per fine serata non andrai nemmeno al pronto soccorso», la minaccia ancora.

    Jennifer piange e si lamenta. «Io…», prova a dire con voce spezzata.

    «Dove le hai prese?», ribadisce imperterrita, fino a quando mi nota sulla soglia. «Bene. Ora è arrivata anche lei!». Torna a guardare Jennifer. «Adesso che anche Charlie è qui, forse me lo dirai. Forza, topino», l’apostrofa con finta dolcezza, con il nomignolo dato a noi trovatelle. Siamo solo un ammasso di topi bianchi chiusi in una gabbia. Una gabbia che ci ha tolto tutto: la nostra infanzia e ora anche la nostra adolescenza, e tutto questo ci segnerà per la vita.

    «Dimmi dove le hai prese e ti lascio andare», sottolinea con un sorriso acido la Madame.

    «Io…», tenta di nuovo la mia amica.

    Jennifer trema visibilmente. «Io…», insiste impaurita.

    Alla vista della mia amica che non ce la fa più a mantenere il nostro piccolo segreto, mi gioco il tutto per tutto.

    «Io!», e ottengo la sua attenzione. «Io…», insisto decisa. La Madame mi guarda per nulla sorpresa delle mie parole.

    «Sono stata io a prenderle», dico tutto d’un fiato.

    A quel punto, con espressione compiaciuta molla il polso di Jennifer. «Non avevo dubbi che ci fossi di mezzo tu!». Si sistema le pieghe della giacca a doppio petto e fa un lungo respiro.

    «Seguimi!», ordina algida appena mi supera. Jennifer si massaggia frettolosamente il polso mentre, alle sue spalle, Mary ha un’espressione trionfante sulla faccia.

    «Credevi che non vi avrei scoperto?!», si compiace di se stessa la Madame. «Sbagli! Tu e la tua amica siete due pestilenze per questo posto. Siete una sciagura. La direttrice prenderà seri provvedimenti, questa volta». Resto in silenzio intanto che la seguo.

    Saliamo scale e imbocchiamo corridoi fino a quando, giunte davanti alla porta della direttrice, la Madame mi esorta a entrare, mi ordina di sedermi e se ne va. Nella stanza non c’è nessuno e la cosa non fa che mettermi ancora di più in agitazione.

    Tengo gli occhi bassi, le dita delle mani sono intrecciate tra loro e di tanto in tanto mi stuzzico un’unghia spezzata. È inutile che io speri in qualcosa di buono. Verrò sgridata, picchiata, umiliata e poi spedita nelle antiche celle dell’istituto. A un tratto delle voci fuori dalla stanza attirano la mia attenzione: una è della Madame e l’altra è della direttrice. La porta cigola e quell’odioso profumo costoso che sa di fogna e che solo lei può indossare mi riempie le narici e si fa strada dentro di me, come promemoria di quello che presto accadrà.

    Il tacco cinque della direttrice risuonano a ogni lento passo. È come se anche lei volesse rendere tutto più sofferente, più crudele. Sa benissimo che questi sono solo i preliminari di ciò che presto subirò. Ma nonostante tutto, io continuo a tenere gli occhi bassi e la postura rigida.

    I suoi passi vengono presto attutiti dal tappeto persiano, uno dei primi ricordi di questo inferno, forse l’unico pezzo di arredamento che io abbia guardato con attenzione da quando ne ho memoria.

    La sedia dietro la scrivania viene spostata, un bicchiere vuoto viene riempito con dell’acqua, una sigaretta viene accesa e lei si siede sul suo trono. Sposta dei documenti dalla scrivania al primo cassetto a sinistra e poi alla fine poggia i gomiti sul bordo, mentre pregusta quello che mi farà.

    «Charlotte!», esordisce. Il tono della sua voce ha sempre avuto qualcosa di materno e diabolico allo stesso tempo.

    Continuo a mantenere il mento abbassato, senza mai alzare gli occhi e incrociare il suo sguardo.

    A quel punto lei fa un lungo tiro dalla sigaretta che stringe con decisione alla punta delle dita. Lo so perché è una sua caratteristica, che percepisco

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