Il mistero dell'orso marsicano ucciso come un boss ai quartieri spagnoli
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Anteprima del libro
Il mistero dell'orso marsicano ucciso come un boss ai quartieri spagnoli - Antonio Menna
Il mistero dell'orso marsicano ucciso come un boss ai quartieri spagnoli
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 2015, 2021 Antonio Menna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728001172
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
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1
C’è una cosa buona nell’insonnia ai Quartieri Spagnoli: puoi camminare nei vichi quando il tumulto sfuma e qui sembra la Svizzera con i colori di Napoli. Il ventre è quieto, le imposte sono chiuse, le porte dei bassi serrate, i motorini fermi che paiono cavalli fuori dai palazzi; anche i panni stesi, lasciati a sfidare il rischio della pioggia, riposano e si stirano da soli sotto l’ultima luna e il primissimo sole.
Stamattina sono sceso di casa alle quattro e venti. Non è il mio record ma è una delle prestazioni migliori.
Il pasticciere dietro le scalette non ha ancora alzato le saracinesche. Ne ha due. Una per il laboratorio e una per la vendita. La prima sale verso le cinque, e rimane sempre a mezza altezza, mentre filtra dalla serranda un filo di musica con tutto il repertorio classico napoletano, da Nunzio Gallo a Mario Abbate. L’infornata di graffe e cornetti e brioche entra dopo venti minuti, e per tutta la salita che porta al corso Vittorio Emanuele comincia a spandersi questa nube benevola di zucchero, burro, cacao e uova che ti apre lo stomaco.
Stamattina ho battuto pure Luigino il fruttivendolo, che scarica da solo il cassone dell’apecar verso le cinque meno un quarto e sistema sulla strada davanti al suo minuscolo negozio venti cassette con cui allestisce un banco di frutta e ortaggi.
Cammino e mi godo tutto lo spazio, il silenzio, questo vuoto. Alla fine di vico Coccio sbircio verso via Toledo, così larga, laggiù. Non passa nessuno. Sembra un fiume secco. L’edicola è chiusa. I primi bagliori dell’alba si mescolano alle luci dei lampioni come il caffè nel latte. Sono chiusi pure i bassi degli indiani che quando comincia a piovere si fiondano sul corso con passeggini pieni di ombrelli, e quando c’è il sole vendono acqua minerale e cappelli di paglia.
Mi affaccio su via Speranzella, che taglia in due questa ragnatela di strade strette, palazzi fitti che si appoggiano l’uno all’altro. Sembra sventrata, così sgombra di merci e gente. Mi pare di vedere, però, in lontananza una macchia nera al centro della strada, come una montagna di terra appoggiata sulla pietra lavica; forse è sabbia da costruzione, ci sarà un cantiere.
Mi incammino piano perché voglio godermi questo vicolo che, come un polmone, di prima mattina, si dilata.
Faccio cento metri, cammino al centro della strada, mi levo questo sfizio di aria ma devo fermarmi all’improvviso. Quella macchia nera si fa più consistente. . Non è sabbia. Sembra una sagoma. È stesa a terra e si piglia tutto il vicolo. A Napoli questa posizione si chiama « quattro di bastoni ». Si dorme così quando sei stanco morto. Oppure si dice spaparanzato. Forse la miopia mi è peggiorata ma io adesso ho l’impressione che lì in mezzo alla strada ci sia una specie di King Kong spaparanzato. King Kong che dorme a quattro di bastoni a via Speranzella. Mi avvicino incredulo. Sarà un gioco di ombre. Magari è un cagnone nero che se la gode in mezzo al vicolo.
Ma quale cane. Ormai sto a duecento metri ed è troppo grosso, troppo lungo, e pure troppo nero e peloso. Mi blocco, stringo gli occhi per vedere bene, e che cazzo, questo è un orso.
Un orso ai Quartieri Spagnoli di Napoli. Un orso steso a terra, a pancia all’aria, come se pigliasse il sole.
Cerco di non respirare e resto immobile. Non voglio svegliarlo. Una notte vidi un documentario su un orso che, in una città del Nord Europa, preso dalla fame scese dai boschi e camminò per tutto il centro abitato. La gente che lo incrociava sapeva come comportarsi, era stata addestrata. Non muoversi. Non correre. Non agitarsi. Non farsi prendere dal panico. Restare fermi. Non abbassare gli occhi. Guardare dritto di fronte a sé.
Lo sto facendo. Sto rispettando tutto. Non mi muovo, non si muove nemmeno lui. Fisso la sua testa davanti a me. Ha gli occhi al cielo. Mi pare che siano aperti, ma non lo so. Tutto quel pelo, e che capa che tiene. Sembra incazzato. Azzardo un passo in avanti, giusto per non rimanere fermo in mezzo a questa strada come un imbecille. L’orso non si muove. Per un attimo penso che stiamo facendo la stessa cosa. Forse qualche amico suo orso gli ha detto che se vede un uomo deve stare immobile, steso, in silenzio, che il pericolo passa. Così io sto fermo per paura sua, e lui sta immobile per paura mia.
Come ne usciamo?
Faccio un altro mezzo passo, l’orso è sempre immobile. Provo a guardargli il petto, per vedere se respira. Non mi sembra. Mi pare quasi finto. E se lo fosse? E se fosse un pupazzo? Magari stanno girando un film, l’hanno appoggiato lì, tra poco cominciano le riprese e io sto qua a cagarmi addosso mentre è tutta una messa in scena. Magari è uno spot pubblicitario. Quelle stronzate che vanno di moda adesso. Dovrebbe uscire qualcuno, però, un regista, un attore, un assistente, un fetente di macchinista, un magazziniere. E questi sfaccimma di vicoli che stanno sempre pieni di rumori, di bordello, di gente che mangia seduta sulle sedie di paglia; proprio adesso sono deserti.
Ma sicuro che mi sono svegliato stamattina? Non è che sto sognando?
Faccio come nei fumetti, mi do due schiaffetti per vedere se sono desto. Chiudo gli occhi, mi colpisco, riapro gli occhi. Io sto qua, e l’orso sta ancora là. Provo a misurarlo con lo sguardo. È steso, con le gambe aperte, sembra quasi due metri, anche se ha le cosce corte, il tronco lungo e chiatto. Forse è morto. Oppure è svenuto. Mi avvicino di più. Sono a pochi metri. Ha gli occhi di sangue, spalancati, guardano il cielo. Non c’è nessuna tensione sul suo volto. È afflosciato, come se gli avessero tolto la mandibola. Ha le guance appese, le spalle spente. Lo guardo e non mi faccio capace.
C’è un orso davanti a me. È steso a quattro di bastoni in mezzo a via Speranzella, ai Quartieri Spagnoli di Napoli. Sono le cinque meno un quarto del ventuno giugno e stiamo io e lui.
2
Mi ricordo improvvisamente che faccio il giornalista, cioè che faccio anche il giornalista. Questa potrebbe essere una notizia. Anzi, questa è una notizia. Perfino quella capa di anguilla di Giulietti lo dovrà riconoscere. Prendo il cellulare dalla tasca dei jeans e scatto un paio di foto da vicino. Poi arretro e ne faccio altre da lontano. Che cazzo, qua ci esce il pezzo. Un orso spaparanzato in mezzo ai Quartieri. Questa va in prima di cronaca, come minimo. Se il direttore dà un’occhiata secondo me può finire pure in prima pagina.
Arriva all’improvviso il rumore di una marmitta. Scoppietta come un petardo. La sento tossire, poi compare di fronte a me l’apecar di Luigino il fruttivendolo. Mi volto e lo vedo frenare bruscamente, quasi si cappotta. Si sporge dal finestrino.
« Ma che è? » chiede.
« Un orso » rispondo.
« Un orso? Qua in mezzo? »
« Eh. »
« E che ci fa un orso in mezzo ai vichi? »
« Sta riposando, forse sentiva caldo » rispondo.
« Ma stai pazziann’, Tony? Che ci fa ’sto coso in mezzo alla strada? »
« Che ne so? Stavo camminando e l’ho trovato qua. Sto cercando di capire pure io. »
« Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria. »
Luigino si passa una mano sul volto. Poi titubante spegne il motore, apre la portiera e mette un piede a terra. Non si muove, resta fermo. Deve aver visto pure lui quel documentario. Fa una smorfia, come a dire ma che è? Poi decide di venirmi vicino.
« A me pare morto » dice. « Non si muove. Neh, Tony, ma non è che mi stai facendo uno scherzo? Una cosa tipo candid camera? Stai faticando con la televisione e fai gli scherzi nei Quartieri? Jamme, Tony, a me lo puoi dire. È ’nu scherzo? Dimmi la verità. Guardami in faccia. Non mi fare azzeccare una figura di merda. »
« Non urlare, che se questo sta dormendo, si sveglia e ci fa a pezzi. Non so niente. Te lo giuro. »
« San Ciro, san Gennaro » si spazientisce. « Ma allora che è quest’animale qua in mezzo? »
Non finisce di dirlo che dal primo piano si aprono bruscamente le persiane di una finestra e si affaccia una signora di mezza età, che ci guarda con aria di rimprovero.
« Giovanotti, ma vi pare il modo a prima mattina? Qua la gente sta dormen... »
Non finisce la frase. Vede l’orso steso a terra e lancia un urlo che sembra l’allarme di una banca. Si porta le mani al volto, prende appena un po’ di fiato, e torna a gridare. Non si capisce bene cosa dica. Sono vocali aperte senza direzione, mischiate. Una a, una o, una decina di e. Come un meccanismo a molla si aprono, una dopo l’altra, tutte le persiane della facciata. Si sporgono alle finestre uomini anziani, donne, bambini, a due, a tre, uno sull’altro, e tutti urlano. Quel vicolo che fino a pochi minuti fa era silenzioso e largo si è stretto all’improvviso, riempito dai suoni e dall’agitazione.
L’orso, intanto, sta sempre immobile al centro della strada. Non sta dormendo, è sicuro. Da mo’ che si sarebbe svegliato. Dal terzo piano, un uomo accende una lampada potente come un riflettore e la punta sulla testa dell’orso. Non ce ne sarebbe bisogno, ormai il sole si sta alzando, si vede bene anche senza. Ma è come un occhio di luce sul palcoscenico. Tutti a guardare quell’animale enorme steso a terra. Le urla attirano gente dai vicoli vicini. Arrivano vecchi in pantofole e pantaloncini, donne in camicia da notte, ragazzini in mutande. Si fermano tutti a un metro dall’orso, come spaventati da quell’enorme figura rigida. La folla si infoltisce alle spalle della prima fila, ammassata come se ci fosse una transenna. Sembra un esercito di formiche che corre intorno a un osso di pesca. Sento Luigino dire a una donna anziana che sono stato io il primo a vedere l’orso.
« Giovanotto » mi chiede la donna, « ma che è successo? »
Accanto a lei, si fanno avanti anche gli altri. Si rivolgono a me, come se fossi il proprietario della scena. Alzo le spalle, faccio segno che non ne so nulla. Intravedo volti conosciuti, gente che incrocio per strada tutti i giorni. C’è Sasà, il barbiere, che sta arrivando trafelato. Vedo farsi largo la ragazza bruna con gli occhi azzurri e il solito jeans: la incontro spesso all’alba quando, nei miei risvegli precoci, scendo a camminare. Adesso se ne sta immobile in un angolo, ha sulle spalle uno zaino e tiene lo sguardo fisso sull’orso. Con una mano si tocca l’orecchio destro, stringe il lobo, poi lo accarezza. Da quello sinistro penzola un orecchino largo come da gitana.
La folla intorno all’orso si è fatta così grossa che da dietro chiedono permesso per avanzare e dare uno sguardo. I ragazzi scattano foto con il telefonino, l’atmosfera si è rilassata, l’orso è diventato una sorta di trofeo in vetrina; qualcuno comincia a toccargli le zampe, a misurargli le unghie, a dargli pacche in testa, sul naso. Temo che provino a smontarlo, come fosse un peluche. Qualcuno scivola dietro la folla, si appoggia al muro, rimane in attesa distratta per vedere come va a finire. Girano domande e ipotesi. È morto, è in coma, addirittura sento uno dire che sta in letargo.
A giugno, in mezzo ai Quartieri, con questo bordello?
Vedo salire la luce di un lampeggiante, poi quattro carabinieri si fanno strada tra la folla, si avvicinano all’orso, guardano pure loro con stupore. Provano a proteggere l’animale dalla calca. Spingono la folla un metro indietro. Scatto qualche altra foto, poi avvisto il maresciallo Pallone e mi faccio avanti.
« Posso? » gli domando.
« Uè, Perduto, dove stai tu ci stanno i problemi » mi dice.
« Veramente è il contrario: dove stanno i problemi ci sto io. Ha qualche idea, marescià? Di che si tratta? »
« Che idea devo tenere, Perdù? Non cominciamo con le domande deficienti, per favore. Io fino a dieci minuti fa stavo nel letto. Mo’ cerchiamo di capire, poi ti faccio mandare il comunicato dal comando. Accussì non scrivi cazzate. »
Mentre parla con me, il maresciallo afferra un paio di ragazzini per la maglietta e se li getta dietro le spalle, nella folla. Arrivano anche i vigili urbani, che mettono transenne e nastro intorno all’orso, e lo isolano. La gente è arretrata di almeno due metri, molti si allontanano e poi tornano, fanno uno struscio. Non sono nemmeno le sei del mattino ma i Quartieri Spagnoli sono già elettrici, come fosse mezzogiorno.
Un carabiniere disegna una sagoma col gesso intorno al corpo dell’orso, come si fa sui luoghi di un delitto. Due suoi colleghi scattano foto. Torno ad avvicinarmi al maresciallo.
« Pure la Rilievi, maresciallo? La cosa è importante » dico.
« Sissignore, stiamo tutti qua stamattina. Mo’ arrivano pure i vigili del fuoco e abbiamo fatto il presepe al completo. »
« Ma lo togliete da qui? »
« E secondo te lo lasciamo in mezzo a via Speranzella? O ce lo teniamo per ricordo? »
« Dove lo portate? »
« Che ne so, Perdù. Ti ho già detto di non fare domande deficienti. Saccio ’sti cazzi io di dove si porta un orso morto? »
« Ma quindi è morto? »
« A te pare vivo? A me pare che non si muova. O sta facendo finta, che dici? »
Nel trambusto si sente una sirena strepitare. Mi affaccio lungo il vicolo accanto e in alto vedo un camion dei vigili del fuoco ostacolato da tre auto parcheggiate in doppia fila da un lato, e una fila di paletti in ferro conficcati nella strada dall’altro lato. I pompieri sono scesi, la sirena è accesa, loro si guardano intorno sperando che esca qualcuno ma non succede niente. Guardano nelle auto parcheggiate ma sono chiuse. Allora provano a spostarle a mano, di forza. Avverto il maresciallo, che si affaccia con me e vede la scena.
« ’Sti cazzo di vichi, cu tutti ’sti paletti, ’ste macchine. Ma perché non sprofondate in paranza? » dice.
« Marescià, ma come lo alzate l’orso da terra? Questo sembra pesante » chiede Luigino, che si è avvicinato.
« Non lo so, mo’ lo chiediamo ai pompieri, se riescono ad arrivare. »
« Possiamo dare fuoco » si inserisce timidamente Aniello, che in realtà si chiama Hajnè, è un cingalese, e come tutti gli immigrati che vivono nei Quartieri, è stato ribattezzato all’italiana per assonanza. « Facciamo falò » insiste.
« Così rimane niente » aggiunge Emanuele, che in realtà si chiama Himanuan, e sta sempre insieme ad Hajnè.
« Eh sì, facciamo un bel rito orientale. Il sacrificio dell’orso » dice scocciato il maresciallo.
Arrancando, riesce ad arrivare il mezzo dei vigili del fuoco, seguito da un camioncino. Si ferma a ridosso dell’orso. Gli uomini parlottano col maresciallo, poi girano intorno all’animale, sembrano prendergli le misure. Scatto qualche foto anche a loro mentre lavorano. La folla, intanto, va e viene lungo via Speranzella. Si vede anche qualche motorino che svolazza lento, come certe mosche nel calore. I vigili del fuoco, intanto, riescono a infilare l’orso in un sacco giallo. Non so come abbiano fatto. Una manovra velocissima, un telo sotto, un telo sopra, due zip, e l’animale è sparito in un sacco. Poi lo agganciano a una carrucola e lo sollevano per adagiarlo sul cassone del camioncino.
La gente osserva con un improvviso silenzio, come fosse un funerale. Il sacco con l’orso tocca il fondo del camion. A terra resta l’alone di quel corpo, uno spazio enorme che nessuno ha il coraggio di calpestare. I vigili del fuoco riaccendono la sirena e si fanno strada nei vicoli. L’orso non c’è più.
« È finito lo spettacolo, forza, tornatevene a casa tutti quanti » urla il maresciallo, che sale in macchina e se ne va, lasciandoci così, sospesi, come di fronte a un film senza finale.
3
Se ne sono visti di morti per strada ai Quartieri Spagnoli. Uomini inseguiti fino ai portoni di casa e sfondati di proiettili. Donne massacrate a coltellacci, pugni e calci da mariti gelosi. Casalinghe esaurite che si sono lanciate dal balcone frantumandosi come bambole sulla pietra lavica. Giovani senza casco col cranio aperto dopo un’impennata in moto sulla via bagnata.
Ogni volta, però, con una manciata di segatura sulla macchia di sangue e un mazzo di fiori, in un paio d’ore si è girata la pagina e amen. La vita interna ai vicoli, come un cuscino quando ti alzi, torna subito a posto. Sull’alone del fatto si parcheggia la macchina, o si appoggia il solito cascione di merce: spaselle di pesce o cassette di frutta o cesti di pasta, merendine, cocacola e fanta. Le sedie fuori dalla porta dei bassi, i vasi e le piante, le tv accese, gli stendini per strada a conservare il posto all’auto, i paletti fissi, i paletti col catenaccio, per appropriarsi di un pezzo di strada