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Una morte silenziosa
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Una morte silenziosa
E-book349 pagine4 ore

Una morte silenziosa

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Info su questo ebook

Ci sono bugie che non possono essere perdonate

Autrice del bestseller La donna silenziosa

Noah non ha mai dimenticato April, il suo primo amore. Quando, molti anni dopo, scopre che è sospettata di un omicidio, non dubita neanche un istante della sua innocenza. Ma April è in rianimazione, non può difendersi e tutte le prove sono contro di lei. Noah desidera disperatamente aiutarla, anche a costo di riaprire vecchie ferite e affrontare una volta per tutte la fine della loro relazione. Quello che non può immaginare è che April abbia sempre nascosto dei segreti. Era innamorata di lui e non aveva intenzione di ferirlo, ma qualcosa – o qualcuno – ha reso impossibile la loro felicità. Ella è una bambina trascurata dai genitori che ha come sola confidente la sua psicologa. Non sa di essere a conoscenza di un indizio che potrebbe aiutare a chiarire la posizione di April. Ma chi mai darebbe credito a una ragazzina?  Quando delle rivelazioni scioccanti tornano a galla, ecco che la verità sembra ovvia. O almeno così tutti vogliono credere…

Un amore mai dimenticato.
Un segreto mai rivelato.
Una famiglia imperdonabile.

«Un’autrice con una grande abilità nel suscitare emozioni forti.»
Publishers Weekly

«Un nuovo straordinario talento. Usa le parole come un pennello e sa scolpire emozioni indimenticabili.»
Peter James
Debbie Howells
In passato ha studiato Psicologia, è stata un’istruttrice di volo, la proprietaria di un negozio di fiori, e attualmente scrive a tempo pieno. Il suo thriller d’esordio, La donna silenziosa, è stato un successo di critica e di pubblico e i diritti di traduzione sono stati venduti a cifre molto alte in numerosi Paesi. Debbie vive nel West Sussex con la sua famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2018
ISBN9788822728739
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    Anteprima del libro

    Una morte silenziosa - Debbie Howells

    2158

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: The Beauty of the End

    Copyright © Debbie Howells 2016

    Traduzione dall’inglese di Sofia Buccaro

    Prima edizione ebook: febbraio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2873-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Debbie Howells

    Una morte silenziosa

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Ella

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Ella

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Ella

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Ella

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Ella

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Ella

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Ella

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Ella

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Ella

    Capitolo 35

    Ella

    Capitolo 36

    Ella

    Capitolo 37

    Ella

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Ella

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Ella

    Capitolo 43

    Ella

    Capitolo 44

    Ella

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Ringraziamenti

    Ai miei genitori

    Io credo a tutto, fino a quando non viene smentito. Quindi credo alle fate, alle leggende, ai draghi. Esiste tutto, anche se sta nella tua mente. Chi può dire che i sogni e gli incubi non sono reali come il presente?

    John Lennon

    Credo in una sorta di magia quotidiana: l’inspiegabile legame che a volte sentiamo con luoghi, persone, opere d’arte e cose del genere; una misteriosa sintonia in momenti di sincronicità; una voce sussurrata, una presenza nascosta quando crediamo di essere soli.

    Charles de Lint

    Allora mi chiedo: se tutto è connesso, significa che tutto è controllabile e manipolabile principalmente da chi sa come muovere i fili?

    Malcolm Margolin

    Voglio vivere per sempre…. Ci trovavamo in cima a Reynard’s Hill, nel punto in cui il cerchio di alberi sembrava innalzarsi, i rami intrecciati al cielo; dove si respirava, disse April, come se l’aria non le bastasse.

    A causa della salita scoscesa avevo il fiatone, ma quando arrivammo in cima e guardammo giù per una frazione di secondo vidi quello che vedeva lei, il mondo intero che sembrava estendersi da sotto i nostri piedi.

    «Guarda quant’è bello…».

    Accanto a lei, non avevo rilevato la nota di tristezza che aveva nella voce. Ero ipnotizzato, sia dalla sua presenza che dai paesini in basso, microscopici da lassù, i profili scuri incisi nel paesaggio variegato che li univa.

    April aveva fatto un passo avanti, fino al bordo che scendeva a picco, i lunghi capelli rossi bagnati dalla nebbia, lo sguardo perso verso un luogo a me irraggiungibile. Quando spalancò le braccia, per un attimo immaginai che potesse spiccare il volo.

    Tornai in me. Ricordo che balzai in avanti per fermarla, e nel movimento brusco scalzai una manciata di sassi che ruzzolarono giù, quasi trascinandomi con loro. Invece di essere io a salvare lei, fu April a prendermi e tenermi finché il terreno non smise di muoversi.

    Fu una delle tante volte in cui provai a salvarla.

    Ma quando ci riuscii davvero ormai era troppo tardi.

    1

    Maggio 2016

    Pensi di sapere che cos’è la vita. I momenti che hai colto, le lotte affrontate, l’amore tanto desiderato. Invece non lo sai. Non appieno, non fino all’ultimo istante, quando ti sfugge. Quando il corpo non ti ascolta più, diventa una prigione nella quale non puoi muoverti, respirare, comunicare.

    Quando la persona di cui hai più bisogno non c’è più

    Un ricordo agrodolce, straziante. La visione fugace di lunghi capelli rossi bagnati dalla nebbia, un freddo attanagliante, la desolazione degli alberi in inverno. Il batticuore, come sempre. Una ragazza che conoscevo tanti anni fa, quando il mondo era diverso, e che occupava ogni mio pensiero e sogno.

    Lo sapevi che siamo come stelle? Nell’istante in cui brillano e splendono di più, un attimo prima di spegnersi, una scia che svanisce fino a diventare impercettibile a occhio nudo, il fulgido crescendo di una vita che porta al silenzio.

    E altrettanto in fretta si spegne il ricordo che ho seppellito da quattro anni, quando arrivai qui dopo la morte della zia Delilah, che mi aveva lasciato la sua casa di campagna. Chissà che cosa l’ha riportato a galla, penso alzando lo sguardo dalla scrivania sentendo squillare il vecchio telefono nero, il passato e il presente per un attimo sovrapposti. Il telefono continua a squillare e anche se non ne ho alcuna voglia devo rispondere.

    Spingo indietro la sedia, mi alzo e mi avvicino al davanzale. Tasto dietro la tenda pesante, dov’è appoggiato il telefono, inutilizzato, ignaro del barlume di speranza che ha acceso, simile alle nuvolette di polvere sollevate e illuminate dal chiarore della lampada sulla scrivania.

    «Pronto?»

    «Pronto? Noah? Sei tu?».

    Sgomento, non dico nulla, quindici anni che scivolano via. Riconosco subito quella voce netta e precisa: mi dà un brivido lungo la schiena, e di colpo ritorno al presente, perché nel ricordo non c’era alcun telefono.

    «Sì, pronto?».

    Lui rimane un secondo in silenzio e poi dice, stavolta più chiaramente: «Sono Will».

    Osservo la falena che si è rifugiata sul camino, perfettamente mimetizzata con la pietra, mentre il fuoco che ho acceso poco fa continua a scoppiettare. D’inverno i muri spessi della casa trattengono il freddo.

    «Grazie a Dio, pensavo di aver sbagliato numero», aggiunge lui.

    Può volerci una vita per capire che le apparenze ingannano. Prendiamo per esempio un bosco, tridimensionale nell’abisso cupo di un lago immobile, ogni ramo definito, ogni lieve sfumatura riflessa alla perfezione, il sole che ti punta, cosicché se lo fissi per un po’ finisci per dimenticare. È soltanto un’immagine che cela le gelide tenebre che a volte ti inghiottono, il silenzio.

    Io e Will eravamo amici… Una volta, tanti anni fa. Ma poi sono successe troppe cose, cose che appartengono al passato.

    Mentre la mia mente è attraversata da questo e da altri pensieri, all’improvviso torno in me. Non devo nulla a Will. Sto per sbattergli il telefono in faccia quando lui pronuncia tre parole che cambiano tutto.

    «È per April».

    D’impulso, come per un riflesso condizionato, nel sentir pronunciare il suo nome provo ancora un tuffo al cuore.

    Ci sono momenti in cui bastano poche parole, i pensieri che scatenano, per annichilirti. Per distruggere ciò che hai costruito a fatica. Per metterti a nudo.

    «Che cosa è successo?», chiedo con tono neutro, lo sguardo fisso al focolare, alle ali della falena che tremolano.

    «C’è stato un incidente». Poi prosegue: «È in ospedale. Le condizioni sembrano gravi».

    Parla svelto, impaziente, la voce ferma, anaffettiva. Chissà se chiamarmi lo ha infastidito. Mi dispiace, ovvio che mi dispiace. Io e April ci volevamo bene, ma è passato tanto tempo. Gli incidenti capitano tutti i giorni. È triste, ma non capisco proprio perché Will mi abbia chiamato.

    Non si può fare in eterno. Fingere, sostenere una parte. Nascondere una verità straziante, insopportabile, taciuta per anni, che sbatte sulla porta, che urla per farsi sentire, ascoltare da qualcuno.

    «Non so bene cosa sia successo. Senti…». Will si blocca. «Ti ho chiamato solo perché finirà su tutti i giornali. È stato ucciso un uomo… A Musgrove, pensa tu. Pugnalato a morte nella sua auto parcheggiata dietro a un pub. Il North Star… Pazzesco, no?». Si zittisce di nuovo. «Il fatto è che… Insomma, pare che possa essere stata lei ad ammazzarlo».

    Elaboro a stento le sue parole, perché un tempo il North Star era il locale che frequentavamo noi. Sento un malessere alla bocca dello stomaco. Dopodiché escludo subito questa possibilità. Perché alcune cose si sanno e basta, e io ne sono assolutamente certo, al cento percento. Will si sbaglia. Osservo la falena prendere il volo, le ali che pian piano tracciano una scia altalenante e compiono due giri della stanza, per poi andare a sbattere sulla finestra chiusa.

    «Impossibile. April non l’avrebbe mai fatto».

    Solo che non apre nessuno, perché nessuno sa che sei legato e imbavagliato, incatenato in modo invisibile a un mostro. Non c’è scampo. Non ci sarà mai, perché ovunque tu vada, lui ti troverà. E non ti lascerà andare.

    «La polizia è convinta di aver trovato le prove».

    Da quanto ne so, non è sempre tanto semplice. «Magari è sfuggito qualcosa».

    Dov’è finita la speranza? L’ottimismo perenne della mente umana, vitale come il sangue e i polmoni, come il cuore che ti batte nel petto, che ti fa superare dolori e sofferenze? Se non c’è speranza, non resta nulla.

    Serro la mascella. «Quand’è successo?»

    «Ieri sera, a tarda notte, dopo che il pub…».

    «Ecco», ribatto. «È prematuro. Prima deve svolgere i test la scientifica. È impossibile che abbiano già scoperto qualcosa». Mi blocco. «Tu come fai a saperlo?»

    «Sono stati visti insieme al pub. La polizia ha trovato nell’auto un guanto da donna, assieme all’arma del delitto… e un cellulare. Sono risaliti al domicilio di April, ma quando sono arrivati lì lei era in overdose», risponde Will sottovoce. «Hanno chiamato l’ambulanza… e poi me. Avranno trovato il mio numero sul suo cellulare. Ora sta al St Antony, vicino a Tonbridge».

    «Perché lì?», chiedo stupidamente.

    «Perché è dove abita. Vero, dimenticavo che tu non potevi saperlo».

    Tutt’a un tratto la tua vita assomiglia a un incidente stradale: i freni non funzionano, aumenta la velocità, sempre di più. Gli sbagli, le occasioni mancate, tutto il tempo perso, un cumulo di rottami arrugginiti e accartocciati ormai irrecuperabili. Ti travolgono. Ti schiacciano.

    Ancora adesso, nonostante un tempo l’abbia amata anche lui, non sopporto che Will sappia queste cose, il modo in cui parla con distacco, la sufficienza che nasconde a stento. Che a distanza di tanti anni lui sia ancora in contatto con lei e io no.

    «Dubito che voglia vedermi».

    Dopo un attimo lui risponde: «In realtà non può vedere nessuno. Non è uscita dal coma, fratello. È tenuta in vita da una macchina. Dio solo sa cosa ha preso».

    Gli viene automatico chiamarmi fratello, un rimando alla nostra amicizia… inopportuno. Ascolto sconvolto le sue parole, nel tentativo di metabolizzarle, incapace di immaginare April non bella, vitale, esuberante.

    «La polizia sta cercando testimonianze. Gente che stava al pub, filmati delle telecamere di sicurezza… Se è stata davvero lei non sarà difficile trovare le prove», continua.

    «Se è stata lei», ribatto io piccato.

    «È praticamente scontato».

    Una volta lo reputavo un uomo sicuro di sé, non arrogante, ma cazzo, che pallone gonfiato che è. «Lo sai anche tu, Will, che April non farebbe del male a una mosca. Non ne sarebbe mai capace».

    Puoi recitare una parte fino a un certo punto. Indossare una maschera, dire agli altri ciò che vogliono sentirsi dire. Lottare finché hai aria nei polmoni. Volare se hai le ali.

    Ma non riuscirai mai a liberarti di qualcuno che non ti vuole lasciare andare.

    Will fa un verso, una risata sguaiata carica di cinismo. «Come fai a dirlo se non la vedi da anni?».

    Che bastardo. Rigira il coltello nella piaga, con la sua classica precisione chirurgica, ma dimentica che io April la conoscevo nell’anima. Mantengo la calma.

    «È come sapere di chi ci si può fidare».

    Capisce a cosa alludo. Tra di noi cala un silenzio imbarazzante.

    «Giusto», mi liquida Will. «Pensavo dovessi saperlo, tutto qui».

    «Bene. Senti, prima di chiudere la telefonata, puoi dirmi chi era l’uomo?».

    Will ha di nuovo un attimo di esitazione. Mentre me lo dice osservo la falena vorticare tra le fiamme.

    È assurdo. Il flashback che ho avuto pochi secondi prima che mi chiamasse Will, che April sia sospettata di omicidio. Appena metto piede fuori, una folata di vento trasporta i semi di salice attraverso i campi, ma c’è un bel tepore primaverile, dopo l’inverno più piovoso da dieci anni a questa parte. Il livello di pollini è altissimo, i semi di salice proliferano.

    Mentre vado in auto fino alla rimessa fatiscente nella quale sono immagazzinati alcuni beni di prima necessità, ho una sensazione di straniamento, di colpo la campagna che conosco come le mie tasche mi diventa estranea, velata dall’impercettibile flusso di semi di salice, le parole di Will che risuonano in sottofondo nella mia testa. Aspetto che il cervello le collochi al posto giusto, ma non accade. Mi affanno a capire come mai, dopo anni di silenzio, dopo tutto quello che è successo, Will si sia preoccupato di farmelo sapere.

    Non ha senso… a meno che non mi stia nascondendo qualcosa. Ho scoperto di Will troppo tardi. Le mezze verità, le bugie per omissione che non sono meno gravi solo perché taciute, relegate in un passato che non si può cambiare, insinuatesi nel profondo della persona che sono diventato… proprio come April.

    E, che mi piaccia o no, come Will.

    Alla sera sto ancora pensando, cercando di capire se non altro che cosa dovrei fare. Ripenso alle vecchie cicatrici dimenticate da tanto e riaperte dalla telefonata di Will, dal pensiero di April in coma su un letto di ospedale, quasi fosse il ricordo di un arto amputato.

    Chissà se ha accanto qualcuno. Non ho mai conosciuto la sua famiglia. Quando stavamo insieme sembrava che avesse rotto i ponti con tutti, strappati come pellicine. Aveva un fratello con il quale non parlava più. La madre era morta poco dopo che lei se n’era andata di casa, il padre non lo nominava mai.

    Tanto non potrei aiutarla lo stesso. Sto nel Devon, lei nel Kent. E poi se Will è ancora nella sua vita se ne occuperà lui, e questo dovrebbe rincuorarmi… peccato che Will non abbia fatto alcuno sforzo per nasconderlo. Si capiva dal tono. È convinto che April sia colpevole.

    Fisso il buio oltre la finestra, le mie ridicole scuse che mi si ritorcono contro. Abito lontano, ho lasciato lo studio legale a Londra da quattro anni, a parte qualche incarico occasionale per il piccolo studio locale di Jed Luxton non sono preparato per difendere una persona sospettata di omicidio, l’unico completo che ho si trova in fondo all’armadio. Non so neanche se mi entra più. Dopodiché immagino un secondo April, al culmine di una disperazione che posso solo immaginare, intenta a pugnalare un uomo. Una visione talmente inconcepibile che sparisce veloce com’è apparsa.

    Per anni sono stato convinto che April fosse il mio futuro. Il mio sole, le stelle, la mia April Moon, le dissi una volta, trasportato dal momento, dalla vita, dalla profondità di ciò che provavo per lei.

    Credevo che bastasse l’amore. Che fossimo destinati a stare insieme. Non avrei mai immaginato che le cose sarebbero andate diversamente.

    2

    1991

    A quattordici anni mi innamorai di una dea. Le dee fanno quest’effetto, anche sui ragazzini come me allora. Essere grassottello e sfigato non impedisce di innamorarsi, e per me fu inevitabile.

    Avevo appena iniziato il primo semestre alle superiori di Musgrove. Ci eravamo trasferiti lì all’inizio dell’estate più torrida e infinita che io ricordi, perché mio padre aveva cambiato lavoro. La prima volta che aveva affrontato il discorso mi stava mostrando tutto orgoglioso la macchina che finalmente poteva permettersi, una fiammante

    BMW

    argentata.

    Euforico, ero salito in auto e avevo inspirato il profumo di cuoio e il vago sentore di benzina. Le cose stavano cambiando, aveva continuato mio padre entrando per mostrarmi come regolare il sedile. Eravamo saliti di livello. Non avevo afferrato bene che cosa intendesse dire. Per come la vedevo io, un lavoro era un lavoro, ma mi ero finto contento quanto lui… finché non mi aveva detto che dovevamo trasferirci.

    Quel pensiero mi aveva riempito di un orrore inesprimibile, ma il parere del quattordicenne che ero non contava nulla. Nel mio piccolo mondo borghese erano gli adulti a prendere le decisioni, i figli ubbidivano e basta. Ciò non mi aveva però impedito di stare male.

    Ricordo distintamente il momento in cui avevo fatto le valigie: controvoglia, imbronciato, un bisogno disperato di aggrapparmi agli oggetti familiari, di quand’ero piccolo, ormai infantili. E pure mia madre ripetere che era l’occasione giusta per fare pulizia, qualsiasi cosa volesse dire, che non aveva senso chiamare quelli dei traslochi per portar via cose che non usavo più. Come se non bastasse già strapparmi a casa mia e ai miei amici, tempo che frugasse senza pietà tra i miei libri, nella collezione di macchinine e nel mio tesoro nascosto di fucili giocattolo, e metà della mia infanzia era sparita.

    Mentre ci allontanavamo da qualsiasi cosa mi definisse, sembrava che la mia identità fosse in bilico. Noah Calaway, il secchione con la cameretta buia e l’amichetto nerd vicino di casa, era sparito per sempre. Non sapevo più chi fossi.

    Per arrivare a Musgrove ci vollero quattro ore di macchina, quattro ore infinite che passai a immaginare con terrore gli odiosi compagni di scuola che avrei avuto. Mi voltai verso il finestrino abbassato per scacciare la nausea, sul sedile posteriore della macchina nuova di papà, una macchina che avevo iniziato a odiare in quanto simbolo di un cambiamento indesiderato.

    Scorsi la casa nuova appena rallentammo per imboccare un viale tranquillo e mio padre accostò sul ciglio. Non era brutta: una casa vittoriana in mattoni rossi, circondata da altre nello stesso stile, enorme in confronto alla modesta villetta a schiera che avevamo lasciato. Porte enormi che conducevano a stanze enormi. Finestre enormi. Non era male, pensai, ma non mi sentivo a casa.

    Per prima cosa corsi sul retro per vedere il giardino, che con mia grande delusione non era affatto grande, ma lungo e stretto. Sul fondo però c’era un albero gigantesco che non era male. Quando mi misi a osservarne i rami, talmente alti che quasi si intrecciavano alle nuvole, un soffio di venticello mi fece rabbrividire.

    Il mio tormento maggiore era il pensiero della scuola. Se solo avessi potuto cambiare nome… magari sceglierne uno in onore di un personaggio importante, o uno con un significato che mi si addicesse, tipo il poderoso, o l’uccisore di draghi. Cioè, Noah… Che cosa era saltato in testa ai miei? Mia madre diceva che le era piaciuto per i rimandi biblici, e che significa riposo o conforto, ed era un bel significato. Bello, solido e rassicurante, cosa che non consola affatto quando diventi lo zimbello di tutti.

    Nel corso degli anni avevo perso il conto delle volte in cui dei cosiddetti amici si erano presentati sulla soglia di casa con l’impermeabile addosso… anche se c’era un sole da spaccare le pietre e non una nuvola in cielo. Che si erano scompisciati dalle risate mentre io sopportavo l’ennesima umiliazione rituale. Sapevo che a Musgrove le cose non sarebbero cambiate.

    Il primo giorno di scuola ero talmente nervoso che vomitai subito la colazione. Dentro di me urlavo disperato affinché i miei lasciassero quel posto per tornare alla vecchia casa, affinché mio padre restituisse la macchina nuova e riprendesse il vecchio lavoro, affinché mi riportasse alla vecchia scuola, perché sapevo per esperienza che è molto più facile affrontare un nemico che conosci rispetto a uno sconosciuto.

    Ma sfortunatamente sapevo pure che non sarebbe mai successo e mi ritrovai ad arrancare in corridoio, diretto alla mia classe, lo sguardo basso, schivando chiunque.

    Ero un adolescente impacciato, con un nome strano e un taglio di capelli fuori moda: le mie possibilità di successo erano bassissime. Il fatto che fossi un secchione rappresentava l’ennesimo handicap. Non riuscivo a non fare i compiti, ero incapace di non alzare la mano ogniqualvolta l’insegnante facesse una domanda.

    Quel giorno non faceva eccezione. Durante la prima lezione di matematica mi dannai per tenere il braccio inchiodato al banco, ma non ci fu verso.

    «Sì? Come ti chiami?»

    «Noah. Calaway. Professore», aggiunsi abbassando il braccio nell’attesa delle risatine. Non si fecero attendere.

    «Noah, eh? Mi sa che sei il primo che abbiamo», commentò il professor Matthews. Inutile dirlo, ricordo di aver pensato. «Di’ pure… Anzi, vieni qui a scriverlo alla lavagna».

    Quanto odiai quel braccio. Odiai pure gli sguardi che sentii trapassarmi. Sono certo di aver individuato un sadico luccichio nello sguardo del prof che gongolava di fronte al mio imbarazzo. Mentre scribacchiavo alla lavagna tra uno stridore del gesso e l’altro, le mani sudate, il cuore che mi esplodeva nel petto, il gessetto si ruppe. Mortificato, mi abbassai per raccoglierlo, e quando mi raddrizzai successe una cosa straordinaria.

    La porta si aprì ed entrò una ragazza. Esile, con una camminata tutta sua, a testa alta, i lunghi capelli rossi e ondulati che le ricadevano sulla schiena. Rimasi imbambolato a guardarla.

    «Ragazzo», tuonò il professor Matthews, senza calcolarla minimamente. «Fai con calma…».

    Nonostante mi sentissi paonazzo, avvertissi le risatine e i bisbigli partiti alle mie spalle, me ne fregai. All’improvviso il mio unico pensiero fu quella ragazza. Non avevo mai visto prima una creatura simile. Semplicemente una dea.

    3

    2016

    Non mi ero accorto che si era fatto buio, né che il passato si era pian piano riaffacciato. Sto pensando a come April riesca ancora a esercitare un’attrazione invisibile da chilometri di distanza.

    Dopo aver lanciato un altro ciocco nel caminetto e chiuso le finestre, attraverso il corridoio stretto che porta alla cucina, chiedendomi quale sia il vero motivo per cui mi ha chiamato Will, perché di sicuro non l’ha fatto per buon cuore. Il suo è marcio.

    Se però ha ragione, se April è sospettata di omicidio, le servirà senz’altro un avvocato.

    Accarezzo l’idea di abbandonarla alla mercé di un sistema che, una volta uscita dal coma, le assegnerà un avvocato. Magari uno bravo, che le crederà… o magari no, visto come vanno di solito le cose. Col tempo ho iniziato a odiarlo anch’io, quel gioco esageratamente intricato, con le cosiddette difesa e accusa, le parole contorte, e le ragioni e i torti discutibili che dovrebbero essere ben netti, ma in realtà hanno mille sfumature; la linea di confine che sembra sbiadire e spostarsi appena ti volti.

    Ma più penso alle parole ciniche di Will e a April in coma, più si riaffacciano i ricordi del mio primo amore, ora indifeso, a cui serve qualcuno che le presti la voce. Abbandono ogni remora, perché so che le serve qualcuno che le creda.

    Mi rendo conto di cosa implichi e sento un lieve tuffo al cuore. Sarebbe molto più semplice restarne fuori. Rimanere nel Devon e lasciar fare alla giustizia il proprio corso. Soffocare il passato sotto la spessa coltre degli anni. Non sentire più Will.

    4

    1991

    Dopo le lezioni vidi la dea di nuovo, fuori, con il calore opprimente e il sole accecante. Stava con altre due ragazze – una bionda, l’altra con i capelli castano chiaro e una ciocca ossigenata – avevano i calzini arrotolati alle caviglie, le gonne tirate su ed erano intente a parlottare per poi indicare e ridacchiare della grossa.

    «Ehi, segaiolo!», urlò quella castana tra i vari chiacchiericci. Alcuni ragazzi dall’altro lato della strada si voltarono terrorizzati. «Sì, parlo con te! Ti è già caduto il pisello?».

    L’avranno sentita tutti. Fissai le ragazze intimorito, la rossa con la faccia sbigottita, ma il mio cuore non poté far altro che andare al segaiolo, che era diventato come un peperone. Chissà che cosa aveva fatto per meritarsi quell’umiliazione pub­blica.

    Nel mentre le ragazze attraversarono la strada traballando sulle zeppe tra una risatina e l’altra.

    «Se fossi in te non mi immischierei», disse una voce amichevole alle mie spalle.

    Stupito, mi voltai per capire chi fosse.

    «Farrington», disse il ragazzino. Era qualche centimetro più basso di me, lentigginoso e coi capelli rossi. L’avevo già notato a lezione di inglese. «William. Puoi chiamarmi Will. Quelle tipe fanno paura, credimi. Dicono che sono delle streghe… tranne quella coi capelli lunghi. Lei è nuova. Le altre invece si incontrano a Reynard’s Hill dopo il tramonto per fare sortilegi e altre robe. Le ho viste coi miei occhi».

    Rimasi ancora più stregato. I sortilegi e le altre robe mi sembravano una figata. Di strada per casa, me le immaginai tutte e tre sedute nel bosco, illuminate da un’irreale luce verdastra, intente a rimestare qualcosa in un calderone e a bisbigliare incantesimi per sfoderare i loro poteri su tutta Musgrove.

    Naturalmente, la dea coi capelli del colore delle foglie autunnali era la capa. Si vedeva che non era una comune mortale. Ormai mi aveva incantato.

    «Se ti va, puoi venire a nuotare in piscina da me», continuò allegro il ragazzo. «Dico a mamma di chiamare i tuoi. Mi dai il tuo numero?».

    Lo scribacchiai su un foglietto, incredulo di quanto fossi stato fortunato. Le cose stavano andando molto meglio di quanto mi aspettassi.

    Con un nuovo amico e una madornale cotta a tenermi occupata la mente, ci misi poco ad ambientarmi. Io e Will iniziammo a uscire insieme, e scoprii un

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