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La bestia che ho dentro: Storia dei miei 39 mesi in una comunità di recupero
La bestia che ho dentro: Storia dei miei 39 mesi in una comunità di recupero
La bestia che ho dentro: Storia dei miei 39 mesi in una comunità di recupero
E-book161 pagine1 ora

La bestia che ho dentro: Storia dei miei 39 mesi in una comunità di recupero

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Info su questo ebook

Ramona Fenati racconta la sua storia di ragazza coraggiosa, che giovanissima perde la strada, ma con l'aiuto della comunità cerca di ritrovare se stessa e il proprio destino. Un romanzo forte, intenso, che descrive lo sforzo di realizzare la propria persona e i propri sogni, sottolineando l'importanza delle relazioni umane e di quanto le amicizie siano a volte più forti delle famiglie, delle proprie cadute e delle meravigliose risalite. Un racconto pieno di voglia di vivere e di speranza, in grado di farci entrare nella difficile realtà delle comunità di recupero...  e nel cuore del lettore.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2022
ISBN9788893782753
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    Anteprima del libro

    La bestia che ho dentro - Ramona Fenati

    Introduzione

    Ho pensato di scrivere questo libro parecchio tempo fa, ma trovavo sempre mille scuse per rimandare.

    Quando sono uscita dalla comunità, il giorno del mio diciottesimo compleanno, non ero pronta ad affrontare il fuori, ma allo stesso tempo non riuscivo più a stare tra quelle quattro mura, mi vedevo diversa dalle ragazze che erano lì dentro.

    Il programma per minorenni dura diciotto mesi, quello per maggiorenni ventiquattro, io ero stata quasi trentanove mesi per decreto civile del giudice tutelare.

    Il giudice non aveva voluto nemmeno che io partecipassi all’udienza, i fatti che avevo combinato erano troppo gravi, prima di tutto verso la mia persona.

    I miei genitori erano stati privati della patria potestà, perché ritenuti non idonei ad accudire una figlia e, per quanto ne so, il giudice aveva già decretato i miei futuri mesi in comunità, ma gli operatori non volevano che lo sapessi e si sottraevano con grandi giri di parole dalla responsabilità di rispondermi quando chiedevo e insistevo per sapere quanto tempo sarei dovuta stare.

    Durante i primi mesi fui portata regolarmente dal dottor Drago (oltre ad avere un cognome così simpatico era anche molto gentile), per vedere se le cose che sentivo e vedevo erano scomparse, e cercare di limitare gli effetti collaterali degli psicofarmaci.

    Gli operatori dicevano che ero depressa perché mi isolavo sempre, volevo solo dormire, mangiare, fumare e faticavo a muovermi, non ero partecipe, non riuscivo a parlare. Avevano paura che mi suicidassi, non mi avevano permesso di tenere le lamette per depilarmi le gambe, tanto non ne avrei avuto bisogno, e per le mie pinzette da sopracciglia dovetti insistere due mesi e mezzo.

    Alla fine andai nell’ufficio di Giancarlo, il responsabile, e dissi: «Ma guarda come sono messa, ti prego almeno le sopracciglia!» Per esasperazione me le concessero a patto che le usassi veramente solo per farmi le sopracciglia (che ci avrei dovuto fare sennò?) senza levarle tutte come quando ero entrata. Io non ho mai pensato una sola volta al suicidio, mai, in nessuno di quei trentanove mesi né in tutta la mia vita.

    Volevo solo fare le cose che fanno le ragazzine di quattordici anni: truccarmi, parlare con le amiche, ridere, andare in discoteca, trovarmi un ragazzo, ma questa mia voglia era tenuta prigioniera assieme alle allucinazioni e a tutti i buoni propositi. Inoltre, man mano che si avvicinava la data del mio diciottesimo compleanno smisi di dormire di notte.

    Era da poco iniziata la mia lotta con i disturbi alimentari perché dovevo essere magra, molto magra, avevo incominciato qualche mese prima a ballare al Centro Studi Danza, Balletto di Pesaro grazie al cuore grande di Loredana, che si era avvicinata alle ragazze della comunità per introdurvi la ginnastica e il ballo, dato che eravamo un po’ tutte in sovrappeso e un’attività ricreativa avrebbe rafforzato anche la coesione del gruppo.

    Loredana era una persona così bella, bella fuori e dentro con una pazienza infinita. Si prese la responsabilità di farmi conoscere e darmi la possibilità di frequentare la scuola, ricordo come mi batteva forte il cuore il primo giorno che me la fece visitare.

    Era molto brava a insegnare danza, le ragazze della comunità avevano colto l’iniziativa con grande interesse e finalmente anche il Tingolo poté fare il suo spettacolo alle dimissioni dei ragazzi in dicembre, prima di Natale, al Teatro Rossini di Pesaro.

    Nel periodo in cui sarei potuta uscire dalla comunità, Silvio Cattarina, il presidente de L’Imprevisto, non aveva ancora predisposto le case di reinserimento femminili: ai tempi c’erano solo quelle maschili e inizialmente avevo accettato il consiglio degli operatori di non tornare dalla mia famiglia di origine una volta terminato il percorso.

    Dentro, però, percepivo una lotta continua. Ogni giorno passato lì era diventato per me insopportabile, volevo essere padrona al cento per cento della mia libertà. Decisi tutto improvvisamente, pochi giorni prima del mio compleanno: sarei tornata a casa, non avrebbe potuto trattenermi nessuno una volta maggiorenne.

    Ero stanca di vedere gente che entrava dopo di me e usciva prima, di vedere che chi aveva commesso reati molto gravi aveva scontato meno tempo di me in comunità.

    Vivevo tutto ciò come una tremenda ingiustizia e sapevo che potevo farcela, dovevo farcela in qualche modo.

    Ho sempre avuto la testa dura, talmente dura che quando voglio una cosa la ottengo anche a costo di grandi sacrifici, e sono pronta a rompermela pur di seguire la mia strada.

    Il giorno prima del mio ritorno a casa, durante la festa che mi avevano preparato per salutarmi, una ragazza, con cui avevo sempre avuto degli attriti in quegli anni, mi disse: «Ramona ci rivediamo tra qualche mese, ti aspetto, non ti vergognare a tornare, guarda me che ho trentatré anni ed è la terza volta che mi ritrovo in comunità!»

    Io con decisione le dissi che non mi avrebbe mai più rivista, non avrei fallito, gli insegnamenti di quegli anni mi avrebbero permesso di farcela sempre e comunque.

    Sì perché come diceva sempre zio Mariano, un operatore a cui ero molto affezionata, «La comunità è solo la palestra, quello che ti attende là fuori sarà la vera sfida ed è lì che si vedrà se hai lavorato in modo onesto con te stessa!»

    Queste frasi mi martellavano nella testa assieme alla mia ossessione di dimagrire ancora, di trovarmi un lavoro per prendere la patente in fretta e riscattare la mia libertà.

    Stavo tornando in quella città, in quella casa impregnata di tanti brutti ricordi e sarei stata sola. Stavo tornando da quei genitori che non erano cambiati e non mi avrebbero supportata.

    Mi sarei trovata ad affrontare il fuori senza più il confronto quotidiano con le mie sorelle, con la mia vera famiglia, che ho continuato a sognare per anni la sera quando mi addormentavo. Prima di riaprire gli occhi al mattino cercavo di udire i passi dell’operatore e sentivo la carezza dell’operatrice che mi sussurrava: «Ramona svegliati, è una bellissima giornata!»

    Gli operatori a volte erano molto preoccupati, per loro lavorare con ragazzi fragili non è semplicemente portare a casa lo stipendio, è relazione, è amore, è volontà!

    L’unico che davvero credeva in me penso fosse Luca, che nella vita oltre all’operatore faceva il professore di matematica. Era stato sempre molto duro durante i mesi della mia permanenza al Tingolo, mi metteva spesso alla prova perché sapeva benissimo quali erano i miei punti deboli ed era uno dei pochi capaci di farmi crollare.

    I pianti più consistenti sapeva farmeli fare solo lui, era tutto d’un pezzo, penso di non aver mai sentito Luca fare dei complimenti per incoraggiare i ragazzi lì dentro.

    Aveva lavorato con Silvio Cattarina a Gradara, in una comunità dove la realtà era ben diversa dalla nostra: «Noi non avevamo idea di cosa significhi lavorare coi tossici, di quelli veri avanti con l’età, di quelli che hanno l’AIDS e ci muoiono, di quelli che scappano e vanno in overdose e ti trovi ad accumulare dei lutti che non finisci mai di accettare totalmente».

    Quando, qualche giorno prima di tornare a casa, andai a parlare in privato con lui nell’Ufficio Operatori, e non riuscii più a controllare la mia paura per il fuori, lui seppe darmi coraggio.

    «Ramona, sei più forte di quello che sembri, in questi anni non avrei mai pensato che tu potessi cambiare così tanto e ottenere questi risultati!»

    «Non ti deluderò Luca, non possono essere state versate invano tutte queste lacrime». Ci credevo, lo volevo!

    In principio ero libera

    Spesso le persone pensano ai ragazzi in comunità come a dei perdenti, ovvero gente che non ha nessuna possibilità di redenzione e recupero, ma solo chi vi è stato conosce il duro lavoro che sta dietro alle giornate passate lì dentro e comprende la forza che un percorso simile è in grado di dare.

    Un lavoro fatto di sofferenza, un lavoro che mano a mano viene permeato da quell’amore in grado di generare dei risultati che questi ragazzi e ragazze si porteranno dietro per sempre nella vita.

    Molti non ce la fanno e una volta fuori ricadono nell’errore, ma «questo Imprevisto che è la sola speranza»

    ¹ rimarrà per sempre impresso dentro di loro e se sapranno tenerlo nel cuore saranno in grado di cambiare una volta per tutte!

    Entrai in comunità il 25 ottobre 1999. Avrei compiuto quindici anni neanche tre mesi dopo, e fino a non molto prima giocavo ancora a guardie e ladri con le amiche d’infanzia nel campetto e sognavo di diventare una ballerina di danza moderna.

    Ero molto felice di entrare in comunità, e ne erano tutti stupiti: operatori, ragazzi, assistente sociale; non si capacitavano di come io potessi essere contenta di rinunciare alla mia libertà. Io, invece, sapevo benissimo che di lì a poco l’avrei ritrovata. Era una sicurezza inconscia, di quelle che non sbagliano mai, perché anche se l’assistente sociale mi diceva che sarebbe stata come una vacanza, e io facevo finta di crederci, in realtà sapevo benissimo che non sarei andata al mare di Pesaro a giocare, e forse non avrei nemmeno più potuto riappropriarmi della ragione.

    Quando vi entrai ero in una bolla fatta di allucinazioni, di pensieri che non potevo controllare e parole che non riuscivo a esprimere.

    Ricordo il grande dolore alla testa, un dolore così forte che difficilmente puoi dimenticare, provocato dagli psicofarmaci che dovevano servire a farmi stare bene e invece mi lobotomizzavano in una maniera sconvolgente.

    Faticavo a tenere gli occhi aperti, la luce era troppo forte, quando camminavo ero instabile perché, oltre a vedere tutto offuscato, mi sembrava di essere piena di sassi; un macigno vivente.

    Lungo il tragitto da Imola a Pesaro chiesi biascicando all’assistente sociale di convincere la psichiatra, che aveva deciso quale sarebbe stata la mia terapia, di diminuirmi i farmaci perché faticavo a pensare.

    Eravamo cinque in auto: io, mia madre, mio padre, l’assistente sociale e un suo collega, di cui ricordo ancora oggi il cognome

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