La Porta Antipanico: Come sopravvivere al passato
Di Mornica
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Anteprima del libro
La Porta Antipanico - Mornica
IL PANICO
Bianca era ferma immobile davanti all’auto parcheggiata sotto casa, su un enorme Suv, aveva sempre avuto macchine grandi, non le importavano marca, colore, cilindrata, le bastava sentirsi protetta e al sicuro.
Aveva programmato di partire 15 minuti in anticipo perché sapeva benissimo che avrebbe avuto bisogno di tempo, si conosceva bene, fin troppo bene.
Respirò profondamente e salì, mise in moto, i sensori iniziarono a suonare e per un momento quasi si spaventò, come se non li avesse mai sentiti.
Controllò tutte le lucine del cruscotto, agganciò la cintura, si allontanò dal marciapiede. Il silenzio le lasciò libera la mente per un istante, poteva partire.
L’ansia iniziò a farsi sentire a 700 metri da casa a inizio tangenziale.
Respirò profondamente, la imboccò.
Cominciò quella infinita e purtroppo ben conosciuta sensazione che da anni attanagliava la sua vita.
Iniziò a sudare, grondava acqua dalla schiena e dalla fronte, perfino le mani erano diventate appiccicaticcie mentre teneva il volante rigidamente sulle ore 10.10 come aveva imparato a scuola guida.
Aveva previsto anche questo e, non a caso, aveva con sé dei vestiti di ricambio.
"Adesso mi sento male, adesso svengo, adesso vomito, adesso sbando, mi schianto sul camion alla destra, oh mio Dio, è enorme, verrò schiacciata come una mosca. Adesso mi prende un capogiro, uno sbalzo di pressione, un collasso, un infarto. Mi sento le mani intorpidite, adesso perdo il senso del tatto, parte dalla cervicale, ho un problema alla spina dorsale, allora anche le gambe non le sentirò più tra poco. Oh Dio, ma cosa mi sta succedendo? Ancora, di nuovo, NO.
Vomito, vomito, vomito...NO."
Un interminabile dialogo interiore tra lei e il suo panico.
Ritorna in te, Bianca!
cercò di distaccarsi dalla sua mente.
Accese la musica come aveva sperimentato altre volte, cantò come se volesse sputare fuori quei polmoni che le impedivano di respirare come voleva.
Cantò le recenti canzoni di Ultimo, le aveva imparate a memoria ascoltandole ogni giorno alla radio nei brevi tragitti in auto o come sottofondo durante le pulizie domestiche.
Tredici lunghissimi chilometri di tangenziale, erano stati percorsi, aveva controllato accuratamente l’auto, fatto il pieno, verificato se i fari fossero ok e aveva fatto mettere le ruote invernali dal meccanico.
Si ricordò per un istante di suo padre, di quel giorno dal gommista mentre compravano il treno invernale.
«Spendi anche quattrocento euro per un paio di scarpe e poi cerchi di fare economia sulle ruote dell’auto che usi tutti i giorni, con vento e pioggia, dove fai salire altre persone. Prendi sempre le migliori e le più sicure in commercio».
Sante parole, santo papà.
Stava andando in montagna, da sola.
Aveva deciso che avrebbe vinto lei e non la sua mente.
Ora aveva un altro scoglio davanti a sé, il casello dell’autostrada.
Non poteva tornare indietro, non poteva fermarsi, non poteva far altro che passare ed entrare in quell’angosciante strada trafficata da mezzi pesanti.
Esco alla prima uscita
pensò, ho già fatto troppo per oggi
.
Ok, esco.
Mentre prendeva il biglietto al casello, iniziò la tachicardia.
Il cuore le batteva così forte che le sembrava smuovesse il torace, temeva scoppiasse.
Un cerchio alla testa, un ictus, no... un aneurisma, no... un’embolia.
Sto per morire, sbanderò, distruggerò l’auto e chissà quante auto coinvolgerò in questo incidente. Chissà al mio funerale cosa diranno, chissà come sarà la vita di tutti senza di me.
"Bianca respira, respira come hai imparato a Yoga...
pranayama, hommm, dai, un chilometro alla volta."
Passò la prima uscita e anche la seconda e la terza, ogni volta la testa cercava di portarla a fare inversione e tornare a casa, ma aveva deciso che questa volta avrebbe vinto lei. Era ferma e centrata sul suo obiettivo.
Musica, pensieri positivi e respirazione servirono a poco appena vide la prima maledettissima galleria.
Passò gli ultimi trecento metri a pensare se fosse meglio guardare la distanza indicata nel cartello che la precedeva, oppure no. Se fosse stata molto lunga sarebbe entrata in ansia, se fosse stata corta forse no... troppo tardi, l’occhio cadde involontariamente: 762 metri.
Quasi un chilometro, un lunghissimo e infinito chilometro chiusa là dentro.
Panico.
Non poteva far altro che guidare, rigida come un abito inamidato, fissa con lo sguardo davanti a lei, con le gocce di sudore che continuavano a scenderle dalla schiena.
Vide un motociclista con una t-shirt a maniche corte. Ma non ha freddo?
pensò.
Lo sguardo scese istantaneamente sulla temperatura scritta sul cruscotto... D’estate era abbastanza usuale, ma a fine ottobre c’erano undici gradi... galleria finita. Ringraziò con un mezzo sorriso il povero pazzo in motocicletta che inconsciamente l’aveva aiutata a distrarre il pensiero verso altro.
Continuò la sua sfida tra il continuo altalenare di sensazioni.
Il viadotto... non ricordava che per andare in Alpago si doveva passare su una strada elevata a un centinaio di metri verso il cielo.
Pensò per un attimo all’estate, a quando nelle uscite in moto al Lago di Santa Croce passava per i piccoli paesi oramai abbandonati dopo la costruzione della nuova strada. Da sotto, a valle, il viadotto imponente faceva ombra sulle vecchie case diroccate, una visione surreale.
Adesso però era sopra e doveva attraversarlo tutto.
Prese la bottiglia e sorseggiò acqua e limone che aveva portato con sé.
Aveva imparato che il limone la aiutava a limitare la salivazione, nel panico continuava a deglutire in continuazione, si sentiva come i cani che, davanti a una succulenta bistecca di carne, non riescono a trattenersi.
Passò il viadotto, superò tre, cinque, forse otto gallerie, non le contò.
Finita l’autostrada iniziò a vedere i meravigliosi panorami autunnali, i colori del lago che lasciava dietro di lei e i piccoli caratteristici paesi inerpicati tra i monti.
Era passata più di un’ora, avrebbe voluto fermarsi e prendere fiato ma aveva deciso di andare diretta alla meta, comprare nel consorzio le marmellate, il miele, i succhi, fermarsi a prendere 5 kg di mele e poi sarebbe rientrata.
In venti minuti arrivò a Pian del Cansiglio.
I colori autunnali dipingevano il paesaggio come fosse un quadro impressionista, il panico non poteva battere la meraviglia della natura.
Bianca aprì leggermente i finestrini, l’aria briosa riempì in pochi istanti l’abitacolo, e il respiro affannato e irregolare si trasformò in profondo e tranquillo.
Non c’erano le mucche come d’estate e le auto si contavano sulle dita di una mano, vide a poche centinaia di metri il posto dove era solita fermarsi, aveva superato metà del percorso.
Parcheggiò l’auto, si incamminò verso la baita, i tavoli fuori erano tutti vuoti, il timido sole non riusciva a scaldare abbastanza. Si guardò intorno, la valle le dava un senso di pace, quella che non trovava in sé stessa da troppi anni.
Prima di entrare si sedette su un tronco vicino a una fontanella, d’estate era il posto dove i bimbi giocavano mentre i genitori, seduti sulle panche, mangiavano polenta, salsiccia e funghi sorseggiando boccali di birra.
Seduta lì, ritornò bambina.
L’INFANZIA
Bianca era seduta sul bordo del tombino alto poco più di 30 cm, adesso che era cresciuta poteva sedersi anche senza accovacciarsi e tenere le braccia attorno alle ginocchia senza paura di cadere. C’è stato un tempo in cui anche solo per salire aveva bisogno del braccio di suo fratello, un appoggio sicuro, una vista sul mondo come i grandi.
Quel giorno non si sentiva più una bambina.
Guardava il camioncino di Mario, l’amico di suo padre, fermo davanti all’usurato e malconcio cancello che da quando era piccola non aveva mai visto chiuso (per pigrizia il nonno non aveva mai aggiustato la serratura oramai arrugginita).
Avrebbe preferito vederlo correre veloce per la stradina, come quando lo sentiva ogni sera mentre tornava dal lavoro: il tuonare del cassone vuoto nelle pozzanghere asciutte lasciava un rumore sordo oramai riconoscibile da tutti i vicini.
Invece il camioncino era lì, fermo, un po’ alla volta lo stavano riempiendo... una mensola, un tavolo, quattro sedie, il divano.
Tutti i suoi ricordi di bambina erano sopra a quel traballante ferrovecchio.
Strizzava e riapriva forte gli occhi sperando di non vedere più quella scena, come nei cartoni di magica Emy, gira e sfera, sfera e gira, quel che vuoi si avvererà
canticchiava nel pensiero.
Era il 7 luglio e, con grande commozione, tutto il paese salutava una famiglia storica che se ne stava andando.
La casa che stavano lasciando l’aveva costruita il nonno, ci aveva cresciuto tre figli e tutti avevano visto nascere i nipoti.
Un piccolo paese di provincia famoso solo perché a distanza di pochi anni sarebbe diventato il terzo aeroporto con più voli in Italia, ma a quel tempo contava solo poche anime.
Un fruttivendolo che riusciva a vendere solo quello che non cresceva negli orti dei paesani, il fornaio che in via del tutto eccezionale apriva la domenica mattina per