Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'ultima duchessa in Campidoglio
L'ultima duchessa in Campidoglio
L'ultima duchessa in Campidoglio
E-book247 pagine3 ore

L'ultima duchessa in Campidoglio

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La vicenda si svolge in pieno Ottocento, sotto gli occhi cinici di una sonnolenta Roma papalina ai suoi ultimi fuochi, con due protagonisti: Vincenza, una donna pragmatica e coraggiosa, e Palazzo Caffarelli per secoli dimora dei nobili romani e oggi sede dei Musei Capitolini.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2022
ISBN9791259990815
L'ultima duchessa in Campidoglio

Correlato a L'ultima duchessa in Campidoglio

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'ultima duchessa in Campidoglio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'ultima duchessa in Campidoglio - Rosella Bennati

    Colophon

    L'ultima duchessa in Campidoglio

    di Rosella Bennati

    ISBN 9791259990815

    redazione@edizioniallaround.it

    www.edizioniallaround.it

    I luoghi del libro

    immagine 1

    I luoghi del libro nella Roma del 1800

    A. piazza Madonna dei Monti

    B. via Madonna dei Monti

    C. via degli Zingari

    D. via dei Serpenti

    E. via del Cardello

    F. via del Seminario

    G. piazza Santa Maria sopra Minerva

    H. piazza Campitelli

    I. piazza Montanara

    J. Monte Caprino

    Nota dell'autrice

    Il romanzo si basa su fonti e documenti storici rigorosamente autentici, tutti i personaggi citati nel libro sono realmente esistiti.

    I dialoghi, i pensieri, le emozioni e i sentimenti sono plausibili ma immaginari.

    La vicenda dell’archeologa è di fantasia .

    dedica

    a Michele, Costanza e Bianca

    Prologo

    L’ingresso di Villa Caffarelli non è cambiato, dopo cinque secoli.

    «Vedi questo portale? – dico a mio nipote mentre lo attraversiamo – è sempre lo stesso, è ancora quello eretto nel 1584, quando il nobile romano Ascanio Caffarelli fece completare i lavori di costruzione del Palazzo di famiglia. Pensa che fino a pochi anni prima questo lato del Campidoglio era ridotto a pascolo per animali, e Ascanio dovette far bonificare tutta la spianata della Rupe Tarpea per sistemare la villa e il giardino. Ogni volta che vengo qui penso alla mia quadrisavola, la bisnonna di mia nonna, che era la duchessa Vincenza, l’ultima proprietaria del palazzo Caffarelli al Campidoglio».

    «Davvero discendiamo da una duchessa? – chiede mio nipote con una punta di ironia – non sarò duca anch’io».

    «No, non è proprio così. Anzitutto adesso non ci sono più i titoli nobiliari, e poi Vincenza quel titolo lo aveva avuto dal suo secondo marito, il duca Baldassarre Caffarelli. Tu discendi dalla figlia del primo marito».

    «Menomale, non mi piaceva l’idea di essere nobile».

    «Comunque, qualche vezzo araldico i tuoi antenati ce l’avevano. Sai cosa si raccontava, in famiglia? Si diceva che il mio bisnonno materno, Ettore Lauretti, si vestiva come un vero gentiluomo, con candidi panciotti, fiore bianco all’occhiello e sciarpe di seta, e chiamava sua madre Annunziata maman. Eppure, a casa sua, in via della Lungara, con una tribù di figli, non si respirava aria di aristocrazia. C’era un motivo, per i suoi atteggiamenti blasé: sua nonna Vincenza era una duchessa e sua madre Annunziata, la sua maman, aveva frequentato per anni quel palazzo.

    È una bella storia, quella della tua antenata, e ripercorrerla significa rivivere la Roma di due secoli fa».

    Capitolo I

    1810

    Al funerale di mio padre mi sembrava di vivere lontano dalla realtà. Guardavo le stelle. Non quelle in cielo, le stelle che guardavo io erano ricamate sul mantello della Madonna dei Monti. Brillavano come diamanti, illuminate da un raggio di sole che penetrava in chiesa dalla finestra laterale, e io le fissavo per farmi coraggio, mentre il prete finiva la sua omelia: pensavo che una di quelle stelle fosse mio padre. Poi portarono fuori la bara e la misero sulla carrozza che aspettava fuori dalla chiesa. Era un lusso quella carrozza, anche se era trainata da due soli cavalli, ma mio padre le carrozze le aggiustava di mestiere e le faceva tornare nuove, era giusto che il suo ultimo viaggio lo facesse così. I fanali di ottone luccicavano al sole e mi sarebbe piaciuto accarezzarli per sentire il freddo del metallo, come facevo in tanti pomeriggi passati all’officina di papà, quando toccavo i pezzi smontati e rimessi a nuovo.

    Non so perché ma non riuscivo a piangere, sentivo le lacrime dentro di me che non ce la facevano a venire fuori. Mamma, non è vero che ero insensibile come mi hai detto tu una volta, io soffrivo molto, papà era mio amico.

    1818/1829

    Vincenza attraversò di corsa la piazza, dando un’occhiata alla fontana dove ogni tanto amava spruzzarsi con le sorelle. Una notte se l’era anche sognata, quella fontana, aveva sognato di farci il bagno insieme ad Antonia e Anna, tutte e tre a sguazzare nell’acqua senza vestiti, coperte solo dalle sottanine di cotone. Era un sogno ma ancora rabbrividiva al ricordo della mamma che le tirava fuori dall’acqua e le puniva, facendole camminare per tutta via Urbana con le sottane gocciolanti, mentre la gente le guardava e rideva. Aveva paura dei suoi sogni, Vincenza, erano molto spesso degli incubi che la tormentavano da quando era morto suo padre.

    La ragazza entrò nella chiesa di Santa Maria ai Monti e si andò a inginocchiare davanti all’immagine della Madonna. Il giorno dopo, il 29 aprile, i monticiani avrebbero portato l’icona in processione come tutti gli anni, per ricordare i suoi miracoli. Le piaceva quella Madonna, aveva un mantello tutto trapunto di stelle che brillavano come gioielli. Ai funerali di suo padre quelle stelle le avevano dato coraggio.

    «Madonna mia, damme ’na mano – pensò – domani alla processione famme incontrà Pasquale».

    Le sembrò che l’immagine ammiccasse e tutta soddisfatta si alzò e uscì dalla chiesa, avviandosi verso casa, in via degli Zingari.

    Appena entrata sentì la voce di Angela, sua madre:

    «Vince’, sei tu? Vie’ qua, sbrigate, so’ du’ ore che stai in giro, và a sveja’ tu’ sorella».

    Lei sbuffò e salì le scale. Entrò nella stanza e guardò Anna, la piccola di casa, che dormiva beatamente. La scrollò, la tirò su a sedere sul letto e la sorella aprì gli occhi ancora gonfi di sonno. Anna non aveva voglia di vestirsi ma Vincenza non voleva perdere tempo, la fece alzare, le sfilò bruscamente la camicia da notte e le infilò il vestito di flanella grigia che la madre aveva messo su una sedia accanto al letto. «Ahia – gridò Anna – mi fai male!».

    La sorella non rispose, prese il grosso pettine di osso dalla toletta, lo bagnò nell’acqua della bacinella e lo passò con movimento rapido fra i capelli crespi di Anna. «Ahia!», gridò Anna più forte, ma lei continuò imperterrita.

    Sopraggiunse Angela: la sua grossa figura si stagliò sulla porta della camera, i capelli arruffati in cima alla testa come le foglie di un albero e il corpo massiccio come un tronco.

    «Vince’, nu lo vedi che je stai a strappa’ tutti i capelli? – gridò, togliendole di mano il pettine – fai tutto pe’ dispetto, tu». La ragazza guardò sua madre con fastidio: non era mai contenta, ce l’aveva sempre con lei.

    Se la ricordava quando era allegra e scherzava sempre con papà. Bei tempi quelli, suo padre era ancora vivo, guadagnava bene con il suo mestiere di facocchio, e aveva un sacco di clienti importanti. Lui raccontava sempre che una volta nella sua bottega era venuto il cocchiere di Paolina Bonaparte, e mamma lo guardava ammirata.

    Papà era morto presto e Vincenza era rimasta con le sorelle minori Antonia e Anna e con la madre, che si era risposata. Il patrigno era un brav’uomo ma a lei stava antipatico: lui non era facocchio, era un fienarolo, sempre su e giù con la campagna, insomma era un burino.

    «Vince’, hai comprato er pane? », chiese Angela.

    «No, ma’, c’era troppa gente dal sor Augusto».

    Angela la guardò furibonda: «’Sta disgraziata! Pe’ ’na cosa che dovevi fa’! Mo’ che se magnamo pe’ colazione?».

    Lei non rispose, alzò le spalle e uscì, dicendo: «Mo’ lo compro, er pane, torno presto».

    Si allontanò da casa, ben felice di aver trovato una scusa per uscire di nuovo. Via Urbana a quell’ora di mattina era piena di gente, carretti, asini, cavalli, carrozze, un via vai infernale. Si sentì tirare la gonna, si girò e vide sua sorella Antonia. «Che voi? Perché me vieni appresso?», le chiese sgarbata. Antonia fece la faccia di pianto: «Vince’, vojo veni’ co’ te».

    Sbuffando, diede la mano alla sorella e la trascinò camminando veloce verso la bottega del sor Augusto. C’era meno gente, adesso. Il panettiere stava in piedi dietro il bancone e, alle sue spalle, un arco divideva il negozio dal forno. L’odore di pane appena sfornato era irresistibile.

    «Sor Augu’, du’ pagnotte de casareccio de Velletri». Pagò e uscì col pane caldo tra le braccia. Antonia da sotto cercava di bucare la carta e staccare un boccone di pane, ma Vincenza le tirò via la mano: «E levete, magni più tardi, a casa».

    Le sorelle costeggiarono il Foro Boario, e la ragazza diede un’occhiata intorno per vedere se c’era Pasquale. Era lì che l’aveva incontrato la prima volta, qualche mese prima. Pasquale andava al Foro a comprare la carne per la sua macelleria di Santa Maria sopra Minerva. Avevano fatto amicizia, lui era spiritoso e la faceva ridere e da allora si erano incontrati parecchie volte.

    In quel momento lo vide: sì, era proprio lui, stava appoggiato al muro con la tesa del cappello abbassata sul viso, si vedeva solo la bocca con lo stuzzicadenti da un lato, e quel sorriso sfottente che a lei piaceva tanto.

    Antonia, che aveva otto anni ma era già un po’ maliziosa, lo riconobbe subito. «Vince’, hai visto? Ce sta quello che te vie’ sempre appresso, Vincenzo, er fio der macellaro».

    «Shh, statte zitta, famo finta de nun vedello». Diceva così ma intanto passava proprio davanti a lui, camminando lenta lenta. Pasquale la vide e si avvicinò, tirando indietro il cappello sulla nuca: «A Vince’, che nun me saluti? Fai finta de nun vedemme?».

    «Pasqua’, certo che t’ho visto, ma tu me devi saluta’ pe’ primo, io so’ femmina», rispose, guardandolo con aria provocante.

    Pasquale sorrise: «Vince’, ce vieni domani alla processione? Io sto lì co’ la Confraternita dei macellari, reggo la Madonna coll’artri confratelli, sto tutto elegante colla tunica bianca, vieni a vedemme?».

    Lei fece spallucce: «Cercherò de passà, a che ora ve movete?».

    «Beh, alle dieci, poi dovemo fa un bel giro co’ la processione. Magari poi potemo fa’ una passeggiata».

    «Va be’, a domani, allora», disse Vincenza allontanandosi con Antonia.

    Tornò a casa tutta allegra e, prima di entrare, disse alla sorella: «Nun t’azzarda’ a di’ che hai visto Pasquale, sennò nun te porto mai più co’ mme».

    Quella notte non riusciva ad addormentarsi, era agitata al pensiero di quell’invito a fare una passeggiata. Sentiva che lui si sarebbe dichiarato. Ma lei era pronta? Lui le piaceva, soprattutto quando sorrideva ma certe volte le ispirava anche una vaga paura, era così massiccio e aveva due manone pelose.

    Il giorno dopo a casa c’era una grande confusione. Era domenica, e tutta la famiglia si era svegliata presto: bisognava vestirsi bene per andare alla processione. Vincenzo, il fienarolo, stava finalmente a casa, niente via vai con la campagna, oggi, e reclamava ad alta voce i suoi pantaloni della domenica che Angela stava stirando.

    Vincenza, come al solito, doveva aiutare le sorelle a vestirsi, e lo faceva sbuffando, mentre le due bambine si lamentavano per i suoi modi bruschi. «E stateve un po’ ferme, regazzì’ – diceva con voce stridula – ho quasi finito, tu strigni ’sto laccio della scarpa e tu tirate su ’sti capelli, me pari ’na strega».

    Finalmente, le due ragazzine erano pronte e lei poteva dedicarsi a sé stessa. Per la domenica si era preparata sul letto la gonna nera, la camicetta bianca e il gilet rosso, stretto dai lacci di velluto. Era il suo completo delle feste, ricavato da una gonna della madre e da una camicia ereditata dalla nonna. Si vestì in fretta, prima che la madre la chiamasse, e si raccolse i capelli ricci e bruni in cima alla testa con un pettinino di osso. Sembrava più grande, messa così, e guardandosi allo specchio dell’armadio si sentì quasi bella.

    «A ma’, io vado avanti, ce ritrovamo in processione», avvertì, sgattaiolando fuori e andando verso la chiesa. C’era già molta gente in giro e un sacco di bambini, i più piccoli attaccati alle gonne delle madri, gli altri scatenati a correre su e giù per via Madonna dei Monti.

    Entrò in chiesa, guardò le candele illuminate e cercò tra le teste dei fedeli quella di Pasquale ma non lo vide.

    I confratelli arrivavano numerosi, con le tuniche bianche e il cappuccio che scendeva sulle spalle. Era facile confondersi e ogni tanto Vincenza aveva l’impressione di vedere Pasquale, ma poi si accorgeva che non era lui. Forse non verrà?, pensò. Ma eccolo, con un tuffo al cuore lo vide, alto e massiccio con la sua tunica e l’aria assorta, quasi seria, molto preso dal ruolo di portatore dell’icona. Lui e altri confratelli si allinearono davanti all’altare e si tirarono su i cappucci, poi il prete e alcuni fedeli che lo aiutavano tirarono giù con cautela il quadro della Madonna che fu appoggiato su una portantina ricoperta da un drappo rosso. I portatori s’inchinarono, sollevarono la portantina issando sulle spalle i bastoni che la sostenevano, e con passo solenne si avviarono verso l’uscita della chiesa. Si era fatto silenzio intorno, anche i bambini non gridavano più, solo una voce femminile si levò stridula, urlando: «Viva Maria». Tutti di rimando bisbigliarono qualcosa, forse una preghiera o un amen.

    Si levarono le prime note dell’inno suonato dalla banda che seguiva la portantina precedendo i fedeli. Vincenza era commossa, quella processione l’aveva sempre colpita, e quest’anno, con la presenza di Pasquale, l’evento era ancora più emozionante. Seguì la processione per via dei Serpenti, poi il corteo girò per via del Cardello e continuò per le strade del rione Monti, anche quelle più strette. La gente del quartiere faceva ala lungo le vie, le donne si segnavano al passaggio della Madonna e i bambini guardavano incantati la portantina e i confratelli che la sostenevano.

    Da molte finestre pendevano coperte, drappi e tovaglie messe lì per omaggiare il passaggio della Madonna e il quartiere diventava più allegro con tutti quei festoni colorati che ondeggiavano sulle facciate dei palazzi, come lingue pendenti da grosse bocche spalancate.

    Quando passarono sotto casa sua, in via degli Zingari, la madre e le sorelle salutarono Vincenza dalla porta di casa e si affrettarono a raggiungerla per seguire il corteo.

    Il fienarolo era già uscito tutto in ghingheri ma non era andato in chiesa, si era infilato nell’osteria di piazza dei Monti a giocare a carte.

    «Vince’– disse la madre – come te sei vestita? Mica è un matrimonio, te potevi mette la camicia griggia, questa è troppo scollata!». Vincenza arrossì, sua madre la faceva sempre sentire a disagio.

    Le sorelle la guardarono e Antonia la consolò: «Sei bellissima, me pari ’na fata». Continuarono a seguire il corteo per un’oretta, attraversando tutto il rione Monti, poi tornarono verso la chiesa.

    «Vince’ – disse Angela – io torno a casa, devo prepara’ er pranzo, sennò mi marito chi lo sente, tu che fai?».

    «A ma’, io nun torno a pranzo, resto qui, ce stanno un sacco de bancarelle che vendono robba da magna’, vojo incontra’ l’amiche mie».

    La madre la guardò perplessa, aveva l’impressione che sua figlia mentisse ma decise di soprassedere, aveva un sacco di cose da fare a casa e le bambine non avevano nemmeno fatto colazione.

    Rimasta sola, Vincenza andò subito in chiesa a vedere se Pasquale avesse finito con il suo impegno di portatore. Lo vide subito, stava andando a spogliarsi. Lo aspettò fuori dalla sacrestia sbirciando dalla porta socchiusa il gran via vai di confratelli che si sfilavano la tunica e la riponevano in grandi sacchi di iuta. Pasquale uscì poco dopo. Portava i pantaloni neri e la camicia bianca, e si era pettinato con cura. I capelli erano imbrillantinati, e splendevano alla luce delle candele come se fossero tessuti con fili d’argento.

    «Vince’, m’hai aspettato?», le disse sorridendo, e lei abbassò gli occhi, un po’ vergognosa di quell’attesa, un palese gesto di attenzione.

    Pasquale le mise un braccio sulle spalle e le sussurrò all’orecchio: «Vieni a casa mia? I miei stanno a bottega, oggi cianno l’inventario».

    Lo guardò un po’ spaventata. A casa sua? Lei si aspettava una dichiarazione d’amore, non una proposta indecente. Pasquale le lesse nel pensiero, e aggiunse ridendo: «Nun ce so’ i miei, ma c’è mi’ fratello, e oggi c’è pure mi’ nonna, perché è domenica».

    Rassicurata, Vincenza lo seguì fino a casa sua. Attraversarono piazza del Pantheon, con le carrozzelle parcheggiate intorno alla fontana in attesa dei clienti domenicali, imboccarono via della Minerva e arrivarono a casa Pozzonelli. Pasquale bussò e aprì il fratello Gerolamo, squadrò la ragazza e disse con fare un po’ sfottente: «Pasqua’, chi è ’sta pischella?».

    Pasquale lo guardò male: «Famme passa’, lei è ’n’amica mia», e la fece entrare in casa, rapidamente, portandola in camera sua. «E tu nonna ’ndo sta? », chiese Vincenza, un po’ impaurita. Lui chiuse a chiave la porta, e con aria tranquilla fece: «Nonna sta in cucina, lei a quest’ora prepara er pranzo».

    Vincenza si guardò intorno. Nella stanza c’erano due letti, quello di Pasquale e quello di suo fratello, e lui la guardava con un’espressione tesa, come se aspettasse qualcuno, o qualcosa.

    La sua mano afferrò uno dei lacci di velluto rosso che chiudevano il corpetto e con un gesto secco lo strappò. Vincenza restò senza fiato, non si aspettava quella violenza, si strinse addosso la camicia che era schizzata fuori dalla gonna e parlò con voce soffocata «Pasqua’, nun me tocca’, lassame sta’, vojo anna’ a casa».

    Lui però non si fermava, sembrava un altro, era concitato: «Zitta Vince’, nun te fa’ senti’, lasciame fa’, te prego». Lei cercò debolmente di opporsi ma fu presa da una sensazione strana, una sorta di rassegnazione. Il pettinino che le reggeva i capelli era scivolato giù e i riccioli erano scesi per le spalle. Vincenza era spaventata ma si vergognava di strillare, e lo lasciò fare, chiuse gli occhi per non vedere e sentì solo le mani di lui che la spogliavano e la buttavano sul letto.

    Poi avvertì solo un dolore sordo tra le gambe, e il fiato di Pasquale che le soffiava sul collo, un fiato dall’odore acre di minestrone. Ma forse l’odore di minestrone veniva dalla cucina, dove la nonna stava preparando il pranzo. Per tutta la vita l’odore del soffritto e del minestrone le avrebbe ricordato quella silenziosa e rapida violenza.

    Quanto tempo era passato? Dieci minuti, mezz’ora, un’ora? Lei aprì gli occhi, si tirò su e si sedette sul bordo del letto. Lui si era già rivestito, o forse non si era mai spogliato, chissà, ora le volgeva le spalle e se ne stava lì, zitto e a capo chino. «Vince’ – disse – me so’ comportato male, scusa».

    Lei tacque. Voleva solo andarsene di lì, tornare a casa sua. Si rivestì con gesti rapidi e bruschi, raccattando vestiti e biancheria. I panni sparsi qua e là sul letto le sembravano stracci, pezzi miserevoli del suo passato, come se su quel letto sfatto lei avesse laciato la sua infanzia. Aprì la porta della stanza e attraversò l’ingresso. Nell’aria ristagnava l’odore del minestrone della nonna. Infilò la porta e uscì.

    Non era così che avevo sognato la mia prima volta. Mani che mi palpavano, lacci che si scioglievano, gli abiti a terra e il fiato di lui sul collo,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1