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Chiudi gli occhi e seguimi
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E-book319 pagine4 ore

Chiudi gli occhi e seguimi

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Info su questo ebook

Anni Sessanta. Anna è una ragazza dolce e insicura costretta a vivere in un clima familiare oppressivo dominato da un padre-padrone che maltratta la moglie e per lei nutre solo disprezzo. Il divorzio dei genitori porta finalmente un po’ di serenità nella sua giovane vita e rafforza il legame con la madre che lotta duramente per assicurare a entrambe un futuro dignitoso. In balia di relazioni con uomini che in un certo senso fungono da sostituti del padre e dai quali viene inesorabilmente ferita, Anna confonde l’innamoramento con l’amore e la dedizione cieca con la complicità di coppia. Finché un tragico fatto di sangue sconvolge la sua famiglia e la costringe ad affrontare molte avversità, contando unicamente sulle proprie forze fino a prendere consapevolezza che la vera possibilità di cambiamento coincide con il coraggio dei sentimenti.

Un delizioso miscuglio di leggerezza e sostanza che ruota attorno a una giovane donna, un romanzo profondo dove il presente si intreccia ai ricordi in una sequenza di immagini e profumi, nostalgie e rimorsi; e dove infine trionfa la vita, sublime e ineluttabile, nella bellezza dei piccoli gesti, nella grandezza delle piccole cose.

Nelly Morini, attiva per anni nel settore turistico è ora pensionata e vive ad Ascona, nel Canton Ticino.

Il suo segno zodiacale è il Leone. Parla quattro lingue, scrive per diletto e per estraniarsi dalla routine quotidiana. La sua grande passione è la poesia. Nel 2014 ha conseguito una menzione speciale al Concorso letterario Roma Writers e il secondo posto al Concorso letterario indetto dall’Associazione culturale Il Picchio di San Giuliano Milanese. Chiudi gli occhi e seguimi è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2015
ISBN9788863966077
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    Anteprima del libro

    Chiudi gli occhi e seguimi - Nelly Morini

    L'Autrice

    I

    Anna. 1956

    La domenica si stava consumando, cupa e solitaria come tante altre, anzi, come tutte, in quella improbabile famiglia. Silvia, la madre, succube, senza risorse, spesso nervosa, stava raccogliendo le stoviglie. Luigi, il padre, irascibile e disamorato, totalmente privo di comprensione e tirchio all’eccesso, seduto a capotavola, aveva appena finito di mangiare una mela, dopo averla accuratamente sbucciata. Anna, la figlia quattordicenne era seduta a lato del padre. Il pasto domenicale era appena terminato in assoluto silenzio, c’era aria di tempesta.

    Luigi si alzò dal tavolo e si recò in camera da letto. Abitavano una mansarda adiacente al solaio, piena di spifferi, fredda in inverno con la sola cucina economica a riscaldarla e torrida in estate. Nella camera dei genitori, dove il soffitto era così basso che bisognava stare attenti a non battervi la testa nell’alzarsi dal letto, si sentivano grattare e zampettare gli uccelli che avevano trovato il loro habitat sotto il tetto. Il padre, di professione imbianchino, con qualche estro d’artista, in uno dei suoi rari slanci aveva contribuito ad abbellire la mansarda con delle decorazioni di sua ideazione, ritagliando alcuni scampoli da una tappezzeria appartenuta a un cliente e applicandoli sulla parete della sua camera sopra la testata del letto. Rappresentavano scene di vita dell’Ottocento, con carrozze e cavalli, damine con ampie gonne e il parasole e gentiluomini con il cilindro, il bastone da passeggio e le ghette. Un insieme abbastanza gradevole che l’autore vantava con sussiego e mostrava a tutti coloro - invero pochi - che venivano per casa.

    Il corridoio dell’appartamento era buio e stretto come un cunicolo, intervallato da un gradino che dalla porta d’entrata conduceva al bagno. Anche qui Luigi aveva apportato il suo tocco personale alle pareti. Dapprima aveva applicato una pittura spessa color crema, dopo di che, infilati dei guanti bianchi di gomma, vi aveva passate le dita con un movimento circolare, ottenendo così un ghirigoro irregolare, in rilievo e di bell’effetto. Dal gradino si risaliva verso la cucina e la camera da letto dei genitori. La saletta oltre a un divano-letto per Anna, conteneva un tavolino, una poltroncina e un armadio e si trovava proprio di fronte alla porta d’entrata.

    Silvia si accinse a ritirare i piatti dal tavolo e Luigi rientrò in cucina dalla camera da letto dove si era recato, con il volto aggrondato e rabbioso.

    Hai preso cinque franchi dall’armadio, aggredì la moglie in tono accusatorio.

    Era lì infatti, sotto le lenzuola, che il padrone teneva i suoi averi, salvo quelli che depositava in banca. Silvia rabbrividì, immaginando il seguito di quella pur semplice domanda. Ne avevo bisogno per comprare da mangiare, rispose intimorita.

    Maledizione, urlò Luigi.

    Il suo pugno si abbatté con forza inaudita sul tavolo e centrò in pieno il piatto che conteneva gli avanzi del pasto, frantumandolo. La sua mano cominciò a sanguinare, mentre la madre e la figlia inorridite, si misero a piangere. Luigi, come pazzo, si era intanto rivolto alla moglie e, alzando la mano sanguinante si accingeva a batterla.

    Ecco che cosa mi fai fare, urlò. È tutta colpa tua.

    Anna, spaventatissima, cercò di trattenerlo, singhiozzando disperata e tentando di tamponare la mano ferita del padre con il tovagliolo.

    Pur di farlo smettere, non aveva esitato a baciare la mano ferita, sporcandosi la bocca con il suo sangue. Dopo aver sfogato la sua rabbia, colpendo la moglie con un paio di ceffoni, l’energumeno ordinò alla figlia di cercare una benda e di fasciargli la ferita. Poi, come se niente fosse, espresse alla stessa la sua intenzione di recarsi al cinematografo dell’oratorio a vedere un film, che in quel periodo andava per la maggiore: La guerra dei mondi.

    Il cinema, con il gioco delle carte, erano le sue passioni. Dopo di che veniva la musica. Aveva infatti imparato a suonare la fisarmonica, dapprima da autodidatta. In seguito aveva studiato solfeggio e ora sapeva anche leggere le note. Vi era riuscito ed era un discreto fisarmonicista. Assieme ad alcuni amici musicisti aveva fondato un’orchestrina che a quei tempi andava per la maggiore nelle feste campestri di paese. Guadagnava bene con quelle esibizioni e conservava gelosamente i soldi nel suddetto armadio. Erano lì, a sua completa disposizione, ben sapendo che la moglie non si sarebbe azzardata a toccarli. Ma ora era accaduto, quella scostumata aveva osato… ma gliel’ aveva fatta pagare.

    Riordinati, ordinò alla figlia, perché tu vieni con me.

    Anna dovette obbedire, suo malgrado.

    Seduta nella sala scura, non riusciva ad appassionarsi alle vicende che si susseguivano sullo schermo. E mentre pensava a sua madre, rimasta a casa a piangere, un altro episodio le si risvegliava nei ricordi. Era accaduto qualche anno prima, quando lei frequentava la seconda elementare.

    Un mattino, la mamma le aveva messo in mano, religiosamente, una moneta d’argento da cinque franchi. Non c’è più pane in casa, fai una corsa dal panettiere e compra un bastone da un chilo; non ho spiccioli e devo affidarti cinque franchi, che sono ciò che mi resta fino a quando tuo padre mi darà la mesata, aggiunse in tono apprensivo,bada a non perderla e sta attenta a che il resto sia esatto.

    Non temere mamma, faccio una corsa e torno subito.

    Animata da buona volontà, felice di poter fare un favore alla madre, Anna si precipitò giù per le scale e, in un baleno, si trovò a percorrere a balzelloni, da quella bambina che era, la viottola che da casa conduceva alla bottega del fornaio. La conoscevano tutti lì attorno poiché spesso la madre la mandava a far provvista.

    Era quasi giunta al prestino quando inciampò in un sasso della scoscesa viottola e si ritrovò a terra. Nella caduta le mani le si aprirono di riflesso e la preziosa moneta che teneva racchiusa nella destra, rotolò tintinnando giù per la discesa e finì nel tombino poco distante. Allibita, Anna rimase lì a terra, ammaccata e intontita, con le ginocchia sanguinanti, a guardare il tombino che aveva inghiottito la preziosa moneta, mentre il terrore delle conseguenze per quel suo atto di leggerezza le invadeva la mente. Rialzatasi, si era precipitata alla panetteria, a quell’ora assai affollata. Si era avvicinata al banco, scarmigliata e piangente in modo tale da spaventare la moglie del fornaio che stava servendo un operaio, e tra i singhiozzi aveva raccontato l’accaduto agli astanti. Si ricordava vagamente di un paio di mani pietose che l’avevano carezzata, mormorando parole di comprensione e di altri che, ottenuto il loro pane, uscivano subito di bottega senza prestare alcuna attenzione alla bambina disperata.

    Vi prego aiutatemi, non posso tornare a casa senza denaro… e senza pane, piagnucolò guardando la fornaia, una donna gentile e garbata."

    Io il pane te lo do lo stesso, ma come facciamo per i tuoi soldi? Forse ho un’idea, arguì all’improvviso e un gran sorriso le illuminò il faccione cordiale. Peter, vieni qui, chiamò affacciandosi sul retro.

    Al giovane garzone accorso al suo richiamo, la donna spiegò rapidamente l’accaduto.

    Vai con Anna, fatti mostrare il tombino, solleva la grata e con un pala, cerca di vuotarlo e di ritrovare la moneta.

    Che idea meravigliosa! La bambina ora, era quasi sicura di ritrovare i soldi. Ma dopo che Peter ebbe vuotato il tombino, scrutandone il contenuto, la moneta da cinque franchi non si trovò e Anna dovette tornarsene a casa e confessare l’accaduto. Silvia non la sgridò e non ne parlò a Luigi. Si ridusse a pregare i negozianti di tenere nota della spesa, avrebbe regolato tutto, di sicuro, a fine mese. Avrebbe poi provveduto a fare delle ulteriori economie il mese entrante, per compensare la spesa supplementare e coprire così l’ammanco. Ma Luigi non doveva sapere, si sarebbe certamente infuriato. Col trascorrere degli anni l’atteggiamento del padre nei confronti del denaro non era mutato, pensava Anna, mentre le immagini del film scorrevano sullo schermo. Egli lesinava il centesimo alle due donne e nella sua considerazione una moneta da cinque franchi valeva ben più della moglie e della figlia.

    Era buio quando Anna e suo padre uscirono dal cine e si affrettarono verso casa. L’appartamento era scuro, non c’era segno di vita. Silvia, che si era coricata, rannicchiata, nel letto che fra qualche ora avrebbe condiviso con quel marito che oramai le faceva solo paura e le suscitava ribrezzo, non osava quasi respirare. Egli avrebbe preteso il dovere coniugale e lei non sapeva come rifiutarglielo, mentre la sua anima urlava un no che il suo corpo esprimeva con una totale chiusura, ma sapeva che alla fine avrebbe dovuto cedere alla forza bruta dell’uomo.

    Dopo aver servito al padre una cena fredda, Anna si coricò, senza neppure lavarsi. Stette a lungo sveglia, tutta rattrappita e tremebonda nel suo lettino, situato nella saletta del modesto appartamento, poi il sonno la vinse e si addormentò con nelle orecchie il pianto sommesso della madre, soffocato dalla voce irata del padre.

    Gli anni che seguirono trascorsero più meno nello stesso squallido modo. Litigi, musi lunghi che duravano settimane, batticuore nell’udire i passi del padre sulle scale, la sera e la notte, quando rientrava dall’aver trascorso la serata all’osteria o al cinema. Anna cercava di stare il più possibile con la madre che del resto lavorava tutto il giorno quale donna di fatica in una casa agiata. Inoltre, si portava a casa la biancheria di un impiegato da lavare e stirare. La metteva a mollo in una caldaia che cuoceva sulla stufa a legna, dopo di che la trasportava nella vasca da bagno e la sciacquava, strizzandola a mano. Poi l’appendeva in solaio, un solaio buio, infestato da ragni che terrorizzavano la povera Anna e al quale si accedeva attraverso una porta situata in fondo al corridoio dell’appartamento stesso. La biancheria asciugava presto, perché la finestra del solaio era sempre aperta ai quattro venti. Volendo, la si poteva stendere anche su una terrazza comune che si trovava nell’altra ala della casa: la si poteva raggiungere attraversando un’altra buia soffitta e scendendo una ripida scala. Ma Silvia era così stanca che preferiva optare per il proprio solaio. Tutto il guadagno del suo umile lavoro veniva consegnato per tacito accordo al padrone di casa che ne faceva l’uso che meglio credeva, dando alla moglie solo lo stretto necessario per comperare i viveri. Ed erano guai, se i soldi non bastavano…

    II

    1959

    Anna era da poco rientrata dall’istituto cittadino diretto da monache, dove aveva appreso la lingua tedesca. Era stata sua madre che l’aveva fortemente voluto, del resto la ragazza era assai portata per le lingue straniere. Silvia si era spezzata la schiena per pagare la retta. Il padre non aveva trovato da ridire, visto che sperava che una volta diplomata, la figlia avrebbe potuto trovare un buon impiego e contribuire alle spese di casa. Anna era in internato, il che significava che non poteva rientrare a casa la sera, bensì solo a Pasqua e a Natale. Un sollievo per lei, restare lontana da casa. Aveva conseguito un ottimo diploma e, appena uscita dal collegio, si era impiegata quale apprendista presso uno studio notarile. Frequentava la scuola serale dove contava di ottenere il diploma di commercio dopo poco più di un anno e lì si era fatta un morosino, Ettore, niente di che, un ragazzotto che aveva un anno più di lei, che non la ispirava più di tanto ma che la faceva sentire importante per l’attenzione che le dedicava.

    Stasera ti accompagno a casa.

    Ettore aveva un motorino come il padre di Anna e quando la riaccompagnava lo spingeva a mano sulla salita fino sotto casa, dove la lasciava dopo averle augurato la buona notte. Qualche volta, assai di rado per la verità, Ettore lasciava il motorino accostato a una casa a metà strada e i due salivano alcuni gradini di un vicolo laterale, si sedevano e si sbaciucchiavano senza andare oltre. Lei non provava un gran che durante quelle effusioni, lo faceva solo per dimostrare a se stessa che era cresciuta e che anche lei, come le sue compagne, aveva un uomo che le voleva bene. E si sentiva importante.

    Una sera, mentre rientrava con Ettore, udirono il suono di un motore. Erano appiedati quella sera e venne loro istintivo voltarsi.

    Oh, Dio. La ragazza si sentì gelare scorgendo il padre che sopraggiungeva con il suo ciclomotore. Ma ecco che l’uomo li superò senza neppure guardarli.

    Che fortuna, non ci ha visti.

    Anna tirò un grosso sospiro di sollievo, non riusciva a credere a tanto. Il padre era totalmente avverso a questa sua amicizia. Poco prima della discesa che conduceva a casa, i due ragazzi si salutarono e si divisero. Ettore, che abitava poco lontano, seguì la strada superiore che conduceva alla sua abitazione e Anna, correndo, scese giù per la viottola. In un lampo arrivò davanti casa e dinanzi alla porta d’entrata si ergeva il genitore. Aveva già parcheggiato il suo ciclomotore, aspettava la figlia e appariva fuori dalla grazia di Dio! Non appena Anna si apprestò a varcare la soglia, Luigi le sbarrò il passo e le mollò due ceffoni, uno per guancia, con violenza inaudita.

    Te l’avevo detto che non mi piace che tu ti faccia riaccompagnare da quel tanghero, urlò.

    Ma papà, è solo un ragazzo e non facciamo niente di male.

    Anna piangeva più per il terrore che le inculcava il padre e per l’umiliazione subita che per il dolore fisico degli schiaffoni che avevano lasciato sulle sue tenere guance di giovinetta dei brucianti segni rossi.

    Mai più, hai capito, mai più ti voglio vedere con quel cretino, strepitò l’uomo, la voce strozzata dall’ira.

    Allora, diglielo tu. In un impeto di ribellione Anna osò sfidare il padre. Perché non si era fermato quando li aveva visti assieme e non aveva imposto a Ettore il suo diktat? Anna sapeva bene che il padre era un vile che si accaniva solo sui più deboli e indifesi.

    Sapeva che l’antipatia di Luigi per Ettore era sì profonda ma aveva paura del padre di lui. Se avesse osato malmenare il ragazzo, egli non avrebbe esitato a fargliela pagare.

    Anna piangente rientrò in casa e andò subito a letto. Non si sarebbe più incontrata con Ettore, se non a scuola e non le importava neanche tanto per la perdita del ragazzo. Lo smacco più grande lo aveva provato per aver dovuto sottostare una volta di più alla volontà violenta del padre che mai, neppure una volta, la incoraggiava o approvava una qualsiasi delle sue azioni.

    A scuola terminata, a diciotto anni, Anna si era impiegata presso una ditta di pietre fini industriali. Fu quell’anno che accadde.

    Stava rientrando con la madre da alcune commissioni e, prima di affrontare le tre rampe di scale, Silvia impallidì, prelevando la posta.

    Che strano, c’è una lettera per me dell’avvocato Rebutti, chissà mai cosa vorrà! esclamò.

    Aprila mamma, ti prego, vediamo subito di che cosa si tratta.

    Silvia strappò la busta con dita tremanti. Devo presentarmi al suo ufficio mercoledì prossimo, per discutere la mia causa di separazione.

    Annichilita, si sedette sui gradini; le mancava il respiro e subito gli occhi le si riempirono di lacrime.

    Non mi ha detto niente, non mi ha detto niente, continuava a ripetere, riferendosi al marito, che da qualche tempo non le rivolgeva la parola ed era di umore più cupo del solito.

    Anna si mise a piangere, non sapeva se per la paura o per la consolazione: Dio, fa che se ne vada, pensava.

    Non era affatto preoccupata per il fatto che probabilmente lui le avrebbe lasciate senza alcun mezzo di sussistenza.

    Il sollievo per la speranza di una liberazione ormai prossima superava l’angoscia della precarietà finanziaria. Bene o male ce l’avrebbero fatta, lei lavorava già e avrebbe di sicuro fatto bastare i soldi della paga, uniti a quanto guadagnava la madre. E poi, c’era quel libretto al portatore, dove la madre depositava di tanto in tanto qualche franco, sottratto con grandi sacrifici ai soldi della spesa e ai suoi magri guadagni.

    Questi soldi sono per te, usava ripetere alla figlia.

    Alle volte si fermava qualche ora in più nella casa sul fiume dove svolgeva umili lavori e lo nascondeva al marito, cosicché le era possibile risparmiare qualcosa.

    A mezzogiorno Luigi si presentò puntualmente in casa per il pranzo. Più aggrondato che mai e senza salutare si sedette al suo posto e attese che la moglie gli servisse il minestrone. Sbirciandola da sotto in su aveva già notato che la poveretta aveva pianto. La figlia, come al solito, sedeva alla sua sinistra con la testa bassa sulla scodella, il cuore a mille per l’apprensione.

    Ho ricevuto la lettera dell’avvocato, esordì Silvia con voce tremante e sottomessa, nel tentativo di ingraziarsi il marito.

    Ti conviene presentarti puntuale, bofonchiò Luigi, non voglio più saperne di te, dei tuoi piagnistei e della tua tiepidezza. Sei frigida e non mi soddisfi, ho trovato una donna che mi ama ed è con lei che voglio stare.

    Me ne andrò di casa quanto prima, aggiunse, a complemento del suo discorso, per il momento andrò a stare da mia madre, dove occuperò la mia vecchia stanza da scapolo che è grande a sufficienza per me e per la mia futura moglie, in attesa di trovare un appartamento adatto alle nostre esigenze.

    Silvia non seppe cosa rispondere, vergognandosi dinanzi alla figlia e, invece di sedere e mangiare rimase ferma, in piedi, appoggiata all’acquaio, continuando a piangere.

    Luigi attaccò rumorosamente la minestra, senza degnare di uno sguardo Anna che, semi-paralizzata dal terrore, non osava neppure sollevare il braccio per prendere il cucchiaio. Si sentiva una nullità, inesistente, e, mentre sedeva immobile, dentro di lei si agitavano freneticamente mille sensazioni: disgusto, paura, rifiuto di quel padre violento che non le aveva mai dimostrato affetto e che trattava lei e la madre come fossero stracci da buttare dopo l’uso. Improvvisamente, colta dalla disperazione e dal desiderio di farla finita al più presto, ebbe il coraggio di parlare: Perché non te ne vai subito?

    Aveva pronunciate queste parole flebilmente, quasi una supplica. Un violento ceffone la centrò mentre il dolore le si diffondeva in bocca con il gusto del sangue: si era morsa la lingua.

    Stai zitta tu, non immischiarti, urlò Luigi.

    E, alzatosi, lasciò la minestra a metà e se ne andò senza più degnare di uno sguardo le due donne che, piangendo si abbracciarono comunicando l’una all’altra tutto lo sconforto che le accomunava. Senza parlarsi, continuando a singhiozzare, formulavano entrambe pensieri disperati.

    Che cosa farà stasera, quando rientrerà? si domandava Anna.

    Come farò a dormirgli accanto? Che accadrà ora? Silvia, tremante, non osava pensarci.

    Entrambe pensavano alle trascorse furie vissute, quando Luigi, in preda a un’ira irragionevole e assurda per le più sciocche futilità, spaccava tutto quello che si trovava sottomano e le costringeva a fuggire come due povere anime senza speranza, giù per le scale di casa. I vicini, che tutto sapevano e tutto sentivano, non avevano mai aperto la porta per dar loro un aiuto. Ansanti, piangenti e strette l’una all’altra, attendevano nell’angolo più buio del corridoio al primo piano, che la furia del loro congiunto si placasse per rientrare tremebonde in casa.

    A quel punto Luigi, come se niente fosse accaduto, aveva già imbracciato la fisarmonica e, in camera da letto, dove aveva piazzato il leggio, dava libero sfogo a quella che lui chiamava consolazione creativa, suonando a più riprese Ciliegi rosa e Lu passariello. A volte accennava pure a una canzone intitolata Finestra chiusa. Ne ripeteva il refrain sino alla nausea e Anna non aveva mai veramente capito se era una sua composizione. Aveva poi saputo che si trattava di una canzone del maestro d’Anzi degli anni Trenta. Poi, improvvisamente, Luigi aveva smesso di studiarla e non l’aveva mai più suonata. Anni prima, in un impeto di supremazia, Luigi si era prefisso di insegnare alla figlia a suonare la fisarmonica. Sin dalle prime lezioni si era capito che Anna non si trovava bene in quel nuovo ruolo e la quasi totale insofferenza del padre, sin dalle prime letture, l’aveva convinta a desistere. Infatti, mentre le dava lezioni di solfeggio parlato dinanzi a uno spartito, movendo le mani a ritmo, do - mi, re - mi - fa – sol - fa, uno dei movimenti terminava invariabilmente con un sberla che colpiva Anna, mortificandola. Sei una zuccona ignorante, non imparerai mai. Non aveva capito che la figlia non imparava perché terrorizzata dai suoi occhi di fuoco e dalla sua irragionevole ira. 

    III

    1961

    Era un torrido pomeriggio di luglio e in mansarda c’erano almeno trentacinque gradi, inutile tenere le finestre spalancate, non spirava un alito di vento. Silvia stava rigovernando i piatti. Sudava e riandava con il pensiero alla sua ancora recente gioventù, maledicendo in cuor suo la sensibilità, il tenero cuore che l’avevano fatta innamorare di quell’uomo che ora le appariva come il peggiore dei mali. Come aveva potuto credere di essere felice con quell’essere egoista e prepotente? Era bella, lei, con quei grandi occhi castani e i fluenti capelli biondo scuro. Il suo corpo agile e fresco colpiva la fantasia più recondita degli uomini che la ammiravano. Avrebbe potuto avere un uomo di gran lunga migliore di Luigi ma… se ne era innamorata e ora lui non la voleva più… ne aveva trovata un’altra, più appetibile, lei era una catena che lui avrebbe spezzata ma che ancora l’avvolgeva stringendola senza scampo e facendola sanguinare.

    Mentre asciugava le stoviglie e le riponeva nell’armadio, rifletteva sugli eventi che l’avevano portata a conoscere suo marito.

    IV

    Silvia e Luigi. 1941

    Il sabato sera era dolce nella modesta abitazione della famiglia Salzi. Il sole era ancora alto, nell’aia le galline chiocciavano mentre Angela, la madre di Silvia, dava loro una ulteriore razione di grano. Era soddisfatta. La covata prometteva bene, sarebbero nati tanti pulcini che suo marito avrebbe potuto vendere. I gatti di casa si godevano impigriti gli ultimi caldi raggi prima del tramonto. Da quando Giuseppe, rimasto offeso da un’ischemia cerebrale, aveva dovuto rinunciare al suo lavoro di tassista, la famiglia viveva con i proventi dell’orto e del pollaio. Giuseppe allestiva giornalmente un banco di frutta e verdura in paese, guadagnando così qualcosa che lo faceva sentire ancora utile e di non troppo peso per la famiglia. La moglie Angela faceva bucati per alcune famiglie del vicinato e all’occasione imbottiva piumini e cuscini con piume di gallina che, per la maggior parte, le venivano fornite dal vicinato.

    Dal lavatoio situato in fondo all’orto giungeva l’allegro scorrere dell’acqua e un riso acuto di bimbi interrotto da gridolini di piacere. Solitamente il sabato, Silvia ficcava nella vasca Armando e Francesco, i suoi fratellini gemelli, più giovani di lei di una decina d’anni e li lavava e strigliava per bene, spruzzandoli prima con la pompa per poi strofinarli con un fragrante sapone di Marsiglia che serviva per la toilette completa dei maschietti. Nonostante lo stretto grado di parentela i due ragazzi facevano il bagno con addosso la biancheria intima, non essendo ammissibile che la sorella li potesse vedere nudi. Su, sbrigatevi, uscite di lì ora e asciugatevi per bene.

    Silvia porse loro un grande asciugamano di tela ormai liso ma pulitissimo e i due monelli ridendo vi si avvolsero dopo essersi liberati della biancheria bagnata, mentre la sorella li frizionava ridendo con loro, compiaciuta. A diciannove anni era una brava, assennata donnina di casa che non dimenticava per altro la sua età.

    Il ballo era la sua passione nascosta ma non ne poteva parlare in casa, non l’avrebbero capita.

    Francesco e Armando si rivestirono rapidamente con panni puliti e asciutti e fuggirono ai loro giochi del sabato sera, con altri monelli abitanti nei dintorni.

    Non fate tardi, voi due, fra un’oretta si mangia, capito? E non sporcatevi di nuovo, altrimenti dovrò rituffarvi nella vasca.

    La sua voce voleva suonare autoritaria ma l’affetto per i fratelli ne mitigava palesemente il tono.

    Rientrata in casa, Silvia si apprestò a preparare il desco per la cena. Minestra di riso e prezzemolo e pane e formaggio. Poco pane e un’insalata dell’orto per lei che non voleva ingrassare. Dopo cena, con una scusa, sarebbe uscita per andare alla Navegna a ballare con due ragazze sue coetanee. La settimana era stata dura e il lavoro faticoso in fabbrica. Era una vera tortura starsene per nove ore china al tavolo di lavoro a inserire tiges nella cassa degli orologi ma il pensiero del sabato sera, oh, come la risollevava. E c’era un perché per la sua allegrezza… La madre non

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