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Rotaie di celluloide. Il treno nel cinema... e non solo
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E-book247 pagine3 ore

Rotaie di celluloide. Il treno nel cinema... e non solo

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Info su questo ebook

Sin dall’inizio la vita del treno e quella del cinematografo, due splendidi figli dell’800 e del movimento, ai quali il secolo successivo confermerà successo e popolarità, si sono intrecciate. Con questo saggio se ne ripercorrono le tappe più importanti unendo le emozioni e i ricordi dell’autore, scaturite nei cinema e sul mezzo di trasporto preferito, ad una attenta ricerca storica.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2022
ISBN9791259610362
Rotaie di celluloide. Il treno nel cinema... e non solo

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    Anteprima del libro

    Rotaie di celluloide. Il treno nel cinema... e non solo - Alberto Treccani Chinelli

    Copyright

    Copyright © 2022 Librinmente

    Design copertina © 2022 Librinmente

    Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo

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    essere inviate a:

    Librinmente

    Viale Giacomo Matteotti, 19

    00053 Civitavecchia (Roma)

    Telefono 0766.23598

    Telefax 0766.23598

    ISBN-13: 979 – 12 – 5961 – 036 - 2

    Stampato in Italia - Prima edizione

    http://www.prospettivaeditrice.it

    dedica

    A mia moglie

    Prefazione

    Come il lettore avrà modo di apprendere sono state alcune esperienze vissute quand’ero bambino – piacevoli al momento ma rivelatesi poi deleterie – ad indurmi alla scrittura di questo saggio nel tentativo di liberarmi di due sortilegi.

    Costretto ad accompagnare al cinemino della parrocchia la nonna e a frequentare la Stazione Centrale di Milano col nonno ferroviere, acquisii sia una pesante dipendenza da grande schermo sia un’irragionevole infatuazione per il trasporto su rotaia.

    Per scrivere questo libro, che si occupa dei rapporti tra il treno e la cosiddetta settima arte, ho esaminato centinaia di film nei quali sono presenti treni, stazioni e binari.

    Ho poi operato una selezione per scegliere tra loro quelli che, per qualità, rapporti affettivi e attinenza agli argomenti che intendevo sviluppare, mi sono sembrati i più significativi.

    Se il lettore mi accompagnerà avrà modo di rivivere alcuni momenti della secolare vita del treno lanciato su rotaie di celluloide, di riascoltare le voci dello schermo, di conoscere grandi e piccole stazioni, di gustare brevi incontri con celebri passeggeri come Calvino, Camus, Carducci, Castellaneta, Christie, Gorgia, Carlo e Primo Levi, Loi, Marco Aurelio, Hemingway, Nietzsche, Pascoli, Pavese, Platone, Leopardi, Shakespeare, Tolstoj e Zola.

    Signore e signori, in carrozza, si parte! Buon viaggio.

    l’autore

    Perchè questo libro

    I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati dice la Bibbia (Geremia 31). Se è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli allora è altrettanto vero che quelle dei nonni se la prendono coi nipoti, e ve lo dimostro. Portato sotto le arcate metalliche progettate dallo Stacchini in quell’età che usiamo definire tenera, ne subii conseguenze irreparabili.

    A quel tempo la stazione Centrale di Milano era nuova di zecca, un tempio progettato per l’ascesi e la sofferenza del viaggiatore: due faraoniche scale immobili lo separavano da binari lontani. In un dinamico scenario futurista di vapore, fischi, stantuffi, bielle e bulloni, passeggiava mio nonno tenendomi per mano. Lui sui treni ci lavorava e nelle tratte a lunga percorrenza, quelle che lo riportavano nel Sud dov’era nato, amava corteggiare passeggere bisognose di compagnia. Mia nonna ne era certa. Il giorno in cui nonno Eugenio mi issò su una locomotiva l’industria automobilistica perse un cliente. In quella mezz’ora si verificò un evento che condizionò la mia vita, un’esperienza che annullerà ogni desiderio di patenti per la guida di veicoli a motore di ogni genere. Era il settembre del 1942, avevo poco più di tre anni e quel gesto mi condannò a essere un viandante.

    Il mese successivo, esattamente sabato 24 alle ore 17:47, dopo più di un anno di cieli tranquilli, bombe di varie dimensioni colpirono la città dove sono nato. Quando la pioggia mortale finì, mio padre, lasciando il rifugio e tenendomi in braccio, si incamminò verso casa. Giunti a metà del ponte della Ghisolfa guardammo le colonne di fumo sperando che nessuna di loro si levasse dalla casa dove mia madre attendeva. Quella pioggia mi allontanò per cinque anni dal nonno e dai treni.

    Nel dopoguerra mia nonna, rimasta vedova, cercò conforto nella fede, intensificando la frequentazione della parrocchia. La diocesi desiderava che sotto ogni campanile ci fosse un cinema (vedi Un cinema ogni campanile di Dario Viganò) e in quella parrocchia la sala cinematografica c’era. Ma poteva una pia donna, vedova da poche settimane, recarsi al cinema senza subire le maldicenze della devota comunità? Per non rinunciare a una crescente passione Flora pensò di raccontare ai parrocchiani che uno dei suoi nipotini faceva disperare i genitori se lei non lo portava al cinema.

    Racconta Ingmar Bergman:

    Altre punizioni erano il divieto di andare al cinema, il digiuno, l’essere mandati a letto, la consegna in camera, compiti di matematica supplementari, colpi di verga sulle mani, tirate di capelli, servizio punitivo in cucina (che poteva essere piuttosto divertente) la semplice emarginazione a tempo determinato e così via. (Lanterna Magica – pag.14).

    A me capitava l’opposto: al cinema mi ci mandavano per punizione. Le ragioni per farlo non mancavano e la bugia nonnesca ebbe successo.

    Due anni dopo, quando la nonna capì che il mio compito poteva dirsi concluso, io ritornai a essere oggetto degli altri castighi elencati dal famoso regista svedese.

    Ma un biennio di assidua frequentazione della sala parrocchiale mi procurò una grave dipendenza da grande schermo. Trascorrevo più ore nei cinema che a scuola e compivo azioni bislacche, come il doppio attraversamento di Milano (tre ore di cammino) per assistere alla proiezione de L’arpa birmana di K. Ichicawa (1956) in originale, con sottotitoli in tedesco, lingua che tuttora ignoro, o vedere per quattro giorni di seguito Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati (1953).

    Mia nonna classificava i film in quattro categorie, secondo uno schematico ordine di gradimento: a) quelli che fanno piangere; b) quelli che fanno ridere; c) quelli con l’arrivano i nostri! e d) tutti gli altri.

    Alla prima categoria apparteneva Campane a martello di Luigi Zampa (1949), nella seconda c’era Gianni e Pinotto fra le educande di J. Yarbrough (1945). Diversamente dalla nonna di Bergman (op. cit. pag.27) Flora non disprezzava le scene d’amore.

    Il mio primo film lo vidi con lei, accanto al mare e sotto le stelle di Riva Trigoso nell’estate del 1948, quando il nonno ferroviere era ancora in vita. Si trattò de Il libro della Jungla diretto da Zoltan Korda (1942). Le avventure di Mougli (Sabu Dastagir) eccitarono la mia fantasia e la notte feci sogni angoscianti. Ero nell’età in cui finzione e realtà hanno lo stesso sguardo. L’esperienza non lasciò segni profondi, certamente non paragonabili a quelli traumatizzanti che segnarono la psiche di Victor Erice, regista e sceneggiatore spagnolo. La dura esperienza del suo primo film Erice la racconta nell’eccellente La mort rouge (2006). Aveva cinque anni quando andò, con la sorella maggiore, al Kursal di San Sebastiano a vedere The Scarlet Claw (L’artiglio scarlatto). Quella visione viene da lui definita: Un’esperienza crudele, un punto indefinito in quel territorio selvaggio della prima infanzia. Nel corso del dialogo del 2 febbraio 2010 col critico Manuel Asin, Erice parla di momento dell’iniziazione, di esperienza di paura e di terrore che scaturisce nel trauma.

    The Scarlet Claw venne girato nel 1944 dall’inglese Roy William Hill, un regista che diresse un centinaio di film e tra questi quelli di Sherlock Holmes, interpretati da Basil Rathbone e Nigel Bruce. Oggi il suo nome dice poco.

    Poiché, dopo settant’anni, è ormai certo che le colpe dei nonni mi vesseranno sino alla fine dei miei giorni, non mi rimane che ringraziarli.

    Due grandi figli dell’800

    Treno e cinematografo sono due grandi figli dell’800 ai quali il secolo successivo confermerà successo e popolarità. Nasce prima il treno o meglio la ferrovia, composta di tre elementi tecnici: rotaie, locomotiva e tracciato. Siamo in Inghilterra ai principi del XIX secolo quando sui binari, che riducevano lo sforzo di cavalli e bovini impiegati nella trazione di merci, ci sale la locomotiva a vapore.

    Si considera come prima linea ferroviaria, fornita di tutti i requisiti tecnici, quella tra Stockton e Darlington in Scozia, aperta pubblicamente il 27 settembre del 1825, sorta sotto la direzione di G. Stephenson che guidò personalmente la locomotiva nel viaggio inaugurale. Una corsa di 32 chilometri con punte fino a 20 chilometri/ora.

    Dopo soli quattro anni lo stesso Stephenson raggiunse i 32 chilometri/ora sulla linea Liverpool-Manchester a bordo della sua The Rocket. Il fatto sembrò talmente straordinario che ci fu chi predisse tragiche conseguenze a seguito di quel modo assurdo e innaturale di muoversi.

    E sulla scomposizione del movimento si fonda il cinematografo, una sorta di fratello minore del treno. Il cinematografo nasce dopo varie esperienze nel campo della ripresa e della proiezione e dopo che lo statunitense George Eastman presenta la sua pellicola fotografica trasparente e sensibile (film) a base di nitrocellulosa avvolgibile su rullo. Il 6 giugno del 1894 il giornale Richmond Telegram pubblica il resoconto di uno spettacolo di proiezioni animate che ha avuto luogo quel giorno per opera del noto cinetecnico statunitense C.F. Jenkins, ideatore e realizzatore di un proiettore del tipo detto a schiaffo.

    Ma la gloria per aver condotto la cinematografia allo stato di uso pratico spetta ai fratelli francesi Lumière che portarono l’esposizione delle immagini dalle 48 al secondo (Edison) a 16. Il 13 febbraio del 1895 i Lumière presentarono la prima domanda di brevetto relativa al loro apparecchio, in grado di riprendere una scena e proiettarla, chiamandolo cinematografo e usandolo quello stesso anno per ritrarre l’arrivo del fratello maggiore in una piccola stazione. Se vi capitasse di viaggiare sulla linea Marsiglia-Tolone ne avreste la prova. Approfittando della sosta nella stazione di La Ciotat potreste dare una rapida occhiata alla targa appostavi nel 1942, la quale ricorda che proprio lì, nel 1895, i Lumière vi girarono una sequenza di 45 secondi, considerata il primo film proiettato nella storia del cinema. Titolo: L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Secondo lo storico e critico francese George Sadoul (Storia del cinema) vi appare anche la madre degli autori: è la signora che indossa una mantellina scozzese in compagnia di due bambini. Per la precisione questa pellicola non faceva parte del programma del primo spettacolo pubblico di cinematografo a pagamento che si tenne a Parigi il 28 dicembre del 1895. Venne infatti proiettata il 6 gennaio dell’anno successivo al Salon Indien du Grand Cafè sul Boulevard des Capucines, spaventando i presenti che temettero di essere travolti dalla locomotiva lanciata oltre lo schermo.

    Una decina di anni prima, al numero 35 dello stesso boulevard, si era tenuta la mostra degli impressionisti, pittori che preferivano operare all’aria aperta in luoghi che raggiungevano viaggiando in treno, attratti dalla più grande innovazione tecnologica del XIX secolo. Con veloci colpi di pennello e di spatola, attenti al colore più che al disegno, gli impressionisti erano capaci di cogliere e riprodurre sulla tela le mutevoli percezioni del paesaggio nel variare della luce del giorno.

    Uno di loro, Claude Monet, il primo a rompere con la pittura tradizionale, produsse dipinti raffiguranti la stazione di St-Lazare. Altre tele le dedicò al passare dei treni: Le train dans la campagne (1870), Le train dans la neige (1875), Le pont de l’Europe (1877), Pont du chemin de fer à Argenteuil (1878) e non fu il solo.

    Altri, come Camille Pissarro, si dedicarono a soggetti ferroviari ed è noto che molti capolavori dell’Impressionismo sono conservati al Museo d’Orsay di Parigi, una ex-stazione ferroviaria costruita alla fine dell’Ottocento in stile eclettico.

    Impressionisti e treno si ritrovarono nel 1944, quando i tedeschi trafugarono le tele di Renoir, Manet, Monet, Degas e altri, per trasferirle in Germania. Lo racconta Il treno, film di guerra del 1964 diretto da John Frankenheimer.

    è bene sapere che un apparecchio in grado di riprendere e proiettare immagini fissate su film venne brevettato in Germania all’inizio del 1896 da un certo Oscar Messter e che il 1° novembre dello stesso anno i fratelli Skladanowsky proiettavano al Wintergarden di Berlino alcune pellicole, facendone un numero di spettacolo di varietà. Né costoro né il Messter avevano conoscenza dei lavori compiuti dai Lumière, gli unici baciati dalla gloria.

    Dalla caverna alla sala

    Vi propongo la prima parte del VII capitolo de La Repubblica di Platone nel quale Socrate, dialogando con Adimanto e ascoltato dagli altri invitati riuniti nella casa di Cefalo in occasione delle feste in onore della dea tracia Bendis, intende dimostrare che noi non siamo che ombre prigioniere dei nostri sensi, tramite i quali percepiamo una visione distorta del mondo reale.

    Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia come tutta la larghezza della caverna, immagina di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, si da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Che alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.

    - Vedo, rispose.

    Immagina ora di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.

    - Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.

    Somigliano a noi, risposi; credi che le persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?" (Platone – La Repubblica ).

    In questa immagine, definita Mito della caverna, vi possiamo ritrovare le condizioni dello spettatore di fronte allo spettacolo cinematografico, una rappresentazione della realtà fatta di ombre in movimento. La caverna è la sala nella quale si è catturati da queste ombre, animate dal fuoco del proiettore.

    Nel primo dopoguerra di caverne Milano ne contava oltre cento.

    Scrive Maria Rosaria Grifone (L’esercizio cinematografico a Milano ne Il cinema a Milano dal secondo dopoguerra ai primi anni sessanta ):

    Non è azzardato definire il periodo compreso tra l’immediato dopoguerra e i primi anni sessanta come una fase unica per la storia dell’esercizio cinematografico milanese. Nel corso di questi anni, infatti, si assiste dapprima al momento di massima espansione di questo genere di attività e successivamente, a partire dalla metà degli anni cinquanta, all’ingresso in una delle fasi più difficili della sua vita, seguita dall’avvento della televisione.

    L’autrice del saggio afferma che nel 1946 Milano contava 77 sale cinematografiche, salite a 110 nel 1950 e che il massimo storico venne raggiunto cinque anni dopo con 126 (escludendo quelle parrocchiali); 41 operavano nella zona centrale della città, 49 erano ubicate nell’area urbana compresa tra le mura spagnole e la cerchia dei navigli e 36 funzionavano in periferia. Io frequentavo quelle della periferia est che avevano nomi come Porpora (nella via omonima) Abruzzi (in via Sansovino, due film al prezzo di uno, entravo alle 14 e uscivo all’ora di cena), Susa (in Via da Milano), Dea (in via Sangallo, una delle prime a installare televisori che permettevano alla gente di non perdersi Lascia o raddoppia) e Pacini. Più centrale era il Venezia in corso Buenos Aires che apriva al mattino e raccoglieva studentelli cronicamente impreparati e qualche pederasta. Luoghi di corteggiamento, nei quali le rare donne sole venivano abbordate e infastidite da professionisti della mano morta, i cinema erano anche alcove di fortuna per coppiette appassionate. Il sabato pomeriggio al Delle Stelle (in via Lambro, poi diventato Majestic e, prima di morire, Majestic Sexy Movie) si esibivano due amanti già maturi e in sovrappeso; lei entrava con la borsa della spesa. Si trattenevano meno di un’ora e, nonostante la non più giovane età, possedevano una indiscussa agilità operativa. Che siano loro ad aver suggerito a Bergman la scena che turberà Anna nel film Il silenzio?

    Molto in carne era anche una donna di mezza età che frequentava l’X Cine in via Ciro Menotti. Durante la proiezione del documentario (la legge 379 del 1947 ne rendeva obbligatoria la programmazione) lei, adocchiata la preda, le si sedeva accanto lamentandosi del caldo. Lo faceva anche d’inverno con poche ma esplicite parole in dialetto meneghino: Fa inscì cald che me sun tolta i mudand (Fa così caldo che mi sono levata le mutande). Anche questo era cinema.

    Il locale che più frequentavo era quello più vicino a casa: il Pacini. Ci andavo coi genitori, i fratelli, con qualche amico ma soprattutto solo. Costruito nella seconda metà degli anni trenta al civico 53 della via omonima, disponeva di buca per l’orchestra e passerella. Era uno dei cinema-teatro di quartiere di terza visione costruiti in quegli anni nella periferia di Milano. Venne distrutto nel corso dei bombardamenti dell’agosto del 1943 da bombe che intendevano colpire la vicina stazione ferroviaria di Lambrate. Ricostruito agli inizi del 1947 il Pacini chiuse i battenti nel 1969. Oggi è un garage.

    Molte sale periferiche erano polverose, poco areate, allocate in sotterranei preesistenti e vi si vivevano gustose scenette fuori programma. A una cert’ora del pomeriggio la platea del Porpora era attraversata da un tizio in bicicletta che usciva da una porta di sicurezza. Anche questo era cinema.

    Una dopo l’altra le caverne sono sparite, mutandosi in filiali di banche, sedi di radio private, mini-market. Ma quando le strade dormono, passando accanto agli edifici che le ospitavano, io risento le straordinarie voci dei doppiatori, quei grandi attori rimasti per troppo tempo nell’ombra.

    Invito chi fosse interessato alla storia dei cinema milanesi a consultare l’interessante e documentato sito dello storico della musica e del cinema Giuseppe Rausa.

    Conservo alcuni vecchi numeri del Corriere della Sera e grazie a loro mi è possibile aggiungere qualche dato sulla quantità dei cinematografi presenti a Milano dalla seconda guerra mondiale a oggi.

    Il Corriere del 17 aprile 1941, che titola in prima pagina Gli Italiani a Spalato e i Tedeschi a Sarajevo, ne elenca 62, molti dei quali con due film in programma.

    La stessa testata del 10 maggio 1978, che dice a caratteri cubitali Il delitto Moro, ne elenca 126, esattamente tanti quanti erano alla metà degli anni cinquanta. Si nota la quasi scomparsa dell’avanspettacolo.

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