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Promesse nella notte (eLit): eLit
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E-book362 pagine5 ore

Promesse nella notte (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Wings in the night 14

Lucille Lanfair ha dedicato la propria vita allo studio della cultura sumera, ma non avrebbe mai immaginato che tradurre la profezia contenuta in un'antica tavoletta in caratteri cuneiformi potesse cambiare per sempre la sua vita. L'unico lato positivo dell'avventura in cui si trova coinvolta è la presenza dell'affascinante e misterioso James William Poe, un vampiro dal viso d'angelo, dotato di poteri inimmaginabili. Lucy sa che il suo destino è salvare l'anima di quel bellissimo immortale dalle tenebre che minacciano di inghiottirlo. Perché fallire significherebbe l'estinzione dei vampiri e le spezzerebbe il cuore. Ma il suo amore sarà abbastanza forte da salvare l'uomo che ama e tutta la sua razza?
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2018
ISBN9788858993224
Promesse nella notte (eLit): eLit
Autore

Maggie Shayne

RITA Award winning, New York Times bestselling author Maggie Shayne has published over 50 novels, including mini-series Wings in the Night (vampires), Secrets of Shadow Falls (suspense) and The Portal (witchcraft). A Wiccan High Priestess, tarot reader, advice columnist and former soap opera writer, Maggie lives in Cortland County, NY, with soulmate Lance and their furry family.

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    Anteprima del libro

    Promesse nella notte (eLit) - Maggie Shayne

    1

    James vestiva di bianco. Camici da laboratorio bianchi, uniformi bianche, scarpe da ginnastica bianche. A volte lo spezzava con una maglietta colorata, ma per queste visite, per lo più stava sul bianco. Gli permetteva di confondersi con l’ambiente.

    Era questo l’importante, per lui: confondersi. Anche se in fondo sapeva che non era così. Non ovunque. Lui era unico nel suo genere. Uno di una coppia, in realtà, ma perfino la sua gemella era il suo opposto.

    Ma passare inosservato in quell’ambiente (o quantomeno dare l’impressione di farlo) era necessario. Questione di vita o di morte, e forse parte dell’elusiva risposta che cercava da tutta la vita: il motivo per cui esisteva.

    Passando davanti alle persone negli asettici, affollati corridoi dell’Ospedale Pediatrico di New York distribuì cenni del capo con aria cordiale e sicura di sé. C’era parecchia gente perfino dopo l’orario di visita. Non appena gli si presentò l’occasione, James si infilò in una delle camere dei pazienti.

    Poi si fermò e restò in silenzio, voltandosi a guardare.

    Lì, addormentata nel letto, giaceva una bambina con un berretto di lana calcato sulla testa per nascondere il fatto che non aveva capelli. Non aveva nemmeno le sopracciglia, cosa più difficile da nascondere benché nella stanza fosse quasi buio. C’era un odore dolciastro vagamente nauseante, l’odore del cancro. Mentre la maggior parte degli esseri umani non sarebbe stata in grado di percepirlo, lui ci riusciva. Perché lui non era interamente umano, per quanto detestasse ammetterlo. Nelle sue vene scorreva sangue di vampiro, che amplificava i suoi sensi ben al di là della norma. Così annusava il cancro che si mescolava con gli odori più forti di antibiotici e della soluzione iodata che chiazzava la pelle della piccola vicino a ogni segno di puntura. Le braccia della paziente sembravano essere state usate come puntaspilli. Erano appena le nove di sera, ma lei dormiva, il corpo esausto, lo spirito sfinito. Il suo nome era Melinda. Aveva dieci anni.

    Ed era terminale.

    Senza distogliere lo sguardo dalla bambina, James si avvicinò al letto senza fare rumore, protese le mani aperte e le posò con delicatezza al centro del suo torace, a palmi in giù, con i pollici che si toccavano. Chiuse gli occhi e aprì il cuore.

    «Dottore?» chiese una donna.

    James aprì gli occhi ma non spostò le mani. Non aveva notato la donna seduta accanto al letto. Non aveva neppure controllato per assicurarsi che la stanza fosse vuota, tanto era concentrato sul suo obiettivo. E visto che sgattaiolava dentro e fuori dalle stanze d’ospedale di notte da un sacco di tempo, pensò, avrebbe davvero dovuto essere più accorto.

    Solo che si lasciava prendere così tanto dal suo lavoro...

    «Che cosa sta facendo?» domandò la donna.

    Lui sorrise e la guardò negli occhi, imponendo all’innaturale bagliore dei propri di ridursi, di nascondersi a lei. «Sto solo auscultando il battito cardiaco.»

    La donna – la madre della bambina, a giudicare dalla somiglianza fisica – alzò le sopracciglia. Lui la vide con chiarezza, malgrado l’oscurità della stanza.

    «Non è a questo che serve lo stetoscopio?» aggiunse sorridendo, e continuò: «Le spiace se finisco?». Questa volta James introdusse una certa autorevolezza nel proprio tono. Era quello che avrebbe fatto un vero dottore, dopotutto. «Resti pure, ma ho bisogno di silenzio.»

    Aggrottando la fronte, la madre di Melinda si alzò dalla sedia per osservarlo. Lui mantenne le mani sopra la bambina, e quando le sentì diventare più calde capì che presto si sarebbe tradito. Doveva distrarla. «Le spiacerebbe portarmi la cartella clinica? È là sul comodino, credo.»

    Annuendo, benché ancora palesemente sospettosa nei suoi confronti, la donna si allontanò. E James lasciò che il potere che aveva sentito montare in sé continuasse a fluire attraverso di lui, nelle sue mani e dentro la bambina. Una morbida luminescenza giallo oro emanò dai suoi palmi per un lungo momento, e lui la lasciò uscire; non si interruppe nemmeno quando si rese conto che la madre si stava voltando di nuovo verso di lui. Neppure quando capì, dal suo ansimo tagliente, che aveva visto.

    Il potere sarebbe fluito finché ce ne fosse stato bisogno. A volte ci metteva un secondo, a volte un minuto. Ma soltanto esso sapeva quando aveva finito.

    «Che cos’è quello?» chiese la donna. «Che cosa diavolo sta facendo?»

    «Ssst» sussurrò lui. «Solo un momento, per favore.»

    «Un momento col cavolo. Lei chi è? Perché non l’ho mai vista prima? Come si chiama?»

    La luce irradiò più vivida.

    «Oh, mio dio, e quello cos’è?» Un attimo dopo, la donna si diresse a grandi falcate verso la porta, spalancandola. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti, c’è un estraneo qui dentro e sta...»

    Le sue parole si persero nella morbidezza del ronzio che gli riempiva la testa. Era un tremito, un tono armonico che gli faceva vibrare tutto il corpo e dava la sensazione di... Ecco, lui non avrebbe saputo descrivere la sensazione che dava. Non ne era mai stato capace. Ma pensava dovesse essere quello che provava l’anima degli esseri umani quando lasciava il corpo nel momento della morte e si fondeva con l’universo. Dava un senso di beatitudine e perfezione, di meraviglia ed estasi.

    Il bagliore si spense. Le sue mani si raffreddarono. Un’infermiera arrivò di corsa e le luci della stanza si accesero. Accecanti e dure. Mentre sollevava la testa e infine rimetteva a fuoco il qui e l’ora, si rese conto che c’erano svariate persone in piedi sulla soglia, raggelate in quel momento sospeso prima che s’innescasse l’azione.

    Ma la sua attenzione era ancora concentrata sulla bambina. I suoi occhi erano aperti e fissi nei suoi. Sapeva. E James sapeva che lei sapeva. Lo scambio tra loro fu reale e del tutto silenzioso, sovraccarico di significato. Lei avrebbe potuto non essere in grado di descriverlo o spiegarlo o perfino capirlo, ma a livello profondo, nell’animo, sapeva che cosa era appena successo tra loro. Le sorrise con calore e annuì, e vide il sollievo, e poi la gioia, nei suoi occhi.

    La bambina gli sorrise, e poi ecco che qualcuno lo stava afferrando, tirandogli le braccia dietro la schiena e bloccandogliele, mentre un altro gli strappava il cartellino con il nome dal risvolto del camice bianco e diceva: «Chiamate la polizia».

    «La polizia è già qui» disse una familiare – e benvenuta – voce femminile. «È rimasto appostato nei paraggi per un pezzo» spiegò l’agente in divisa. «Qualcuno ha già avvertito la centrale.» Gli afferrò il braccio. «Andiamo, giovanotto. Noi due faremo una piccola chiacchierata in privato.»

    «Esigo di sapere che cosa significa tutto questo» pretese la madre.

    «Posso vedere un documento identificativo?» disse contemporaneamente una delle infermiere, rivolgendosi alla poliziotta.

    «Sì, certo» rispose Brigit, con impazienza palpabile. «Che ne dite se prima lo porto fuori dalla stanza della povera piccola, eh? Avrò bisogno di interrogare ciascuno di voi subito, non appena l’avrò messo al sicuro sul sedile posteriore della mia auto. Non vi muovete di qui.»

    Si spostò alle spalle di James mentre parlava, e un attimo dopo lui avvertì la sensazione del metallo sui polsi e sentì il click delle manette che si chiudevano strette. Di certo lei ci stava mettendo l’anima, pensò. Lo prese per un gomito e si girò per condurlo fuori dalla stanza di Melinda. Mentre la porta si chiudeva alle loro spalle, una minuscola, bellissima voce disse: «Tutto bene, mamma. Penso che fosse un angelo. Non del tipo che viene per portarti via. Quello che viene per farti stare meglio».

    Lui sorrise udendo quelle parole. Sì. Quello era il suo scopo. Era l’unica cosa che gli dava un po’ di piacere, in quella sua vita isolata, solitaria: usare il suo dono per salvare gli innocenti.

    Poi la sua catturatrice lo spinse nell’ascensore, e scesero in silenzio al piano terra. Lui la guardò da capo a piedi. I boccoli da Riccioli d’Oro erano raccolti in una severa coda, e le iridi celesti circondate da un anello d’ebano rifiutavano di incontrare i suoi occhi. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, lei lo scortò senza tante cerimonie fuori e fino alla propria auto in attesa, una Thunderbird azzurra, dove aprì la portiera del passeggero.

    James entrò. Lei fece il giro dell’auto, si mise al volante e avviò il motore. Poi si infilò una mano in tasca ed estrasse una chiave. «Voltati» gli ordinò.

    James si girò verso il finestrino, così da rivolgere verso di lei la schiena e i polsi ammanettati. Lei inserì la chiave, la girò e le manette si aprirono di scatto. Ma proprio mentre riportava le mani davanti a sé, James vide una delle infermiere che era nella stanza di Melinda uscire dall’ingresso dell’ospedale, e avviarsi verso di loro con la fronte aggrottata.

    «Guai in arrivo» borbottò.

    Un secondo più tardi l’infermiera stava bussando al finestrino di Brigit. «Lo sapevo!» esclamò. «Lei non è affatto una poliziotta, lei è...»

    Brigit abbassò il finestrino con un brontolio simile a quello di una pantera in procinto di colpire. Quel suono non aveva nulla di umano e fece venire i brividi persino a James. Sapeva che lei aveva snudato le zanne, e probabilmente anche mostrato gli occhi luminescenti.

    L’infermiera indietreggiò così in fretta che cadde a sedere sull’asfalto, poi Brigit premette l’acceleratore e la T-Bird partì sgommando.

    «Non era necessario...»

    Lei lanciò un’occhiata dalla sua parte, le zanne ancora visibili, gli occhi ancora luminescenti. «Chi lo dice?»

    «Io. E vuoi mettere via quelle dannate cose?»

    Lei scrollò le spalle, ma si rilassò a sufficienza per ritrarre i canini taglienti come rasoi. Gli occhi tornarono alla loro sorprendente sfumatura azzurro ghiaccio. «Allora, hai finito di criticare, adesso? Sei pronto a lanciarti in un Salve, sorellina. Grazie per avermi salvato il culo. Grandioso rivederti

    Lui sospirò, scrollando la testa. «È bello rivederti, sorellina. Come stai?»

    «Benone. Finora. E tu?»

    «Bene.»

    «Tipico. Le risposte a monosillabi sono sempre state la tua specialità. E vedo che stai ancora sperimentando modi per usare il tuo dono. Hai deciso di sradicare del tutto la morte, o lo fai soltanto per coloro che giudichi troppo giovani per morire?»

    Lui chinò il capo. «Non avevo bisogno del tuo aiuto, sai. Quelle cose le faccio in continuazione.»

    «Lo so. Al contrario di te, fratellone, me ne importa abbastanza da tenere d’occhio i miei parenti.»

    Lui chiuse gli occhi. «Ti vedrei più spesso se non mi facessi questa predica ogni fottuta volta.»

    «Quale predica? Quella sull’aver abbandonato la tua famiglia? Sull’aver voltato le spalle a ciò che sei realmente, J.W.?»

    «Sono James.»

    «Sei J.W. Sei sempre stato J.W., e sempre lo sarai.»

    «E non ho abbandonato la mia famiglia o voltato le spalle a ciò che sono.»

    «Ah, no? Quand’è l’ultima volta che hai mostrato le zanne, J.W.? Quand’è l’ultima volta che hai assaggiato sangue umano?»

    L’ultima volta...? Era stato quando lui e sua sorella – la sua gemella – erano adolescenti, e la loro zia onoraria Rhiannon aveva insistito perché lo bevessero. Da un bicchiere, non da una calda gola pulsante, ma aveva provato ugualmente una profonda repulsione.

    «Stai mentendo a te stesso» continuò Brigit. «Era delizioso. Ha dato fuoco alla tua anima e ti ha lasciando bramoso di averne ancora, lo sai bene quanto me.»

    Lui la fissò sbalordito, ma solo per un attimo. «Non sono abituato ad avere intorno qualcuno che può leggere ogni mio pensiero.»

    «Già, bene, di chi è la colpa?»

    «Senti, lo ammetto, il sangue era... allettante. Ed è stato proprio questo a darmi la nausea. Io non voglio essere... così. E non sto negando chi sono, sto scegliendo chi voglio essere, cercando nel contempo di scoprire perché sono qui, perché mi è stato dato questo potere.» Voltò i palmi all’insù e li fissò, come aveva fatto un’infinità di volte durante la sua vita. «Potere sulla vita e la morte.»

    «Sei sempre stato così sicuro che ci sia una ragione» mormorò lei.

    «So che c’è, Brigit.»

    Lei annuì. «Ebbene, odio ammetterlo, fratellino, ma hai ragione. C’è un motivo. E proprio di recente ho scoperto qual è.»

    Lui fissò la sua bellissima gemella, il suo opposto in pressoché tutti i sensi. Eppure erano gli unici due nel loro genere. Era sicuro che lei stesse scherzando sulle prime, perché aveva sempre ironizzato e l’aveva stuzzicato per il suo bisogno di trovare un significato, di capire. Per il suo innato senso della bontà e della moralità. Ma questa volta lei non rise e nemmeno gli sorrise. Il suo viso era grave come la pietra.

    «Pensi di sapere perché siamo nati?»

    «Già. E non è per correre lungo la riva del mare rianimando stelle marine morte e ributtandole tra le onde come facevi quando eravamo ragazzini, e nemmeno per curare bambine ammalate di cancro.» Si leccò le labbra e gli scoccò una rapida occhiata. «Questo è quel che hai fatto un attimo fa, vero? L’hai guarita?»

    Lui sentì calore dappertutto, e il suo sorriso fu sincero. «Già. Starà bene.»

    Anche le labbra di Brigit si incurvarono verso l’alto, prima che lei si rimangiasse il sorriso e riprendesse l’espressione severa che era il suo marchio di fabbrica. Era un osso duro. O almeno, le piaceva che la gente lo pensasse. Avevano interpretato quel ruolo per tutta la loro vita, e James spesso si domandava perché lei avesse assunto il proprio con la stessa facilità con cui lui si era fatto carico del suo.

    Per lui era facile. Era il gemello buono. Il guaritore. Il bambino d’oro.

    Quello di Brigit era un ruolo più difficile da abbracciare. Lei era la gemella cattiva. La distruttrice, in un certo senso. E tuttavia mai una volta si era lamentata di quell’etichetta, anzi, il più delle volte sembrava cercasse di essere all’altezza – o piuttosto alla bassezza – di quella nomea.

    «Ebbene?» le domandò dopo un po’. «Hai intenzione di dirmelo?»

    «Penso di dovertelo mostrare.» Brigit accennò con la testa a una rivista arrotolata e infilata nel portabicchieri dell’auto.

    James sospirò, pronto a litigare con lei, ma quando incrociò i suoi occhi, trovò anche la sua mente aperta. Niente di nascosto, niente barriere, il che era una cosa molto rara per sua sorella. Socchiuse gli occhi e percepì solo sincerità. Nessuna finzione, niente motivazioni nascoste.

    «La fine del mondo sta per arrivare, fra’. Sta arrivando... e noi siamo gli unici che possono impedirlo. È per questo che siamo nati. Per salvare la nostra razza. Leggi l’articolo mentre io guido. La pagina è quella con l’angolo piegato. Spero solo che non sia già troppo tardi.»

    «Troppo tardi?»

    «Penso stia per iniziare stanotte» rispose lei.

    Lui scosse la testa. Non riusciva ancora a capire. «Cosa esattamente credi che stia per iniziare stanotte?»

    Brigit si leccò le labbra macchiate di rosso e sospirò. «L’Armageddon. L’apocalisse. La fine del mondo, almeno per la nostra razza, e forse anche per la loro.»

    «Noi siamo per un quarto umani, Brigit. La loro razza è anche la nostra

    «Al diavolo la loro razza.» Gli occhi di lei lampeggiarono. «Comunque» proseguì, «potrebbe esserlo per tutti quanti. A meno che noi non facciamo qualcosa.» Guardò l’orologio. «Entro i prossimi quarantacinque minuti, in effetti.»

    «E dove, esattamente, starebbe per scatenarsi l’Armageddon entro quarantacinque minuti?»

    «Manhattan» rispose lei. «Durante la registrazione del Will Waters Show.» Guardò di nuovo dalla sua parte e lo colse a fissarla come se stesse parlando in una lingua straniera. «Perché semplicemente non leggi quel dannato articolo? E allacciati la cintura. Dobbiamo muoverci.»

    Aggrottando la fronte, James mise la cintura, poi aprì la copia di J.A.N.E.S. Magazine. Era un articolo su una tavoletta d’argilla sumera tradotta di recente, scritto da una tal Professoressa Lucy Lanfair. Fissò affascinato la fotografia a mezzo busto della donna, quasi incapace di distogliere gli occhi dall’immagine per leggere il pezzo che aveva tanto colpito sua sorella. Aveva la sensazione che gli occhi castani di Lucy Lanfair stessero fissando dritti fuori dalla pagina e direttamente dentro la sua anima.

    Brigit premette più forte sull’acceleratore, e il potente motore dell’automobile ruggì come un vampiro in procinto di nutrirsi.

    2

    Lester Folsom non si godeva più la vita, ed era ormai pronto ad abbandonarla. Ma non era disposto a portare i propri segreti nella tomba. Segreti che valevano una fortuna. E lui aveva rischiato la vita abbastanza spesso, via via che ne veniva a conoscenza, da immaginare di essersi guadagnato il diritto di vuotare il sacco e raccoglierne i benefici prima di uscire di scena definitivamente. Così aveva trascorso l’ultimo anno a fare esattamente quello.

    Era vecchio e stanco, e maledettamente dolorante. Per giunta, era successo tutto di colpo. Non c’era stato quel graduale declino che si tendeva ad aspettarsi dalla terza età. Non per lui. Una settimana si sentiva normale, e la successiva aveva notato che sentiva dolore se sollevava le braccia sopra il capo. Le articolazioni delle spalle sembravano aver finito il lubrificante, le sentiva rigide e indolenzite. E avvertiva qualcosa di analogo alle ginocchia, ai polsi e perfino alle caviglie di tanto in tanto. Era successo proprio nello stesso periodo in cui la sua vista era andata calando. E da allora era stato tutto un rapido declino. I capelli si erano diradati, e i pochi rimasti erano diventati d’argento. La sua schiena si era progressivamente incurvata, e con il passare degli anni la pelle si era incartapecorita.

    L’inizio della fine, secondo i suoi calcoli, era stato quindici anni prima, appena dopo che si era ritirato dall’impiego governativo. La sua era una buona pensione. Ma non buona quanto l’anticipo che la River House Publishing gli aveva dato per il suo libro-scoop. Quel denaro gli aveva permesso di trascorrere gli ultimi dodici mesi su un’isola privata nei Caraibi, a crogiolarsi al sole e a scrivere. Rivivendo tutto quanto, e sì, occasionalmente svegliandosi di soprassalto nella notte con il cuore che gli batteva forte, ma erano stati tutti falsi allarmi.

    Non lo sarebbero più stati, dopo quella sera. Se non gliel’avesse fatta pagare il suo vecchio datore di lavoro, ci avrebbero pensato i personaggi di cui parlava nel suo libro. In un modo o nell’altro, lui ormai era storia passata. E questo andava bene.

    Aveva avuto quell’anno al sole dei tropici. Spiagge sabbiose e calda acqua marina rendevano molto più sopportabili gli occhiali bifocali e l’artrite. E adesso l’anno era terminato. Il libro sarebbe approdato sugli scaffali nel giro di un mese. Immaginava che a quel punto sarebbe morto di lì a breve. Ma era pronto. I suoi affari erano tutti in ordine.

    «Cinque minuti, Mr. Folsom» annunciò una voce femminile.

    Lui alzò gli occhi sulla regista dai capelli rossi che aveva fatto capolino nella camera verde. Che non era affatto verde, chissà perché. «Sarò pronto» le rispose.

    Poi lei aprì la porta un po’ di più e permise a un’altra donna di entrare. «Lei andrà in onda subito dopo Mr. Folsom» le annunciò.

    «Grazie, Kelly.»

    Kelly! Ecco qual era il nome della giovane testarossa. Avrebbe dovuto ricordarselo, visto che glielo aveva detto appena venti minuti prima, quando si era presentata per la prima volta. Ma in fondo non aveva molta importanza, suppose scrollando il capo. Tanto ormai se n’era andata.

    La nuova arrivata – che lui etichettò immediatamente come un’intellettuale introversa – salutò con un cenno del capo e si guardò intorno, proprio come aveva fatto lui, notando il buffet con l’offerta di caffè, tè, panna e zucchero, e una spartana selezione di frutta e biscotti. C’era un televisore montato in alto in un angolo, sintonizzato sulla trasmissione cui entrambi avrebbero partecipato di lì a poco, ma lui aveva abbassato del tutto il volume, annoiato dal discorso d’apertura del conduttore.

    La donna terminò il suo esame della stanza e guardò verso di lui, ma abbassò gli occhi non appena lui ricambiò lo sguardo. Begli occhi. Castani e sfuggenti come quelli di una cerbiatta, nascosti dietro un paio di lenti dalla montatura in guscio di tartaruga.

    «Bene» disse lui per rompere il ghiaccio, «visto che Kelly non ha pensato a fare le presentazioni, sembra che dovremo arrangiarci da soli. Io sono Lester Folsom, qui per lanciare un libro.»

    Lei gli sorrise, incontrando infine il suo sguardo. «Professoressa Lucy Lanfair» disse avvicinandosi e tendendogli una mano esile. Non era una mano delicata e dall’aria viziata; al contrario, era chiaro che era abituata a lavorare e questo gli piacque. La donna aveva capelli castani come gli occhi, che teneva raccolti e arrotolati in un severo nodo sulla nuca.

    Lui le prese la mano, notando più sollevato di quanto volesse ammettere che era calda al tocco. «Lieto di fare la sua conoscenza.»

    «Altrettanto.» Lei ritirò la mano, pulendosela sulla gonna di tweed marrone. «Scusi per i palmi sudati. Sono terribilmente agitata. Sa, non sono mai stata prima in TV.»

    «Non ha motivo di essere nervosa» le assicurò lui. «Ha un aspetto molto gradevole, se può esserle di conforto saperlo.»

    «Non mi sono mai preoccupata troppo del mio aspetto, ma grazie. Lo apprezzo davvero.»

    Una donna che non si curava della bellezza. Orbene, questo era interessante. «Di cosa è venuta a parlare?» le domandò.

    Lei sprofondò in una poltroncina messa ad angolo rispetto alla sua e srotolò la rivista che teneva stretta in una mano. «Una nuova traduzione piuttosto sorprendente di una tavoletta d’argilla che risale a quattromila e cinquecento anni fa.»

    Folsom inarcò le sopracciglia, palesemente interessato. «Sumera?»

    «Sì!» Lei parve sorpresa. «Come lo sapeva?»

    «Non ci sono molte altre culture che avevano una lingua scritta nel duemilacinquecento avanti Cristo. Posso?» Accennò con il capo alla rivista, e lei gliela porse. La Rivista di Studi sull’Antico Vicino Oriente – Journal of Ancient Near Eastern Studies, detta J.A.N.E.S. per comodità – riportava in copertina la classica immagine di una ziggurat, sotto la quale il titolo proclamava: Una nuova traduzione suggerisce un’altra profezia sul Giorno del Giudizio. Passò lo sguardo dalla rivista alla professoressa. «Questo è il suo pezzo?» Quando lei annuì, commentò: «Ha ottenuto la copertina. Impressionante».

    «Sì, ma si tratta di una rivista specialistica con un pubblico di circa tremila lettori. Tuttavia, è bello ottenere il riconoscimento, lo ammetto. Anche se avrei fatto a meno del sensazionalismo. Quello che la profezia predice è privo di significato.»

    «Oh, non ne sia così sicura.» Lui spostò lo sguardo sul libro che portava con sé ovunque andasse. «E dovrebbe essere grata per il sensazionalismo. Non avrebbe avuto la copertina, senza.»

    «No, ha ragione, immagino di no.»

    «Così, lei è una traduttrice?» le domandò Folsom, sfogliando le pagine per trovare l’articolo.

    «E un’archeologa, nonché docente alla Binghamton University» rispose lei sottovoce.

    Non voleva vantarsi, era solo pignola nel chiarire le proprie competenze, pensò Folsom. Era una ragazza piuttosto graziosa, un po’ più ossuta di quanto piacesse a lui, ma ai suoi tempi le donne erano più formose. Si vestiva senza eleganza, notò. Probabilmente per essere presa più sul serio nella professione. Gonna a tubo, semplice camicetta bianca e un golf leggero color panna. Molto ordinario.

    «E adesso anche una scrittrice» aggiunse. «È imperativo nel mio campo. Pubblica o muori è più che un semplice modo di dire.»

    O nel suo caso, pubblica e muori, pensò lui. Trovò il suo articolo e, non avendo il tempo di leggerlo tutto, passò direttamente all’inizio della traduzione. Bastarono poche righe per catturare tutta la sua attenzione.

    La progenie del Vecchio,

    Tutti i figli dell’Antico,

    Di Utnapishtim,

    In un sol colpo non sono più.

    Nella luce dei suoi occhi, essi non sono più

    Tutti, fino all’ultimo,

    A meno che Utnapishtim stesso... (segmento mancante)

    «Come dicevo, non è tanto il testo a essere interessante» disse la professoressa magrolina, intromettendosi nella lettura di Folsom, «quanto il fatto che fino a oggi non si sapeva che i Sumeri profetizzassero. Ma...»

    Lui alzò una mano per bloccare le chiacchiere che lo distraevano mentre i suoi occhi correvano sui versi.

    Quando la luce incontra l’ombra,

    Quando la tenebra è ben rischiarata,

    Quando coloro che stanno nascosti vengono rivelati,

    La guerra scoppia.

    Come un leone, essa divora.

    Come una tigre, senza pietà, distrugge.

    Poiché la fine incombe su di loro,

    La fine della loro stirpe,

    La fine della loro razza,

    La razza che originò dalle sue vene.

    La porta si aprì, e la rossa – Kelly – fece di nuovo capolino. «È ora di andare in onda, Mr. Folsom.»

    «Un attimo!» abbaiò lui, facendo sobbalzare le due donne. Doveva finire di leggere. Non poteva fermarsi lì, doveva sapere.

    Soltanto il Vecchio... (segmento mancante)

    Il Sopravvissuto al Diluvio

    L’Antico

    Utnapishtim

    I Due devono portare... (segmento mancante)

    I Due che sono opposti

    E tuttavia uguali,

    Uno luce, uno tenebra,

    Uno il distruttore,

    Uno la salvezza

    «I gemelli» mormorò Folsom. «Questo testo riguarda i leggendari gemelli ibridi.»

    «Scusi?» chiese la professoressa Lanfair.

    «Mr. Folsom» intervenne Kelly, «dobbiamo andare.»

    Ignorandole entrambe, lui girò la pagina, ma non c’era altro. Alzando la testa, trafisse con gli occhi la professoressa. «Questo è quanto? Tutto qui? L’hanno stampata tutta?»

    «Sì. O meglio, per ora non c’è altro. Ma in magazzino ci sono ancora centinaia di frammenti di tavolette d’argilla che provengono dallo stesso sito archeologico. Potrebbero essercene altri di questa tavoletta, anche se al momento...»

    «Mr. Folsom!» esclamò Kelly, e fu chiaro che non avrebbe accettato un no come risposta.

    Lui annuì, chiudendo la rivista e rendendola al topo di biblioteca dagli occhi di cerbiatta. «Non è affatto una profezia sul Giorno del Giudizio, professoressa Lanfair. Non per il genere umano, quantomeno. Questo testo parla di loro

    «Loro chi?»

    Folsom sospirò, lanciò un’occhiata alla rossa e poi si sporse verso la studiosa e le bisbigliò all’orecchio: «Sulla razza che nessuno crede che esista... Proprio quella che il mio libro sta per rivelare in TV questa sera.» Tutto a un tratto un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Folsom guardò di nuovo lo schermo nell’angolo, poi socchiuse gli occhi e guardò con maggior attenzione. Mentre la telecamera inquadrava il pubblico in studio, individuò un uomo in abito scuro in piedi sul fondo, e poi un altro vicino all’uscita. Entrambi portavano occhiali scuri nello studio semibuio. La bocca gli diventò arida.

    Ma non poteva tornare indietro, a quel punto. Doveva arrivare in fondo. Riportando l’attenzione sulla graziosa professoressa che si era imbattuta in quella che poteva essere la chiave di tutto, le spinse tra le mani la sua copia personale del libro che aveva scritto. «È meglio che tenga questo. Non dica a nessuno che ce l’ha, e non se lo lasci sfuggire di mano. A nessun costo.»

    «Non capi...»

    «Sto per dire al mondo che i vampiri esistono davvero, e che il nostro governo lo sa da quasi un secolo. La tenebra, mia cara ragazza, sta per essere ben rischiarata. Coloro che si nascondono stanno per essere rivelati. E c’è gente che non vuole che questo succeda. Ma la prova...» batté sulla copertina del libro con l’indice, «... la prova è qui dentro.»

    Poi si raddrizzò, accennò con

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