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L' Orrore della realtà: La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica
L' Orrore della realtà: La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica
L' Orrore della realtà: La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica
E-book561 pagine8 ore

L' Orrore della realtà: La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica

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Info su questo ebook

Howard Phillips Lovecraft, attraverso le sue opere, ha rinnovato completamente la narrativa del fantastico e dell'orrore. Quando morì — nel 1937 ad appena 47 anni — era praticamente uno sconosciuto, ma nei suoi straordinari racconti, nei suoi saggi, nelle sue lettere ricche di umanità e di vero genio aveva piantato i semi di una rivoluzione copernicana della cultura: soltanto oggi si comincia a capire la portata del suo influsso sulle generazioni gli sono succedute. L'ingresso del fantastico a tutti i livelli della cultura popolare — dalla narrativa al cinema, dai videogiochi alla pubblicità, dai fumetti alla televisione — è avvenuto attraverso i moduli stilistici da lui individuati e delineati nella prima metà del secolo scorso. Non solo, ma in una società come quella fra le due guerre mondiali, orgogliosa delle sue certezze e dei suoi progressi tecnologici, fu tra i primi a individuare i sintomi dello shock del futuro, della crisi delle ideologie, del rovesciamento dei valori, delle incertezze derivanti da una scienza senza coscienza che oggi turbano le menti di tutti. Ed espresse queste inquietudini attraverso una serie di simboli di orrore che sono i medesimi che s'annidano nell'inconscio di ciascuno di noi, pronti a irrompere nella nostra consapevolezza quando le certezze, come oggi, vacillano. In questo volume sono raccolti i passi essenziali, tratti dal suo incredibilmente vasto epistolario, in cui Lovecraft tracciò le sue idee sul mondo, sulla società, sul fantastico, sulla scienza, sulla politica, sul futuro dell'uomo, e in cui delinea i contorni di un cosmo immenso e inconoscibile, che non potremo mai afferrare con la ragione, ma dai cui abissi emerge un frullio d'ali di tenebra che viene a turbare la nostra serenità fondata sull'ignoranza. Una visione apocalittica densa d'orrore. Ma non priva di speranze.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2015
ISBN9788827225462
L' Orrore della realtà: La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica
Autore

Howard Phillips Lovecraft

(1890 - 1937) Americano di Providence nel Rhode Island, è oggi considerato anche dalla critica ufficiale il più grande narratore della letteratura orrorifica e fantastica degli ultimi cento anni. Le sue creazioni - "Il Necronomicon", orrendo grimorio la cui lettura ingenera la follia; "il grande Cthulhu", abominevole divinità che dorme nell'abisso in attesa di un imminente spaventoso risveglio, "Shub Niggurath", il Capro Nero della sterminata, immonda progenie, e infinite altre - sono stati i modelli per tutta la successiva letteratura dell'inquietudine. Dopo la sua scomparsa, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo e pubblicate in milioni di copie. Morì di cancro, povero e solo.

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    L' Orrore della realtà - Howard Phillips Lovecraft

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    L’orrore della realtà

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    H.P. Lovecraft

    La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica

    Lettere 1915-1937

    A cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco

    Traduzione di Massimo Berruti

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    Copyright

    L’orrore della realtà - H.P. Lovecraft

    La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica - Lettere 1915-1937

    A cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco

    Traduzione di Massimo Berruti

    In copertina:

    H.P. Lovecraft in una foto scattata da Robert H. Barlow durante la sua prima visita in Florida nel 1934.

    Permission to quote from original texts of the letters of H.P. Lovecraft granted by Robert C. Harrall PhD, Administrator, Estate of H.P. Lovecraft, Lovecraft Properties, LLC.

    © Copyright 2007-2015 by Edizioni Mediterranee , Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    ISBN 978-88-272-2546-2

    Prima edizione digitale 2015

    © Copyright 2015 by Edizioni Mediterranee

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

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    Introduzione: Le miniere di H.P. Lovecraft

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    "L’unica crociata degna dell’individuo illuminato è quella combattuta contro tutto

    ciò che impoverisce l’immaginazione, il meraviglioso, la percezione sensoriale,

    la vita vissuta intensamente e l’apprezzamento della bellezza: null’altro conta".

    (Lettera a James Ferdinand Morton, 10 febbraio 1923)

    "È impossibile trovare qualcosa di positivo in questa età delle macchine

    che corrode come un cancro".

    (Lettera a Woodburn Harris, 25 febbraio-1° marzo 1929)

    "La vita non mi ha mai interessato tanto quanto l’evasione dalla vita".

    (Lettera a J. Vernon Shea, 7 agosto 1931)

    La consacrazione definitiva di un autore si ha quando il suo nome diventa un aggettivo. Parlando di una risata omerica, una bolgia dantesca, un personaggio pirandelliano, una situazione kafkiana, sappiamo bene ciò che intendiamo. Oggi, quando usiamo il termine lovecraftiano, vogliamo dire: Terrificante, mostruoso, fuori del mondo. L’orrore lovecraftiano è quella particolare categoria letteraria che pone l’enfasi sul terrore psicologico dell’ignoto o, in certi casi, dell’inconoscibile. La frase tra virgolette è presa dalla lunga definizione del lemma Lovecraftian incluso in quello che è il dizionario più consultato al mondo, ovvero il Wiktionary affiancato all’enciclopedia aperta Wikipedia, la summa del sapere raccolto su Internet, che accoglie le sue voci sulla base dell’effettivo uso e diffusione, realizzata e aggiornata (non senza contrasti) dai suoi stessi utenti. Se c’era bisogno di una testimonianza sull’effettivo influsso dell’inventore di Cthulhu e del Necronomicon sulla cultura popolare contemporanea, non poteva essercene una più eclatante.

    Di fatto, anche se voi non lo sapete, Lovecraft ha cambiato la vostra vita. La vita di tutti, in realtà, perché attraverso le sue opere, che hanno rinnovato completamente la narrativa del fantastico e dell’orrore, ha inciso in modo profondo sull’estetica, sul gusto, sui simboli, sul modo di pensare, sul modo di porgersi della civiltà occidentale contemporanea. Nei suoi straordinari racconti, nei suoi saggi, nelle sue lettere ricche di umanità e di vero e proprio genio ha piantato i semi di una rivoluzione copernicana della cultura: soltanto oggi si comincia a capire la portata del suo influsso sulle generazioni che gli sono succedute. Una circostanza che taluni trovano difficile da accettare, altri ignorano: ma non per questo meno vera.

    L’ingresso del fantastico a tutti i livelli della cultura popolare – dalla narrativa al cinema, dai videogiochi alla pubblicità, dai fumetti alla televisione – è avvenuto attraverso i moduli stilistici e contenutistici individuati da Lovecraft e da lui delineati nella prima metà del secolo scorso, accettati e inseriti nelle loro opere da tutti coloro che ne sono stati influenzati o a lui si sono ispirati e che, di conseguenza, li hanno diffusi largamente. Non solo, ma in una società come quella fra le due guerre mondiali, orgogliosa delle sue certezze e dei suoi progressi tecnologici, Lovecraft è stato tra i primi a individuare i sintomi di quello che venne definito da Alvin Toffler lo "shock del futuro, e ad anticipare la crisi delle ideologie, il rovesciamento dei valori, le incertezze derivanti da una scienza senza coscienza e dalla non-neutralità delle macchine: ovvero le inquietudini che oggi turbano le personalità più sensibili. Queste istanze di disagio sociale, le espresse attraverso una serie di simboli spaventosi che sono i medesimi che s’annidano nell’inconscio di ciascuno di noi, pronti a irrompere nella nostra consapevolezza quando le certezze, come negli anni Trenta e ancor di più oggi, vacillano. Quale sfondo e sorgente di tutto questo, Lovecraft ha delineato i contorni di un cosmo immenso e inconoscibile, che non potremo mai afferrare con la ragione e i suoi prodotti (scienza e tecnica), e dai cui abissi emerge un raspare d’ali di tenebra" che viene a turbare la nostra serenità fondata sull’ignoranza o sulla presunzione. La sua concezione dell’uomo nei rispetti della Natura – potremmo dire – ha come radici Lucrezio e Leopardi. Una visione apocalittica, densa d’orrore: ma non priva di speranze.

    Ma in definitiva chi è, chi è stato Howard Phillips Lovecraft?

    Anche oggi, col suo nome ormai noto in tutto il mondo, e con le sue opere incluse in prestigiose collane letterarie, si conosce molto poco di lui, come uomo e soprattutto come pensatore. O meglio, il grosso pubblico e certa critica ne conoscono soltanto ciò che emerge da una spessa stratificazione di luoghi comuni, pregiudizi, leggende metropolitane tramandati in buona o cattiva fede da oltre mezzo secolo e continuamente citati e accettati come dati di fatto: mentre non sono altro che trite ripetizioni di falsità acclarate.

    Vent’anni dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1937, la notorietà di Lovecraft era ancora limitata agli appassionati di narrativa fantastica e orrorifica che leggevano quasi soltanto le riviste popolari americane (i cosiddetti pulp magazines) sulle quali si continuavano a ristampare i suoi racconti. Poi, grazie agli amici e corrispondenti Donald Wandrei e August Derleth, che avevano fondato nel 1939 una casa editrice (la Arkham House, tuttora attiva) appositamente per raccoglierne in volume le opere, il suo nome cominciò a circolare anche al di fuori di una ristretta cerchia di adepti. La sua fama si allargò gradatamente, giungendo nell’Europa continentale. In Francia, Lovecraft venne accolto come il vate di una nuova era, grazie anche all’opera di proselitismo compiuta da Jacques Bergier, che in vita fu suo corrispondente, e ne scrisse prima nel famoso Il mattino dei maghi del 1960 e quindi sulla rivista che ne derivò, Planète, insieme con Louis Pauwels. In Italia sbarcò all’inizio degli anni Sessanta, e vide le sue storie tradotte da editori prestigiosi (Sugar, Einaudi, Mondadori) prima incluse in antologie, poi con volumi solo ad esse dedicate, affermandosi definitivamente nel decennio successivo, quando uscì una vasta serie di articoli su di lui ad opera di note firme della critica letteraria (ancorché non sempre favorevoli), e una biografia, l’unica finora apparsa nel nostro Paese, scritte dagli autori di queste righe (La Nuova Italia, 1979). Negli anni Novanta, col centenario della nascita, c’erano, e ci sono ancora, nelle librerie non meno di quattro versioni delle sue opere complete, pubblicate da altrettante case editrici, molto differenti fra loro per qualità delle traduzioni, organizzazione dei testi e... completezza.

    Il modo del tutto nuovo di concepire quell’ancestrale sentimento che è la paura, che Lovecraft teorizzò, ha influenzato almeno tre generazioni di scrittori, registi, sceneggiatori di film per il grande schermo e per la televisione, autori di fumetti, creatori di giochi. I suoi esseri d’incubo, le divinità spaventose, i personaggi, i luoghi fantastici sono filtrati all’interno di una serie infinita di romanzi, racconti, storie filmate e disegnate, per non parlare dei giochi di ruolo e dei videogames. Lui stesso – visto come una figura simbolica e personaggio di per sé eccezionale – è diventato protagonista di narrazioni diffuse attraverso ciascuno di questi mezzi espressivi. Quanti scrittori possono vantarsi d’altrettanto?

    Ma quel che sarebbe diventato, lui non ebbe modo neppure d’intuirlo: morì povero e solo in una clinica di Providence, per un tumore all’intestino, il 15 marzo 1937. Non aveva ancora 47 anni (era infatti nato sempre a Providence il 20 agosto 1890), tuttavia era già oggetto di un vero e proprio culto, sia pure ancora in embrione. La fittissima rete di corrispondenti che si era creata grazie al suo mitico epistolario (centomila missive spedite in poco più di vent’anni) gli avevano raccolto attorno un vero e proprio cenacolo di discepoli, molti dei quali sarebbero diventati autori famosi e influenti nella narrativa fantastica contemporanea. Quei giovani autori, fra cui Robert Bloch, Fritz Leiber, Henry Kuttner, C.L. Moore, James Blish e tanti altri, accoglievano le sue parole come quelle di un maestro indiscusso. Furono loro, insieme con i lettori e altri importanti autori che non lo frequentarono ma furono influenzati dai suoi scritti (per esempio, Ray Bradbury e Stephen King), ad imporne la fama in tutto il mondo.

    Oggi Lovecraft ha di gran lunga superato la notorietà di tutti i suoi discepoli, pur non avendo mai avuto in vita una fama neppure paragonabile a quella conseguita da molti di essi, che hanno visto i loro volumi pubblicati e tradotti in tutto il mondo. Da vivo Lovecraft non ha visto un solo libro apparso con la propria firma da parte di un vero editore; qualche sua novella era stata accolta in antologie, ma nulla di più. La narrativa non era neppure la sua principale fonte di guadagno: viveva in assoluta frugalità consumando lentamente quanto gli restava di un lascito familiare, e integrando le magre risorse con la faticosa attività di ghost writer, ovvero rimettendo in buon inglese manoscritti altrui (racconti, poesie, saggi, conferenze, interi libri, soltanto una parte dei quali identificati).

    A questo punto, riemerge la domanda precedente: chi è Lovecraft? Come ha potuto, partendo da una base così incerta, esercitare un influsso tanto profondo sulla cultura, cent’anni dopo la nascita?

    Per rispondere, occorre andare a frugare dietro la sua opera letteraria. Occorre portare alla luce le radici del suo modo di essere, di scrivere, di manifestarsi. In altre parole, si deve far emergere la sua visione del mondo, sottesa all’opera narrativa, alla poesia, alla saggistica.

    Bisogna subito sottolineare un fatto, acclarato ormai negli Stati Uniti, ancora non ben presente in Italia: i mostri di Lovecraft sono tutt’altro che figure di cartapesta, come vennero definiti da certa nostra critica togata negli anni Settanta. Sono invece le figurazioni simboliche delle pulsioni nascoste non solo nel nostro inconscio individuale, ma nel sottofondo collettivo della società umana. Sono veri e propri archetipi junghiani, dalla potenza indescrivibile. Per questo motivo, consapevole o meno che Lovecraft ne fosse, sono gli strumenti attraverso i quali la società razionale, scientificizzata, moderna, viene perturbata e sconvolta. Ma sono anche il simbolo dell’inconoscibilità di quanto ci circonda: la Natura, il Cosmo, che non riusciremo mai a comprendere sino in fondo: come la scienza stessa, a partire dall’indeterminismo di Heisenberg, è stata costretta ad ammettere.

    Il centro dell’originalità lovecraftiana è il passaggio dal punto di vista strettamente antropocentrico, che connotava il classico racconto ottocentesco del sovrannaturale, a una visione cosmica del terrore. Questo passaggio è ciò che lo fece definire un Copernico letterario da Fritz Leiber e un Poe cosmico da Jacques Bergier. Non si tratta semplicemente di un artificio letterario strumentale alla realizzazione di un diverso e più efficace tessuto narrativo, bensì dell’applicazione sostanziale di una vera e propria visione del mondo. Una concezione globale dell’Uomo e della Natura che Lovecraft maturò nel suo animo soprattutto a partire dal cosiddetto esilio newyorkese, dal 1924 al 1926, quando andò ad abitare con la moglie Sonia Green a Brooklyn, in quella che definì, nonostante il caotico brulichio umano dell’immensa metropoli e la brillantezza esteriore delle sue luci, la fosforescenza di un cadavere putrescente (lettera a A. Derleth del 20 gennaio 1927).

    La realtà – banale, crudele, mercificata, assurda, incolta, esteticamente squallida – gli faceva orrore: per sfuggirne, non poteva che sostituirla con una realtà di sogno, migliore e più affascinante, o in alternativa farla a brandelli, nella sua struttura concreta e simbolica, ad opera di creature, esseri, divinità tanto aliene all’uomo, estranee al suo mondo, da esserne totalmente indifferenti, cosmicamente indifferenti. L’umanità è un accidente così minimo lungo il percorso dell’eternità che l’unico modo per sostenere il peso dell’essere è cercare un soddisfacimento estetico, ignorare o respingere l’orrore che ci circonda, evadere nel sogno; oppure, distruggere gli schemi dei quali non vogliamo essere prigionieri. L’amico poeta Clark Ashton Smith riassume bene l’idea quando scrive che nei racconti dell’orrore di tipo più squisitamente fantastico i veri attori non sono gli esseri umani, ma le terribili forze arcane dell’ignoto. I racconti dell’immaginazione offrono una lieta e salutare liberazione dall’opprimente tirannia dell’antropocentrico (lettera pubblicata dalla rivista Amazing Stories nel fascicolo dell’ottobre 1932). Sarebbe sufficiente leggere il lungo elenco dei propri interessi che lo scrittore fece, non senza autoironia, a J.F. Morton il 18 gennaio 1931, per rendersi conto di come fosse altro rispetto alla realtà contingente, e allo stesso tempo ne fosse profondamente coinvolto.

    Fu Otto Rank a dire che il mito è per il complesso della nostra specie ciò che il sogno è per l’individuo. Ebbene, Lovecraft nei suoi miti narrativi è riuscito a portare alla luce e a rappresentare con ineguagliata efficacia gli incubi collettivi dell’uomo, mettendo tutti noi di fronte alle nostre istintualità represse, le paure non riconosciute né accettate, i desideri inconfessabili, gli orrori che l’umanità ha spinto sul fondo della propria coscienza e che risalgono alle sue origini ancestrali. Per questo gli orrori di Lovecraft spaventano ancora, in un mondo in cui la cronaca riversa ogni giorno atrocità quali i pulp-writers degli anni Venti e Trenta non avrebbero neppure saputo concepire. Non sono frutto di mode o allegorie contingenti, bensì simboli perenni.

    Come fece Lovecraft ad avere coscienza di questo oscuro sottofondo di tenebra e, soprattutto, come ebbe il coraggio intellettuale di rappresentarlo con tale efficacia? Attraverso quale terribile catàbasi è arrivato a varcare le soglie dell’inferno interiore? I suoi racconti e romanzi, e – soprattutto – la sua ancor non pienamente valutata opera poetica, contengono da questo punto di vista numerosi indizi, per chi (come Dirk W. Mosig, il più acuto esegeta lovecraftiano di sempre) sappia leggerli con occhio fisso non soltanto all’estetica narrativa. Ma è soprattutto nelle lettere che si trovano le chiavi per penetrare nella visione del mondo di Lovecraft.

    L’epistolario lovecraftiano, come s’è accennato, è un mare senza confini. A parte sporadiche lettere ad amici e familiari, ebbe inizio effettivamente nel 1914, anno in cui lo scrittore entrò in contatto con le cerchie del giornalismo amatoriale cui sarebbe rimasto legato per tutta la vita, e s’intensificò a partire dall’inizio degli anni Venti, quando i suoi racconti apparvero sulla rivista Weird Tales (il primo, Dagon, scritto nel luglio del 1917, fu pubblicato nel numero di ottobre 1923). Per oltre vent’anni della sua esistenza, lo scrittore spedì una media di dodici missive al giorno, che variano da semplici cartoline a lunghissimi manoscritti di 50-70 e più fogli, vergati su entrambe le facciate, nei quali sono raccolti veri e propri saggi compiuti e strutturati, spazianti su una quantità incredibile di argomenti: in pratica tutto lo scibile umano.

    Alla fine, si calcola che furono almeno centomila le lettere composte da Lovecraft nell’arco della sua vita. Di questa immensa mole se ne salva circa il quindici per cento, in parte raccolto in biblioteche (principalmente la John Hay Library di Providence), in parte custodito negli archivi dell’Arkham House, in parte in mano privata. Soltanto una piccolissima porzione ne è stata pubblicata finora. L’Arkham House, dal 1965 al 1976, ha messo in commercio cinque densi volumi di Selected Letters, in cui 930 missive sono riprodotte non integralmente, ma selezionandone brani significativi. Altre raccolte di lettere, integrali e meglio strutturate, sono state proposte negli anni scorsi dalla Necronomicon Press, e attualmente altre ancora dalla Hippocampus Press e dalla Night Shade Books. Ma molto c’è ancora da fare prima di avere un’edizione organica dell’epistolario lovecraftiano.

    Si tratta, come ben può capirsi, di un materiale sterminato, su cui da anni studiano critici soprattutto americani (in prima fila S.T. Joshi, ma anche David E. Schultz, Stephen J. Mariconda, Donald R. Burleson e molti altri). Affrontandolo, si scava in quella vera e propria miniera di variegata cultura che è H.P. Lovecraft. Ne emerge il suo pensiero su tutti i diversi aspetti dell’esistenza, da quelli più banali, come il cinema, la narrativa corrente, le difficoltà della vita di ogni giorno, i gusti personali, a rigorose e spesso diffuse esposizioni dottrinali su tutti i temi di base della nostra civiltà.

    Ciò che ne viene fuori è il profilo di una personalità dall’incredibile spessore umano e intellettuale, capace di straordinari lampi d’ingegno, nutrita di una cultura stupefacente. Una personalità che si estrinsecava in punti di vista eterodossi, fuori del comune, controcorrente e capace di veri e propri exploit profetici. Le idee di Lovecraft, nella cultura oggi dominante, appaiono sovente ostiche, aspre, poco digeribili, addirittura sgradevoli e urticanti, perché vanno con durezza contro l’imperante buonismo, disprezzano i luoghi comuni, attaccano in modo feroce la dittatura culturale di quello che secondo l’uso si definisce oggi politicamente corretto – un progetto imposto da intellettuali fuori dalla realtà – i cui devastanti estremi lo scrittore aveva lucidamente anticipato, condannando impietosamente quella che Richard Hughes avrebbe chiamato la società del piagnisteo. Le sue lettere sferzano senza remore ogni ipocrisia moralistica, ogni soggezione a preconcetti artificiosi, ogni supinità nei confronti delle convenzioni imposte da malafede e pavidità intellettuale. Di fatto, sono un inno all’indipendenza e alla libertà del pensiero: la merce intellettuale oggi più scarsa e di cui quant’altre mai si avverte il bisogno.

    Per questo, indubbiamente, i critici d’ogni parte del mondo, soggetti come sono per primi ai ceppi che oggi vincolano la cultura, esitano ad affrontare con compiuta coscienza il Lovecraft che emerge dall’epistolario. Prendono atto delle sue idee, ma subito si diffondono in distinguo, abbondano in se e ma, mettono paletti, pongono segnali di caveat, come se avessero a che fare con un animale pericoloso o con una persona affetta da non si sa bene quale malattia contagiosa. C’è il pericolo di dare scandalo (e si dimentica l’Evangelio: Oportet ut scandala eveniant), di traviare le menti, d’indurre – orrore – qualcuno a pensare col proprio cervello invece che con quello degli altri. Se ne temono le conseguenze, e se del caso le s’inventano pure, dimenticando che ognuno è responsabile di se stesso, che le idee in quanto tali possono diventare pericolose soltanto se tramutate in fatti: e i fatti – anch’essi – hanno una responsabilità originale e primaria in chi li mette in pratica.

    Non è la prima volta. La stessa sorte è capitata a molti pilastri della cultura del Novecento: da Céline a Pound, da Hamsun a Mishima a Marinetti, tanto per fare i primi nomi che salgono alla mente. Si accetta lo scrittore per la sua opera, lo si esalta come erede di Poe, teorico di un nuovo orrore cosmico: ma contemporaneamente si mette in gabbia l’uomo (come materialmente avvenne con Ezra Pound) per le sue idee. Con Lovecraft, c’è un rischio in più: la sua narrativa attira soprattutto i giovani, e lui stesso si è dimostrato un eccezionale cultore di giovani menti. Ancor più solida, dunque, dev’essere la recinzione, visto che contro il dilagante (e accettato a denti stretti) successo della sua narrativa non c’è nulla da fare. Anche con Tolkien sta succedendo la stessa cosa.

    Questo libro, per i due curatori, assolve un impegno non soltanto culturale, ma anche morale nei confronti di Lovecraft preso già alla fine degli anni Sessanta, quando lo scrittore veniva spesso malamente pubblicato in italiano e non si riusciva a comprendere perché scrivesse quel che scriveva: far capire, al di là dell’importanza del narratore, la piena statura dell’uomo e dell’intellettuale. Un impegno che si può assolvere soltanto adesso, dopo un bel po’ di decenni. Cogliendo l’occasione del settantesimo della morte di Lovecraft, e grazie alla disponibilità dell’Editore, con il quale collaboriamo entrambi ormai da una vita, abbiamo deciso di organizzare finalmente una scelta ragionata di brani dall’epistolario, selezionati in modo da evidenziarne le principali idee in fatto di arte, letteratura, estetica, filosofia, scienza, storia, etica, con un’ampia messe d’informazioni sullo scrittore stesso e di commenti ai fatti politici e culturali a lui contemporanei e su cui s’intrattiene, tanto americani che mondiali. Un’idea cui si è cominciato a porre concretamente mano nel 2003, e ora giunta a realizzazione.

    L’obiettivo è quello di evidenziare l’evoluzione del pensiero di Lovecraft nell’arco dei poco più di vent’anni coperti dall’epistolario, sfatando così anche uno dei luoghi comuni con i quali la critica politicamente corretta (soprattutto, anzi quasi soltanto, quella italiana) ha voluto sbiancarne la figura, assolvendola dal delitto di essere, dal punto di vista della filosofia politica, sostanzialmente un esteta aristocratico e razionalista che, proprio in quanto tale, è partito dalle iniziali posizioni giovanili classiciste, reazionarie e filofasciste, sino ad approdare, negli ultimi anni della sua vita, durante la Depressione ed il contatto con la crudissima realtà esistenziale, ad una visione più rivoluzionario-conservatrice, decisamente anticapitalista e più aperta ad un sociale di tipo dirigistico. Una visione che il critico S.T. Joshi, nel suo saggio The Political and Economical Tought of H.P. Lovecraft (1979), ha efficacemente definito socialismo fascista, usando un termine ideato dallo scrittore e romanziere francese Pierre Drieu La Rochelle che pubblicò un libro con questo titolo nel 1934 (Socialisme fasciste). Tali posizioni – è bene sottolinearlo nei confronti di quanti hanno la penna facile nell’accusa di travisamento e occultamento di queste idee lovecraftiane – si sono conosciute soltanto alla pubblicazione degli ultimi due volumi dell’epistolario dell’Arkham House, che raccolgono lettere dal 1932 al 1937, apparsi entrambi nel 1976.

    Sull’onda di questa scoperta si è recentemente favoleggiato, qui in Italia e solo qui, di una presunta conversione dello scrittore nell’estrema fase di sua vita, in pratica durante l’ultimo anno, al comunismo, ancorché americanizzato: al punto da affermare seriamente – risum teneatis – che avrebbe riconosciuto la superiorità del marxismo, con rovesciamento copernicano della propria filosofia politica, che almeno sino alla fine degli anni Venti era stata quella, secondo una sua stessa espressione, di un Tory calzato e vestito. Insomma, per certa nostra intellighenzia ideologizzata un autore si riesce ad accettare in toto e senza alcuna riserva mentale e letteraria soltanto dopo aver scoperto che è possibile definirlo compagno...

    Questa scelta di lettere rivela, se mai ve ne fosse stato bisogno, esattamente il contrario. Dal 1931 in poi, Lovecraft mostrò di avere piena coscienza del fallimento del capitalismo e della classe politica da esso espressa quale strumento del progresso civile e sociale dell’umanità. Si rese conto dei guasti che una distribuzione egoistica della proprietà e della ricchezza provoca non soltanto al tessuto sociale, ma anche all’identità culturale di una nazione. Dopo la vittoria a valanga di Roosevelt nelle elezioni presidenziali americane alla fine del 1932, credette d’identificare nel New Deal, così come era stato presentato nella campagna elettorale, uno schema politico molto vicino alle sue nuove idee, che lui definiva certo di sinistra, ma soltanto perché più avanzate in direzione sociale rispetto al suo pensare precedente. Elaborò sulla base di tali idee un vero e proprio programma politico-sociale, dettagliato nel saggio inedito Some Repetitions on the Times (1933), e più volte descritto ai corrispondenti nell’epistolario. Basta leggerlo per capire quanto mendace sia il ritratto di un Lovecraft comunista.

    Il programma di Lovecraft non prevedeva in alcun modo né l’abolizione della proprietà privata, né la confisca dei grandi capitali, né l’istituzione di partiti unici di qualsivoglia natura, né l’idea di una qualsiasi coscienza di classe, né alcuno dei concetti in nome dei quali il marxismo ortodosso ha insanguinato quasi un secolo di storia, affamando e vessando interi popoli per attuare i suoi programmi utopici e innaturali, ottenendo solo un centinaio di milioni di morti. Al contrario dei nostri intellettuali velleitari e presuntuosi, lo scrittore di Providence sapeva bene di che cosa stesse parlando, e del resto, nel 1932, aveva già con lo stalinismo un esempio politico concreto su che cosa volesse dire l’applicazione integrale delle idee comuniste. D’altra parte, aveva ben chiara anche la natura vampirica del capitalismo disumano, gretto e incolto delle plutocrazie americane, contro la cui ottusità e ignoranza, responsabile dello scempio estetico e culturale della società statunitense, tuonava da decenni in tutti i suoi scritti (stava vivendo la situazione sulla propria stessa pelle). Aveva inoltre perfettamente capito, Lovecraft, che dal denaro non può nascere un’aristocrazia in grado d’incarnare gli ideali superiori di un popolo, le cui radici trovano alimento in ben altri valori tradizionali. In una delle sue ultime lettere (a Catherine Moore alla metà dell’ottobre 1936, cinque mesi prima della morte) lo scrittore se ne esce con un Addio, nobiltà di nascita, idolo dei miei anni immaturi! Evviva, sono un uomo del popolo!. Un uomo del popolo che puntava su un’aristocrazia della cultura, come si può leggere più avanti: Lo scienziato, l’artista o il filosofo che non sono abili a far soldi vengono classificati tra gli incapaci, e costretti a soffrire ed estinguersi. Non esistono quindi solo quei valori materiali che andavano per la maggiore, ma altri, superiori.

    Il suo programma mirava dunque contemporaneamente a togliere potere ai plutocrati e agli ideologi inetti, e a permettere alla popolazione, grazie ad un miglior tenore di vita e una più equa distribuzione degli utili (anche attraverso la partecipazione azionaria degli operai alle aziende in cui lavoravano), di far germogliare – principalmente attraverso l’estetica – i semi del retaggio tradizionale del sangue, trasmessi dall’identità nazionale. Posizioni che, all’incirca, si possono rintracciare nel socialismo prussiano di Werner Sombart, nelle istanze della rivoluzione conservatrice tedesca, nella critica congiunta ad americanismo e bolscevismo di Julius Evola, in cui si trova una mescolanza di aristocraticismo intellettuale e culturale ed un’apertura di tipo corporativo sul piano della struttura del lavoro e della distribuzione dei beni. Possiamo ben immaginare come qualcuno, incardinato su preconcetti immarcescibili, s’indignerà e sbraiterà, ululando di paragoni improponibili e inaccettabili. Correremo il rischio: ci siamo peraltro abituati, sono decenni che lo corriamo. Ci sorge però il dubbio che se per ipotesi si fosse potuto fare un riferimento o un parallelo con le idee (poniamo) di Antonio Gramsci, nessuno si turberebbe più di tanto o parlerebbe di strumentalizzazione. Dunque: Oportet ut scandala lovecraftiana eveniant per portare allo scoperto le insanabili contraddizioni di questa tarda modernità (per usare la definizione dello psicologo junghiano Claudio Risé), e che non si vogliono vedere soltanto per l’ipocrisia piagnucolosa ma intollerante sotto la cui cappa viviamo.

    All’epoca in cui Lovecraft scrisse il suo documento, idee del genere non erano accettate dalla cultura politica americana: anzi, sarebbero state giudicate pericolosamente rivoluzionarie e, appunto, di sinistra, come dice lui stesso, mentre in Europa se ne tentava l’applicazione. Negli Stati Uniti, i sussidi di disoccupazione e vecchiaia spuntarono soltanto alla fine degli anni Trenta, gli orari di lavoro venivano stabiliti dalle necessità delle catene di montaggio, i primi controlli governativi su prezzi e tariffe furono introdotti proprio da Roosevelt, e parlare di operai-azionisti (come ipotizzava Lovecraft) faceva ridere: nessuno sapeva che cosa fosse la socializzazione. Altrove, per veder spuntare concetti simili, ci si doveva rivolgere alla politica sociale che il fascismo andava attuando, e che proprio per questo attrasse tanto Lovecraft e – quando gli parve che avesse tradito tali ideali (a partire dalla guerra di Spagna del 1936) – fu per lui motivo di cocente delusione.

    Quanto al comunismo, lungi dall’essersene convertito, in un lettera dell’8 luglio 1936 alla sua corrispondente J.K. Plaisier, Lovecraft ne dà un giudizio che non lascia spazio a repliche: "Ho rifiutato assolutamente i dogmatismi specifici del marxismo puro, che sono indiscutibilmente fondati su ben precise stupidaggini [fallacies] scientifiche e filosofiche. Condannando poi, in una lettera a Catherine Moore di qualche mese dopo, quei giovani che si lasciano circuire dai dogmi pseudo-scientifici e dal violento spirito rivoluzionario del marxismo ortodosso" (metà ottobre 1936).

    Questa che presentiamo è una selezione dell’epistolario mirante a far conoscere chi sia stato effettivamente Lovecraft, nel bene e nel male, senza censure e senza forzature ideologiche, nell’arco di un ventennio. Abbiamo cercato per quanto possibile di far emergere la sua personalità a tutto tondo, pur nei limiti dello spazio a disposizione. Nello scegliere queste cinquanta lettere – anzi, i brani di lettere – che qui si presentano e per il novanta per cento sconosciute al lettore italiano, ci siamo mossi all’interno dell’epistolario oggi noto, senza privilegiare un’edizione rispetto a un’altra, e cercando di mettere in luce con la massima onestà le principali idee di Lovecraft per farne risaltare un ritratto compiuto: un lavoro complesso e difficile, perché in queste immense miniere che sono le lettere lovecraftiane, ogni particolare sembra importante ed essenziale. Abbiamo cercato di sottolinearne soprattutto la visione del mondo in genere ignorata, ma senza trascurare gli aspetti umani, il senso dell’umorismo, le idee sul fantastico, i rapporti con le altre figure notevoli della narrativa non realistica americana di quegli anni. Proprio la densità di scrittura e di riferimenti ha obbligato, per far orientare il lettore e fargli meglio comprendere il contesto e l’incredibile cultura dello scrittore, a redigere una notevole mole di note esplicative storiche, biografiche e bibliografiche dove, in alcune occasioni, si sono approfonditi vari argomenti e segnalata la novità delle posizioni lovecraftiane: tutte quelle anonime sono dei curatori, mentre quelle del bravissimo traduttore sono siglate (N.d.T.) e le poche di Lovecraft indicate come tali. Si sono aggiunti vari a capo per facilitare la lettura.

    Certo, molto è stato sacrificato. Più volte abbiamo dovuto, per non aumentare eccessivamente la mole del volume, calare con rincrescimento la scure su testi significativi: ma era impossibile fare altrimenti. Lasciamo ai lettori il giudizio sull’efficacia del nostro lavoro, il primo veramente organico, ci piace sottolinearlo, dedicato alla vertiginosa Weltanschauung di Howard Phillips Lovecraft.

    Gianfranco de Turris

    Sebastiano Fusco

    Roma, febbraio 2007

    1. A Maurice W. Moe

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    598 Angell Street, Providence, R.I.

    1° gennaio 1915

    Caro signor Moe¹,

    […] I Lovecraft erano una famiglia della piccola nobiltà rurale del Devonshire². […] Il mio nonno paterno George (che non ho mai conosciuto), emigrò a Rochester nello Stato di New York, nella prima metà del secolo diciannovesimo³. Successivamente, si trasferì a Mount Vernon, N.Y.⁴ e sposò Helen⁵, figlia del signor Lancelot Allgood, altro immigrato inglese: la sua famiglia possiede ancora un antico maniero a Nunwick, vicino ad Hexham, nel Northumberland. La loro unione fu benedetta dall’arrivo di tre bambini: Emma⁶, attualmente consorte del signor Isaac Hill, preside del liceo di Pelham, N.Y.; Mary⁷; e Winfield, padre di chi le scrive. Mio padre ricevette educazione privata, poi frequentò una scuola militare⁸, specializzandosi in lingue moderne.

    Riguardo ai miei antenati della linea materna, da cui deriva il mio middle name, siamo di fronte a un tipico lignaggio yankee del New England. Il primo Phillips di questo ramo arrivò nel Rhode Island proveniente dal Lincolnshire⁹ alla fine del diciassettesimo secolo, stabilendosi nella regione occidentale della colonia, dove in seguito sarebbe stata fondata la città di Foster¹⁰. Il mio bisnonno, Jeremiah Phillips¹¹, possedeva uno dei primi mulini ad acqua di Foster: tragicamente, rimase ucciso tra le sue pale quando era ancora giovane, lasciando orfano mio nonno Whipple, che aveva soltanto tredici anni. Mio nonno¹² studiò presso la East Greenwich Academy (che all’epoca si chiamava The Providence Conference Seminar) e dopo una breve carriera d’insegnante nelle scuole rurali sposò sua cugina, la signorina Rhoby Place¹³. In seguito, costruì un mulino e si stabilì a Greene, nel Rhode Island: fu mio nonno a dare il nome al villaggio, perché possedeva tutto il territorio all’intorno (in precedenza la località era chiamata Coffin’s Corner¹⁴.

    I figli di Whipple e Rhoby Phillips sono Lillian D., oggi consorte del dottor Franklin C. Clark di Providence; Sarah S., genitrice del sottoscritto; Edwin E.¹⁵; e Annie, consorte del signor Edward Gamwell, co-direttore del Boston Budget and Beacon. Mia madre e mia zia Lillian hanno entrambe studiato al Wheaton Seminary di Norton nel Massachusetts e dipingono splendidi paesaggi a olio. Mia zia Lillian ha frequentato anche la Normal School statale, poi per qualche tempo si è dedicata all’insegnamento. Nel 1873 mio nonno cedette la proprietà e liquidò gli interessi che aveva a Greene, per trasferirsi a Providence ed entrare nel settore immobiliare. All’epoca della sua morte, nel 1904, era presidente della Owyhee Land and Irrigation Co., una società dell’Idaho.

    Sarah Susan Phillips e Winfield Scott Lovecraft si sposarono il 12 giugno 1889; il 20 agosto 1890 nacque il loro unico figlio, Howard Phillips Lovecraft, nella dimora dei Phillips al numero 454 di Angell Street, a Providence. Poco tempo dopo i Lovecraft si trasferirono a Auburndale, nel Massachusetts. […]

    Nel 1893 mio padre subì un attacco di paresi generale, causato dall’insonnia e dal logorio del sistema nervoso, che lo costrinse in ospedale per gli ultimi cinque anni che gli restavano da vivere. In seguito all’attacco non riprese mai più coscienza e il ricordo che ho di lui è piuttosto vago¹⁶. Naturalmente questo evento sconvolse tutti i progetti della mia famiglia per il futuro, causò la vendita della casa di Auburndale e il ritorno mio e di mia madre nella casa dei Phillips a Providence. È lì che ho trascorso gli anni migliori della mia infanzia: era una dimora bella e spaziosa, con la scuderia per i cavalli e un ampio giardino. Quest’ultimo era in effetti quasi un parco, tanta era la bellezza degli alberi e dei sentieri.

    Sono stato un bambino molto particolare e sensibile, che preferiva la compagnia degli adulti a quella dei coetanei. Non riuscivo a tenermi lontano da qualunque parola stampata su carta. Imparai l’alfabeto a due anni e a quattro leggevo senza difficoltà, pur commettendo assurdi errori di pronunzia nelle parole più lunghe, che amavo in particolar modo. A cinque anni aggiunsi l’uso della penna al novero delle mie virtù. Fra i pochi coetanei che frequentavo ero impopolarissimo, perché nei giochi insistevo nel voler riprodurre fatti storici, o nel voler seguire trame ben definite. Perciò, respinto dagli esseri umani, cercai rifugio e comprensione nei libri, e in ciò fui doppiamente fortunato: la biblioteca familiare accoglieva infatti i migliori volumi acquisiti tanto dai Phillips che dai Lovecraft, e includeva tomi antichi più di un secolo che portavano sui risguardi iscrizioni come Tho. Lovecraft, Gent. Questo libro fu suo, 1787, o Libro di Stephen Place, da lui acquistato a Boston, nel Maggio 1805.

    La mia nonna materna, che morì quando avevo sei anni, era una grande appassionata d’astronomia, disciplina in cui si era specializzata al Lapham Seminary, dove aveva compiuto i suoi studi; e pur se non mi mostrò mai personalmente le meraviglie del cielo, è alla sua eccellente sebbene ormai obsoleta collezione di testi astronomici che devo la mia predilezione per la scienza celeste. La sua copia di Geography of the Heavens è oggi il pezzo più pregiato della mia biblioteca¹⁷.

    Le Fiabe dei Grimm fecero la mia gioia fino all’età di sette anni, quando per caso m’imbattei nel Wonder Book e nei Tanglewood Tales di Hawthorne¹⁸. Fu in quel momento che ebbe inizio la mia perdurante passione per la mitologia classica, subito alimentata dalla lettura dell’Age of Fable di Bulfinch¹⁹. Tutto il mondo si ridusse allora per me all’antica Grecia: spiavo le Naiadi presso la fonte nel giardino, ed evitavo di calpestare gli arbusti per paura di turbare le Driadi. I miei tentativi di scrivere poesia, che s’erano iniziati quando avevo sei anni, assunsero un rudimentale metro da ballata a rima interna: cantavo le imprese di dèi ed eroi. […] In quel periodo provai a frequentare la scuola, ma non fui in grado di sopportarne la routine.

    Ovviamente, le citazioni incluse nel testo di Bulfinch mi spinsero a leggere i classici in traduzione, e in particolare quel meraviglioso mosaico letterario conosciuto come Garth’s Ovid²⁰. Si tratta, com’è noto, di una versione lirica dell’opera ovidiana in distici eroici. Dryden e Addison ne fornirono le parti migliori. Il ritmo regolare del decasillabo sembrava toccare una corda particolarmente sensibile nella mia mente, così mi votai a quel metro nel comporre la maggior parte dei miei successivi sforzi poetici. Cercavo tutto il materiale disponibile che concernesse il periodo aureo dei traduttori di classici. I libri che leggevo non erano edizioni contemporanee, ma antichi volumi coperti di muffa che riportavano le esse lunghe dell’antica grafia. Per una qualche forma di ossessione infantile, cominciai a usare io stesso la esse lunga e a retrodatare di due secoli qualunque cosa scrivessi: mi firmavo H. Lovecraft, Gent., 1698, ecc. Imparai il latino con una certa facilità e in altri studi fui molto aiutato da mia madre, dalle zie e dal nonno. È proprio a quest’ultimo che devo molto: aveva viaggiato a lungo in Europa, e mi deliziava con i suoi racconti di Londra, Parigi, Roma. La sua toccante descrizione delle rovine di Pompei m’impressionò moltissimo, perché avevo sempre amato fantasticare sulle grandezze del passato.

    All’età di dieci anni decisi di eliminare dal mio lessico qualsiasi parola moderna e adottai a questo scopo un vecchio dizionario Walker (1804), che rimase per qualche tempo la mia sola autorità in materia. Tutti gli autori dell’epoca della regina Anna²¹ costituirono l’oggetto dei miei studi letterari. In quel periodo nacque inoltre il mio interesse per la chimica, e allestii un laboratorio in cantina. In seguito, sarei diventato piuttosto esperto nell’analisi chimica delle particelle elementari. A dodici anni il mio stile, tanto in prosa che in versi, era già così ben delineato che penso le sia riconoscibile, dopo aver letto le mie opere più recenti.

    Nel 1902 tentai nuovamente di frequentare la scuola, questa volta con miglior successo: infatti riuscii a completare il primo ciclo di studi. Nel gennaio 1903 l’astronomia cominciò ad assorbirmi totalmente: ottenni un piccolo telescopio e cominciai la regolare osservazione dei cieli. Non trascorreva una sola notte serena senza che mi ci dedicassi, e le conoscenze empiriche, di prima mano, che acquisii in questo modo mi sono state da allora di enorme utilità nella stesura dei miei articoli di astronomia. Nell’agosto 1903 (sebbene non sapessi nulla delle associazioni di giornalisti dilettanti) diedi inizio alla pubblicazione di un mio periodico amatoriale intitolato The R.I. Journal of Astronomy: lo scrivevo a mano e lo riproducevo con un ettografo²². Continuai la pubblicazione per quattro anni, inizialmente con cadenza settimanale, poi mensile. All’epoca ero stato affidato a un istruttore privato.

    I miei due zii acquisiti, il dottor Clark e il signor Gamwell²³, hanno entrambi studiato alla Brown University e mi hanno incoraggiato moltissimo nella mia attività intellettuale. Il dottor Clark²⁴ è un medico e uno studioso molto apprezzato: i suoi articoli sono apparsi su numerose riviste di medicina. Il signor Gamwell²⁵ è un giornalista, persona di grande cultura e profonda erudizione.

    Nel 1904 la scomparsa del mio amato nonno materno provocò la dispersione della famiglia che abitava al 454 di Angell Street: io e mia madre ci trasferimmo nel piccolo appartamento dove abitiamo ancora oggi, al numero 598 della stessa strada. Qui feci una conoscenza più approfondita del reverendo James Pyke e della sua anziana madre, poeti entrambi, che conoscevamo da sempre ma che adesso erano diventati i nostri vicini. Il signor Pyke non approvava il mio stile arcaico, ma riconosceva che solo con difficoltà avrei potuto rinunciare a un modo di esprimermi che mi riusciva così spontaneo e naturale.

    Quello stesso anno m’iscrissi al liceo presso la Hope Street High School, dove trovai un gruppo di insegnanti comprensivi, ciascuno disposto a provare la più profonda simpatia e indulgenza verso un ragazzo goffo, irritabile e riservato. Per un anno e mezzo seguii regolarmente l’intero programma, ma poi la salute cagionevole mi costrinse ad assentarmi da scuola per lunghi periodi e ad affidarmi a un corso speciale, ideato con notevole sagacia pedagogica. Mi appassionai soprattutto al latino, alla storia antica, alla fisica e alla chimica.

    Nel frattempo (1906) avevo esordito sulla carta stampata. Il mio primo testo pubblicato fu un breve attacco all’astrologia, simile ai miei recenti scritti sull’argomento, e apparve su The Providence Sunday Journal. Nell’agosto del 1906 iniziai a scrivere una serie di articoli mensili di argomento astronomico per The Providence Tribune e a pubblicare pezzi di argomento vario su The Pawtuxet Valley Gleaner, un periodico rurale che la famiglia di mia madre acquistava in passato, quando viveva a Greene. In seguito, spostai i miei articoli mensili da The Tribune a The News (dove trovavano più spazio), ma fui privato dell’altra possibilità di pubblicazione perché il giornale fallì e venne chiuso²⁶.

    Nel 1908 mi sarei dovuto iscrivere alla Brown University, ma il mio precario stato di salute rese assurda l’idea. Ero e sono tuttora soggetto a terribili mal di testa, insonnia e a una generale instabilità nervosa che m’impedisce di dedicarmi a qualunque cosa con continuità. Per un po’ ho seguito un corso di chimica per corrispondenza, tuttavia mi sono presto reso conto che le attività da svolgere con regolarità non fanno per me. […]

    Sebbene mi piaccia ascoltare la musica, non possiedo un vero e proprio gusto musicale; ho studiato violino per due anni, ma non riuscivo a sopportare la monotonia degli esercizi. Non sono assolutamente portato per le arti visive. Possiedo appena qualche rudimento della lingua greca, e di francese non so molto di più. Il tedesco mi disgustò al punto che non ne conosco nemmeno una parola. Le poche parole di spagnolo che ho imparato non sono nulla d’importante, anche se adoro la solenne pronuncia castigliana. Detesto la matematica, e fu solo grazie a un supremo sforzo di volontà se a scuola riuscii a riportare il massimo dei voti in algebra e geometria.

    In ogni cosa sono indietro rispetto ai tempi. Non so nulla di letteratura e teatro contemporanei, e lo stesso vale per le teorie politiche e sociali. Ancora oggi non riesco a giustificare la rivoluzione con cui l’America si è divisa dall’Inghilterra, e nonostante sia americano per nascita l’influsso del mio passato mi porta a sentirmi inglese nel cuore.

    L’esperienza che ho del mondo è quella che ci si può aspettare da un individuo cresciuto nella reclusione: non mi sono mai spinto al di fuori dei tre Stati del Rhode Island, del Massachusetts e del Connecticut! […]

    Rimango, come sempre,

    Suo obblig. servit.

    H.P. Lovecraft

    2. A Maurice W. Moe

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    598 Angell Street, Providence, R.I.

    16 gennaio 1915

    Caro signor Moe,

    […] Le mie opinioni in materia religiosa probabilmente la sorprenderanno, se mi ha immaginato come un devoto della chiesa anglicana. Mio padre lo

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