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Il Tallone di ferro
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E-book368 pagine5 ore

Il Tallone di ferro

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Info su questo ebook

Saggio introduttivo sull’autore di Mario Picchi
Introduzione all’opera di Walter Mauro
Traduzione di Daniela Paladini
Edizione integrale

Racconta una leggenda politica e civile che Ernesto “Che” Guevara debba il suo nome di battesimo a Ernest Everhard, epico protagonista de Il Tallone di ferro. È un romanzo di fantapolitica: sette secoli dopo la sconfitta definitiva dell’opprimente sistema oligarchico (il “Tallone di ferro” del titolo, che schiaccia ogni velleità di giustizia sociale), viene ritrovato il manoscritto di Avis Cunningham. Figlia di un professore liberale, Avis è dapprima sorda alle idee rivoluzionarie di Ernest, poi ne è sedotta e conquistata, al punto da mettersi al suo fianco nel sostegno del nascente Partito Socialista Americano, al punto da combattere le battaglie degli oppressi, operai, metalmeccanici, studenti, contro le ingiustizie imposte dall’alto. Tanto più eroica e strenua è la battaglia, tanto più sarà drammatica la sconfitta da parte delle forze capitalistiche. L’espediente narrativo consente a London di esprimere fuori dai denti le proprie simpatie politiche, evitando al contempo ogni eventuale accusa di populismo facile e scontato, in virtù di una perizia del raccontare che alterna efficacemente l’azione romanzesca e l’istanza saggistica.

«La Rivoluzione assomigliava sempre di più a una religione. Noi ci prostravamo di fronte all’altare della Rivoluzione, che era l’altare della libertà. Il suo spirito divino ci illuminava. Uomini e donne consacravano la loro vita alla Causa e destinavano i loro nuovi nati alla Causa come un tempo si destinavano i figli al servizio di Dio. Eravamo gli adoratori dell’Umanità.»


Jack London

pseudonimo di John Griffith Chaney, nacque nel 1876 a San Francisco. Viaggiò moltissimo ed esercitò i più svariati mestieri, da mozzo a cacciatore di foche, a lustrascarpe a commerciante. Riuscì tuttavia, da autodidatta, a crearsi una solida cultura con lo studio disordinato dei grandi autori europei. La lettura di Marx, il contatto con i vagabondi americani, la sua stessa vita spesso miserabile lo spinsero verso un socialismo istintivo. Esordì come scrittore pubblicando i suoi racconti su periodici locali. Morì, forse suicida, nel 1916. Di Jack London la Newton Compton ha pubblicato in questa collana Il richiamo della foresta, Zanna Bianca e altre storie di cani; Il Tallone di ferro; Il lupo dei mari e Racconti della pattuglia guardiapesca, Martin Eden e nella collana “I Mammut” I grandi romanzi e i racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138650
Il Tallone di ferro
Autore

Jack London

Jack London was born in San Francisco in 1876, and was a prolific and successful writer until his death in 1916. During his lifetime he wrote novels, short stories and essays, and is best known for ‘The Call of the Wild’ and ‘White Fang’.

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    Anteprima del libro

    Il Tallone di ferro - Jack London

    318

    Titolo originale: The Iron Heel

    Traduzione di Daniela Paladini

    Prima edizione ebook: gennaio 2012

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3865-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Jack London

    Il Tallone di ferro

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Saggio introduttivo

    I.

    Amatissimo in Italia fin dal decennio successivo alla morte, Jack London è ancora vittima del mito che lo accompagnò in vita, un mito diffuso da lui stesso e poi dai suoi (moglie e figlia che ne scrissero la biografia), che si è sempre sovrapposto al suo volto impedendo di distinguere i suoi veri lineamenti da quelli dell’eroe emergente dalle pagine dei suoi libri. Quel biondo eroe che sfida il mondo intero, che sopporta durezze d’ogni specie dagli uomini e dalla natura, quella specie di Cristo verniciato da superuomo alla Nietzsche, che fa il pugile, il cercatore d’oro, il marinaio, l’ubriacone, sempre sconfitto e sempre trionfante grazie al suo indomito nucleo di purezza primigenia, in Italia lo abbiamo cominciato a conoscere a metà degli anni Venti, quando il fascismo, sepolto Matteotti, stava consolidando il suo potere. Eppure Jack London, il più popolare e meglio pagato scrittore americano del primo quindicennio del secolo, era, o voleva essere, un rivoluzionario, un autentico socialista marxista. Ma al fascismo andava bene il propagandista di Nietzsche, il narratore della violenza, il poeta delle solitudini selvagge e incontaminate.

    Le case editrici se lo disputavano, pubblicavano contemporaneamente le sue opere, la Sonzogno e la Barion («casa per edizioni popolari») avevano i cataloghi colmi non solo di II richiamo della foresta, Zanna bianca, Il lupo dei mari, Martin Eden, ma anche di cose melodrammatiche e sentimentali come La piccola signora della grande casa. Quando il fascismo finì, i comunisti Editori Riuniti e la Feltrinelli non fecero altro che spostare l’attenzione sulle opere di denuncia sociale, come Il tallone di ferro, romanzo-profezia sulla lotta di classe, e Il popolo dell’abisso, inchiesta sui cinquecentomila diseredati degli slums di Londra. Del resto, in qualunque paese si volesse far credere che c’era una rivoluzione, si leggeva London, proprio lui che nelle sue lettere si firmava «vostro per la rivoluzione»; proprio lui di cui negli anni Quaranta, prima della caccia alle streghe, un critico non sospetto come Alfred Kazin, disse che in America «fu il prototipo, se mai ve ne fu uno, dell’intellettuale fascista adoratore della violenza». Come penetrazione, non c’è davvero male.

    Il London che abbiamo conosciuto in Italia fu colui che, assai prima degli Hemingway, dei Faulkner, degli Steinbeck, ci portò un gran soffio di freschezza dal nuovo mondo, un’insolita visione della vita, un’ansia di vagabondare dovunque, per terra e per mare; colui che scriveva libri intitolati The Road (La strada) e che teneva conferenze su uno dei suoi argomenti favoriti, «the Tramp», ossia il vagabondo; colui che, figlio illegittimo d’un astrologo ambulante, fu ladro di ostriche nei vivai della baia di San Francisco, marinaio a diciassette anni, studente, cercatore d’oro, vero eroe romantico da strada, dedito a ogni sregolatezza ma grandissimo lavoratore (cinquantuno volumi in sedici anni, dall’inizio del secolo alla morte, avvenuta nel 1916, in sospetto fra malattia e suicidio), giornalista straordinario, che seguì da inviato speciale la guerra russo-giapponese del 1904 e scrisse nel 1906 un memorabile resoconto del terremoto di San Francisco; colui che, confusamente imbevuto di darwinismo, di imperialismo alla Kipling, di naturalismo e di superuomismo, si identificò da vivo con la spinta progressista impressa alla vita americana dei primi anni del secolo da Theodore Roosevelt e diventò da morto preda di tutte le ideologie; colui infine che Trotskij giudicò con tanta simpatia, che Upton Sinclair, suo amico e compagno di strada, definì «una delle grandi figure rivoluzionarie della storia americana».

    II.

    Vi sono strane coincidenze in talune circostanze della vita e del destino di due scrittori apparentemente così diversi quanto Jack London e Guy de Maupassant. C’è intanto un elemento che li collega, per cui vale la pena di arrischiare un piccolo esperimento di letteratura comparata; ed è questo: ambedue popolarissimi in vita e dopo, non godono dei favori della critica secondo i loro meriti e sono spesso snobbati anche dai loro colleghi scrittori, restando poi veri oggetti di culto per gli altri che non possono non esser soggiogati dalla maestria e dalla verità artistica, oltre che dalla potenza, di molte loro rappresentazioni.

    Maupassant, ammiratissimo da To1stoj e Proust, non lo fu invece dal supercilioso André Gide che lo definì «operaio delle lettere», da Albert Camus, da Paul Claudel e da tanti altri più letterati che artisti, mentre un grande narratore come Georges Simenon lo poneva davanti a Victor Hugo e a Emile Zola. La prestigiosa collezione dell’editore Gallimard, «La Plèiade», che insieme ai grandi classici ha accolto tante mediocrità, non ha incluso Maupassant che a partire dal 1975.

    Quanto a London, tranne qualche eccezione, egli è stato ignorato, bistrattato, o considerato con sufficienza dalla critica ufficiale americana. Per fare un esempio illustre, Alfred Kazin, nella sua storia d’un cinquantennio di letteratura americana¹ si chiede, alla fine delle poche pagine dedicate a London:

    Fu London lo scrittore veramente grande quale alcuni lo ritengono, fu un talento possente nato fuori tempo, o fu uno di quegli artisti secondari la cui opera, grazie alla ricchezzavdella loro esperienza personale, dà solo una falsa impressione di arte? È difficile dirlo. Forse [...] egli sarà ricordato come uno degli ultimi avventurieri del West, come romanziere «pioniere del socialismo», [..] come amico di tutti quei ragazzi che vorrebbero scappare di casa.

    Il tono sussiegoso e benevolo di Kazin, la sua retorica domanda, che può essere applicata a qualsiasi scrittore o artista o anche a qualsiasi persona che per un merito o l’altro abbia acquistato un certo rilievo e sia quindi oggetto di ammirazione e denigrazione («visto da destra o da sinistra»: si può fare anche con Dante o con Garibaldi), non bastano a nascondere una realtà indiscutibile: che London, se non piace a certa critica, piace al pubblico; e come il suo connazionale Edgar Allan Poe e come il francese Guy de Maupassant, il suo vero pubblico non è quello della sua nazione, dove l’establishment culturale deve seguire le regole, ma del mondo intero, poiché con la sua opera egli tocca corde, chiamiamole pure primordiali, che risuonano nel cuore d’ogni uomo: la vita, la morte, l’amore, la paura, l’orrore, in rappresentazioni dirette e possenti.

    Tornando a London-Maupassant, dopo avere notato somiglianze nella loro vicenda come la vita breve (quarant’anni il primo, quarantatré il secondo), il faticoso apprendistato, la gloria repentina, la produzione a getto continuo, l’amore dell’acqua, la vigorosa vita sessuale - somiglianze che, seppure in numero tale, da uscire dalla semplice casualità, potrebbero comunque esser considerate coincidenze - si deve dire che la loro parentela forse più vistosa è nella visione del mondo. Diversa, ma non tanto, nell’uno e nell’altro, la loro Weltanschauung è a tinte forti e nette e risulta da esperienze personali spesso traumatiche su cui si sovrappongono, a guisa di corazza protettiva, cognizioni filosofico-scientifiche a formare una specie di sistema. Il quale, proprio per essere così personale, non ha né può avere altro valore se non di motivo propulsore e, in parte, di struttura portante che però non si deve scorgere, né deve soverchiare la materia narrativa, ma far tutt’uno con essa. Il torto dei critici è stato, nel caso di London, di prendere alla lettera certe affermazioni, senza considerare che esse, come spessissimo le professioni di fede (di ogni specie) hanno soprattutto un valore psicologico.

    Anche con Maupassant i critici si sono divertiti a rilevare una semplicità di pensiero che sa di semplicismo: scetticismo che copre mancanza d’amore, ammantato in seguito dalle geniali crudezze di Arthur Schopenhauer, adoratore e spregiatore della vita, e dalla filosofia evoluzionista di Herbert Spencer. Ma sbaglierebbe chi volesse giudicare in sé e per sé pensieri che non sono Pensiero.

    III.

    Nell’introduzione alla raccolta da lei curata di scritti e testimonianze su London², Jacqueline Tavernier-Courbin osserva, dopo avere chiamato in causa Ernest Hemingway:

    Mentre Hemingway è stato il beniamino dei critici letterari per mezzo secolo, London è stato da costoro spregiato e soltanto negli ultimi dieci o dodici anni [lo scritto è del 1983] alcuni studiosi hanno cercato di rivalutare seriamente la sua opera. Ed è sempre una sorpresa per gli studiosi scoprire che, da quando ha raggiunto la fama, London è stato il più venduto scrittore americano nel mondo, che le sue opere sono state tradotte in 68 lingue, che i suoi 50 libri sono fra i più venduti classici da 75 anni, che le vendite mondiali di libri come Il richiamo della foresta sono straordinarie (oltre 7 milioni di copie a partire dal 1903), e che si possono trovare collezioni delle sue opere complete nelle principali lingue (in Russia ve ne sono sette), mentre in inglese molti suoi libri non sono in commercio.

    Forse, si chiede la Tavernier-Courbin, «il motivo principale per cui London è stato accantonato sdegnosamente dalla critica letteraria del suo paese deve cercarsi nell’immagine mercenaria che egli ha dato di sé, proclamando a voce troppo alta che scriveva per denaro»: ma può bastare questo per giustificare un tale esilio? Anche con E. A. Poe è accaduto qualcosa di simile: per oltre un cinquantennio egli è stato messo al bando, e anche la sua fortuna successiva ne ha risentito, a causa della macchia gettata su di lui dal reverendo Rufus Griswold che costruì perfino falsificazioni per discreditarlo come uomo d’ingegno irregolare dedito all’alcolismo.

    Ma una cosa è l’alcolismo, in particolare nella società americana dell’Ottocento, una cosa è il guadagno, sacro nume il cui culto non è mai venuto meno negli Usa. Avrà contato, sì, l’averlo proclamato con tanta sicurezza e quasi con sfida; ma devono anche esserci altri motivi. E sono, probabilmente, insieme con la fede nel denaro, quella nel socialismo e le ripetute lezioni di vita e di filosofia che London si credeva in diritto di impartire continuamente a chiunque, perfino al presidente Theodore Roosevelt.

    Irruento, litigioso, assiomatico, ripetitivo, lo scrittore potrà anche avere urtato coi suoi vertiginosi guadagni (settantamila dollari l’anno erano la media: una somma enorme sperperata rapidamente), l’irritabile genus dei critici; ma è anche scritto nel destino di coloro che salgono troppo in alto nei cieli della fama e della ricchezza di subire dopo morti la vendetta dei posteri. Certo è che London non si seppe amministrare come Hemingway, tanto per citarne uno, fece troppo di tutto, incarnando generosamente nella sua vita ribelle e sfrenata l’ideale romantico mai compiutamente realizzato da nessuno scrittore americano. Ma, se nel troppo è la sua misura si deve dire che per pochi, come per lui, la lettura dell’opera completa (o quasi) può dare la misura della sua qualità. Egli certo non poté, su cinquanta libri, scrivere cinquanta capolavori. Eppure, nonostante il ritmo frenetico della sua produzione, i capolavori di London sono parecchi, anche quando, premuto dal pubblico, cede alla vena sentimentale. Hemingway, che pure incarnò nella vita e nell’opera il mito dello scrittore d’azione (assai meno genuino di London), parlò meno, scrisse meno, si amministrò meglio: ma a percorrere oggi la sua opera si torna con le braccia quasi vuote e col cuore quasi freddo.

    L’errore della critica bigotta americana è stato di avere preso alla lettera le affermazioni di London: quando proclamava il suo socialismo contraddicendolo poi con l’individualismo anche esagerato della vita e dell’opera; quando si atteggiava a filosofo, a sociologo, a propagatore di dottrine già esaurite o in via di ridefinizione. Con un certo tono di sufficienza, in un recentissimo libro dal titolo significativo, Dante reazionario³, Edoardo Sanguineti rimprovera al nostro massimo poeta di non essere andato con la mente oltre il suo tempo. Come quelle riguardanti London, sono affermazioni più che altro retoriche (oltre che inservibili) le quali si ritorcono contro chi le fa. Eppure si seguitano a fare.

    IV.

    Lo scrittore inglese Andrew Sinclair, che è forse il miglior biografo di London⁴, scrive a proposito della sua «personale visione del socialismo»:

    Jack credeva in un socialismo evoluzionista e rivoluzionario. Voleva che un’aristocrazia (bianca) dell’intelletto si assumesse il governo dello stato per il bene comune. [...] Jack era socialista soprattutto quand’era depresso e assillato dagli incubi. La teoria del socialismo proteggeva i deboli e i diseredati. Sembrava un buon sistema per garantire a tanta gente un lavoro e un nutrimento migliore. [...] Quando si sentì più fiducioso asserì che la sopravvivenza dell’individuo e della razza determinavano tutto il comportamento umano⁵.

    Ma, per biasimevole che fosse sul piano teorico e anche su quello della coerenza, da una critica tanto più agguerrita di lui, tutto questo gran discorrere e arzigogolare per puri scopi personali serviva soprattutto a due scopi: il primo, assicurare saldezze alla sua fragile interiorità, il secondo, a dargli slancio e grinta. Ancora Sinclair:

    La sua convinzione pessimista, la sua considerazione dello spirito umano in lotta contro forze inesorabili, gli conferiva tutta la sua potenza di pensatore e di scrittore⁶.

    In una lettera del 17 aprile 1899, appena emerso da quella specie di lungo incubo che fu la sua adolescenza e giovinezza, London scriveva:

    Siamo marionette cieche in balia di grandi forze irragionevoli; forze che generano l’altruismo nell’uomo. La razza che possiede il più elevato altruismo durerà; ma il più elevato altruismo va osservato dal punto di vista d’una impietosa legge naturale. [...] Le razze minori non possono resistere. [...] Non posso fare a meno di proclamare inevitabile la fine del nero e del bruno prima del bianco⁷.

    Sulla base di queste affermazioni London è stato condannato come fascista, nazista e peggio. E d’altronde, l’enorme diffusione della sua opera nei paesi socialisti non si deve, più che agli inesistenti meriti del «compagno di strada» Jack London al bisogno di quei paesi di costruirsi alibi e alleati dovunque? Per gli stessi falsi motivi per cui London fu scartato in patria fu accettato in Urss e nei satelliti. Sarebbe bastato uno sguardo appena serio e attento dall’una e dall’altra parte per capire la radice del socialismo di London e di tanto suo teorizzare e tenerne il debito conto. Ma dall’una e dall’altra parte faceva troppo comodo non tenerne conto.

    Diversi ma simili, London e Maupassant, ambedue colpiti da un male oscuro sofferto, subito dopo la nascita, lungo tutta l’infanzia e oltre, - la mancanza d’amore materno e paterno, - cercarono di medicare la loro incurabile ferita in tanti modi ma specialmente isolandolo ed ergendogli intorno muraglie di teorie apparentemente incrollabili e pronte a dissolversi alla minima bufera emotiva. Dopo la morte, quelle ferite che hanno fatto di loro i poeti del positivismo, sono divenute splendide perle in cui il dolore si è mutato in oggetto di bellezza. Eppure quei due pensatori sbagliati, proprio per essere soprattutto poeti, con la loro anima denudata sulla carta, possedevano facoltà profetiche che i professionisti del pensiero, necessariamente di corte vedute, non avranno mai. Tanto per restare a London, The Iron Heel (Il tallone di ferro) proibito in Italia durante il fascismo e dopo limitato a una lettura fuori del contesto culturale e finalizzata a interessi di partito, pur teoricamente sballato è vero d’una intuizione che nasce dall’esperienza proletaria di Jack nei bassifondi di Oakland e poi sulla strada e sul mare - intuizione che è stata confermata dalla significativa «rivoluzione» scoppiata nell’aprile-maggio 1992 a Los Angeles⁸, in un contesto che ricorda «la giungla moderna» in cui s’è trasformata la megalopoli Chicago nel romanzo londoniano, vista come l’anticamera dell’inferno. E un altro racconto del 1901, Il favorito di Mida (The Minions of Midas) che altro non è se non una prefigurazione, allora quasi imprevedibile oggi tanto più vicina, d’un avvenire di cui le gesta di terroristi come le Brigate rosse in Italia e la Rote Armee Fraktion in Germania, negli anni Settanta, non sono state che una rozza anticipazione? Il racconto di Hemingway, assai più famoso del suo valore, Gli assassini, che narra di due sicari in attesa della loro vittima in un bar notturno, ormai sbiadito dopo che tante sequenze cinematografiche gli si sono sovrapposte, non possiede più in nessuna sua parte la forza d’urto che - oggi - ci colpisce leggendo nel Favorito di Mida frasi come questa, nella quale gli assassini sociali di London si autodefiniscono.

    Siamo l’inevitabile. Siamo il culmine dell’errore industriale e sociale. Ci rivoltiamo contro la società che ci ha creato. Siamo l’insuccesso riuscito dell’epoca, le sferze d’una civiltà degradata. Siamo i figli d’una selezione sociale perversa. Rispondiamo con la forza alla forza. [...] Nella presente situazione sociale, chi di noi sopravviverà? Crediamo di essere i migliori.

    V.

    Prima ancora che dall’ingiustizia sociale, l’individualità del giovane London era stata colpita dall’ingiustizia personale. Come e più del suo confratello francese Maupassant egli sofferse nell’infanzia e poi retrospettivamente della mancanza della figura paterna. Guy la sostituì, tardi, con quella del suo padrino e tutore letterario Gustave Flaubert; Jack fece lo stesso col suo buon patrigno John, che gli diede nome e cognome e fu anche suo compagno di pesca ma non bastò: certe ferite, in certe anime, non guariscono mai. Da ragazzo Jack confuse la fame d’amore con la fame di carne. La famiglia era povera, ma la carne non mancava, eppure lui voleva sempre più carne e a scuola arrivava a rubarla, dal cestino d’una compagna. Quando andò nel 1911 a seguire per Collier’s la rivoluzione Messicana si nutrì prevalentemente di carne cruda, e due anni dopo il medico dovette intimargli di interrompere tale abitudine. Uno dei suoi racconti più toccanti del ciclo della boxe, Un pezzo di bistecca, è angosciosamente centrato sul desiderio d’un vecchio pugile, prima dell’incontro, di mangiare finalmente un pezzo di carne e ricavarne la forza necessaria per vincere.

    Nel 1900, nel periodo in cui cominciava a pubblicare i primi racconti su riviste di vasta diffusione, Jack si fabbricò di sana pianta una falsa genealogia, affermando che John London era suo padre, che i suoi due genitori provenivano da famiglie giunte in America prima della rivoluzione, e addirittura che era possibile rintracciare quattro generazioni di ascendenti, nei quali si mischiavano sangui inglesi, gallesi, olandesi, svizzeri e tedeschi - tutti nordici di pelo biondo. A un certo punto si inserì in questa genealogia persino il sospetto d’un flusso di sangue reale. La leggenda creata da Jack London durante la sua vita e sostenuta, anche dopo la sua morte, dai suoi familiari (la moglie Charmian e la figlia Joan) e da amici veri o presunti tali, fu lunga da chiarire e diede origine a molti equivoci.

    L’opera narrativa di London è attraversata da strane figure maschili; accanto al superuomo che gli altri dicevano nietzschiano e che lui si affannava a proclamare in polemica con Nietzsche, compare un gigante alto, buono e forte, che di volta in volta prende i lineamenti di Malemute Kid, di Charley della Pattuglia guardiapesca, di Smoke Bellew, di David Grief dei Figli del sole: probabilmente una idealizzazione dell’uomo incontrato a Kansas City quando, diciottenne, dovette scontare un mese di prigione per vagabondaggio, e che fu il suo patrono e «protettore». Il padre vero e proprio, quell’ignoto che lo abbandonò prima ancora di nascere, gravando poi con tutta la sua forza malefica su tutta la sua vita, lo troviamo invece nei lineamenti del crudele e assurdo dominatore d’una ciurma di incapaci qual è Il lupo dei mari (su cui si veda la nota introduttiva al quarto volume).

    VI.

    Disordine e rigenerazione: i due poli intorno a cui oscillò con alterna vicenda la vita fisica e psichica di Jack London. Il primo era la follia dell’alcol, già cominciata all’età di sette anni e proseguita quasi senza intermittenze, con apici come quello della crisi fra il 1911 e il ’12 (quando già era cominciata l’inarrestabile decadenza psico-fisica) a cui si aggiunse poi, sotto forma di medicina-sollievo, la droga, che gli toglieva ogni dolore dal corpo e dall’anima, da quel corpo tanto idoleggiato nei momenti magici e che tanto crudelmente si ammalava, portandogli sofferenze indicibili. Il secondo era il ripristino della primigenia purezza, simboleggiata dal culto dell’amore e della terra, dai tentativi che egli compì di riconquistare l’amore delle figlie nate dal primo matrimonio e di diventare proprietario di terre e allevatore di bestiame. Prigioniero del suo mito di scrittore del coraggio e dell’amore della vita, cercò di non discostarsene coi suoi scatti di energia, con la sua prodigiosa capacità lavorativa che gli consentì di mantenere un ritmo di produzione elevatissimo pur in mezzo ad agonie d’ogni specie. La cronaca dei suoi ultimi tre o quattro anni è una lotta continua per dare equilibrio (quella che lui chiamava la Logica Bianca) agli estremi del suo carattere e nello stesso tempo rispettare gli impegni assunti quale personalità pubblica di grande rilievo, seguita dalla stampa in ogni momento della giornata.

    Morto lui, spento il grande fascino della sua personalità che dava unità e coerenza a una produzione tanto vasta quanto eterogenea, scomparso quel colosso che aveva dominato il principio del secolo coi suoi sogni e con la sua sete di avventure, quei cinquanta volumi, quale più quale meno, seguitarono ad andare per il mondo come a nessun altro scrittore americano era mai accaduto, mentre la marea della reazione, in patria, cominciò ad appiattire la sua figura per sommergerla: e la critica newyorchese ebbe facile gioco a disfarsi d’una ideologia fondata su un superato darwinismo oppure su una specie di razzismo apocalittico, per di più d’uno scrittore californiano...

    Nella sua biografia, Andrew Sinclair così riassume l’effetto di London sulla letteratura americana, dopo la sua morte:

    Jack aveva creato l’immagine dell’eroico scrittore macho, il quale visse i suoi romanzi e fece della sua vita un romanzo. Si comportò come il Grande Romanziere Americano, anche se non aveva scritto il Grande Romanzo Americano. Quelli che seguirono il suo modo drammatico di vita e la sua maniera di scrivere nervosa e disadorna, come Ernest Hemingway, dimenticarono di attribuirgli il merito d’avere inventato uno stile che aveva più contatti con l’Alaska di London che con la Parigi di Gertrude Stein. Jack ricevette anche pochi ringraziamenti da John Dos Passos o da Steinbeck o Kerouac per avere precorso il romanzo «vagabondo» con The Road. Norman Mailer non ha mai lodato lo scrittore che, con estrema immediatezza, ha preso il pugilato come argomento di alcune delle sue cose migliori di giornalista e scrittore. Soltanto in una lettera privata del 1916 Henry Miller ammise che non esisteva negli Stati Uniti un altro scrittore di uguale coraggio e infuocata energia; più tardi, in pubblico, Miller dimenticò questo elogio. Fra i principali scrittori della generazione successiva a London, soltanto Eugene O’Neill fu tanto gentile da riconoscere che egli era stato una delle principali fonti della sua ispirazione.

    Americano fino al midollo, persino nella patetica ricerca delle sue (nobili) origini, London resta ancor oggi, con Edgar A. Poe,

    il più universale degli scrittori americani, che mischia nella sua opera, con ugual potenza di energia e di speranza, la sua vita vera e idealizzata insieme con lo slancio per l’avvenire. Alla sua morte nel 1916 furono trovati fra le sue carte oltre duecentocinquanta progetti per il futuro, insieme con un racconto, The Red One (Il rosso), uscito nel 1918 su Cosmopolitan: l’ultima gemma della sua produzione, in cui i miti della sua vita di uomo e di artista sembrano sciogliersi in una sovrumana intuizione.

    Un esploratore trascina i suoi ultimi giorni in una delle isole Salomone, conteso fra un’orrenda (eppur femminilissima) donna e lo stregone che vuole impossessarsi della sua testa per affumicarla e farsene ornamento. Finirà per cedere allo stregone, purché gli sia concesso di morire davanti al «rosso», una grande sfera musicale giunta dallo spazio a portare il messaggio d’un’altra civiltà e diventata insieme totem e gong dei selvaggi che ne cavano, inconsapevoli, suoni d’indicibile bellezza, in cui si sentono «parlare gli arcangeli», si percepisce l’intelligenza «dei superuomini abitanti pianeti di altri soli», si ascolta la voce stessa di Dio.

    Così, alla fine della sua vita, London ha chiuso il cerchio: il suo superuomo, di cui ha inutilmente tentato d’essere l’incarnazione, è stato da lui stesso sostituito con la divina voce venuta di lontano.

    MARIO PICCHI

    ¹ On Native Grounds, trad. it. La nuova terra, Milano, Longanesi, 1970, II, p. 153.

    ² Critical Essays on Jack London, Boston, G.K. Hall, 1983, pp. 1-2.

    ³ Roma, Editori Riuniti, 1992.

    Jack, New Jork, Harper e Row, 1977.

    Jack, p. 33.

    Ibid.

    ⁷ Ivi, p. 34.

    ⁸ Dopo l’assoluzione di alcuni poliziotti che avevano ingiustamente picchiato un negro (episodio filmato da un testimone), nei quartieri popolari di Los Angeles sono scoppiati disordini di tale violenza da richiedere per giorni e giorni l’intervento dell’esercito.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA

    1876. 12 gennaio. A San Francisco (California) nasce John Griffith, figlio illegittimo dell’astrologo ambulante irlandese William H. Chaney e di Flora Wellman, cultrice di musica e spiritismo, di origine scozzese. Sette mesi prima del parto Flora aveva tentato due volte il suicidio, essendo stata scacciata dal suo convivente per avere rifiutato di abortire. 7 settembre. Flora sposa John London (conosciuto in una seduta spiritica), un vedovo che aveva avuto sette figli dal precedente matrimonio, di cui soltanto le due più piccole vivevano con lui. John London dà il suo nome al figlio di Flora, che sarà poi chiamato col diminutivo di Jack. La famiglia vive nella zona povera di San Francisco, ma comincia a spostarsi da una parte all’altra della baia per seguire John London che, dapprima muratore e falegname, fa successivamente il droghiere, l’ortolano, l’allevatore di polli. Jack cresce privo dell’affetto materno («non ho mai avuto infanzia», scriverà poi), ma curato dalla sua nutrice negra, Mammie Jenny, e dalla sorellastra Eliza, che ha nove anni più di lui. A sei anni sua madre Flora lo conduce a una seduta spiritica. Frequenta le scuole, come può, secondo i vari traslochi, ma è considerato un allievo difficile. Nel 1886, dopo un decennio di vagabondaggi e di fallimenti, John London torna a stabilirsi a Oakland, di fronte a San Francisco, dove Flora apre una pensione. 1886-89. Jack frequenta la Cole School dove si diploma nel 1889. Alla Oakland Public Library scopre il mondo dei libri e legge soprattutto narrazioni di viaggi e avventure ma la bibliotecaria Ina Coolbrith, poetessa, gli presta anche, dalla sua collezione privata, Anna Karenina e Madame Bovary. Intanto il ragazzo si dedica a mille piccoli lavoretti per contribuire alle spese familiari e raggranellare i due dollari per acquistare una barchetta con cui esplora in lungo e in largo la baia di San Francisco, sfogando la sua passione per il mare. 1890. Non ancora quindicenne Jack si dà alla piccola delinquenza, specialmente al saccheggio dei banchi di ostriche, beve, frequenta i bassifondi di Oakland facendosi coinvolgere in violente risse. Procurandosi non si sa bene come 300 dollari acquista uno sloop e diventa «il principe dei pirati di ostriche», arrivando a guadagnare fino a cento dollari per notte. Ma, dopo che la sua imbarcazione viene bruciata dai suoi rivali, Jack si ingaggia per un anno proprio nella squadriglia di scialuppe che combattono i pirati di ostriche (esperienza da cui nascono i racconti della Fish Patrol del 1905). Successivamente si dedica al vagabondaggio capeggiando, col soprannome di Frisco Kid (il ragazzo di San Francisco), una piccola banda con cui compie ruberie sui treni merci. 1893. 20 gennaio. Si arruola per una stagione di caccia alla foca nel mare di Bering e sulle coste del Giappone. Ispirato a questa vita e alla figura del capitano Alexander Mac Lean sarà il romanzo Il lupo dei mari (1904). 26 agosto. Ritornato a Oakland, ricomincia la ricerca di lavoro, passando dall’uno all’altro senza successo. 12 novembre. Col racconto Storia di un tifone al largo delle coste del Giappone vince un concorso indetto dal San Francisco Call: è la sua prima opera pubblicata. 1894. Dopo aver lavorato come fuochista, in aprile Jack si unisce a un piccolo esercito di disoccupati che con ogni mezzo si dirigono verso Washington per chiedere al presidente di finanziare un programma di lavori pubblici. Ma dopo un mese e mezzo abbandona la marcia e comincia a vagabondare per gli Stati Uniti, tenendo un diario dal quale uscirà poi The Road (1907). Alla fine di giugno, dopo aver visitato le cascate del Niagara, è arrestato per vagabondaggio a Buffalo e condannato a trenta giorni di prigione, dove per sopravvivere è costretto ad accettare la

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