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La Gorgone di Milano: La prima indagine dello speleologo Sirio Furlan
La Gorgone di Milano: La prima indagine dello speleologo Sirio Furlan
La Gorgone di Milano: La prima indagine dello speleologo Sirio Furlan
E-book450 pagine6 ore

La Gorgone di Milano: La prima indagine dello speleologo Sirio Furlan

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Info su questo ebook

Sirio Furlan, bibliotecario e speleologo milanese, classe 1963, da decenni esplora il vasto sottosuolo del capoluogo lombardo. Single impenitente, con un matrimonio alle spalle e figli ormai adulti, Furlan è considerato un esperto nel campo della speleologia in cavità artificiali. L’inaspettata richiesta da parte di Mons. Luigi Servidati, parroco della basilica di Sant’Eustorgio, di studiare alcuni dei sotterranei presenti al di sotto del complesso religioso, costringono Sirio ad un tuffo nel passato. Molti anni prima il precedente parroco, Mons. Egisto Pozzoni, lo aveva interpellato per lo stesso motivo, autorizzandolo a esplorarne solo una parte e impedendogli di smurare un misterioso cunicolo. Nel giro di pochi giorni lo speleologo si ritroverà, suo malgrado, ad indagare su di una serie di efferati omicidi e su misteri le cui radici affondano nella storia oscura e millenaria del quartiere del Ticinese. Percorrendo antichi cunicoli e gallerie dimenticate, calandosi in pozzi e cripte, Sirio giungerà a svelare inquietanti verità dietro le quali si cela il mistero della Gorgone.

Ippolito Edmondo Ferrario, milanese, classe 1976, è autore di numerosi saggi e romanzi editi da Ugo Mursia Editore, Fratelli Frilli Editori, Alberto Castelvecchi Editore, Newton Compton Editori. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Alla scoperta di Milano sotterranea (con Gianluca Padovan, Newton Compton Editori, 2018), Milano Esoterica (con Gianluca Padovan, Newton Compton Editori, 2015), Milano Sotterranea (con Gianluca Padovan, Newton Compton Editori, 2013). Per la Fratelli Frilli Editori ha pubblicato “Ultimo tango a Milano” (2018). “La gorgone di Milano” è il suo primo noir scritto a quattro mani con lo speleologo Gianluca Padovan.
Il suo sito personale è www.ippolitoedmondoferrario.it

Gianluca Padovan, classe 1959, veronese, è speleologo e fondatore dell’Associazione Speleologia Cavità Artificiali Milano (S.C.A.M.). Cofondatore della Federazione Nazionale Cavità Artificiali (F.N.C.A.) e condirettore della Collana “Hypogean Archaeology” della serie internazionale dei British Archeological Reports di Oxford ha promosso la nuova disciplina per lo studio e la documentazione delle opere ipogee. Ha scritto libri a carattere sia scientifico sia divulgativo pubblicando anche con Diakronia, Excalibur, Mursia e Newton Compton. www.milanounderground.it
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2019
ISBN9788869433467
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    Anteprima del libro

    La Gorgone di Milano - I. E. Ferrario

    Capitolo I

    Anna

    Milano, primi giorni d’aprile del 2017

    Il profumo vive nel tempo, ha la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. E soltanto se emana un aroma ugualmente gradevole in tutte e tre queste età della vita, si può definire riuscito.

    Patrick Suskind, Il Profumo

    Il profumo del pane appena sfornato avvolse Anna mentre entrava nel panificio Recordati di corso di Porta Ticinese, riportandola indietro nel tempo. Fu come un flash, un lampo, uno squarcio improvviso sulla sua infanzia.

    Pochi attimi densi d’immagini nitide.

    Era la strana magia che certi profumi, specie quelli che ci hanno accompagnato nei primi anni di vita, sortiscono sulla memoria anche a distanza di molto tempo. Per pochi istanti rivide l’uomo che da bambina le sembrava già vecchissimo e forse lo era. Si chiamava Angelo e insieme alla moglie Silvana faceva il panettiere in via Pinturicchio, in zona Città Studi. Indossava abitualmente una maglietta bianca e pantaloni grigi a righe sottili. Sembrava perennemente ricoperto da un impalpabile strato di farina che gli conferiva un’aria ancora più vetusta, un po’ come certi vecchi mobili che si collocano in soffitta e la polvere del tempo li ammanta di grigio chiaro. Ai piedi portava degli zoccoli di legno, sempre gli stessi che trascinava stancamente, con la parte superiore di pelle un tempo bianca, ora solcata da una fitta rete di screpolature scure entro cui la farina si sedimentava. Quella era la tenuta di Angelo in ogni stagione. Anche d’inverno non indossava altro perché avendo passato praticamente tutta la vita a cuocere il pane nel forno diceva che ormai il fuoco lo aveva dentro. Forse era vero. Angelo infatti non era mai malato, mai un raffreddore o un’influenza.

    Anna si rivide bambina con sua madre a comprare il pane in quel piccolo negozio che a lei piaceva tanto. Sua madre le diceva che in casa il pane fresco non doveva mai mancare. Solo la domenica ci si doveva accontentare di quello del giorno prima. Anna allungava la mano nel sacchetto di carta marrone per sentire le pagnotte ancora calde. Ne prendeva un pezzetto e lo infilava lestamente in bocca, per poi masticarlo lentamente, assaporandolo.

    Anna si destò da quella visione con il saluto che le porse Silvia da dietro il bancone. Ad esso seguirono quelli di Valentina, anche lei intenta a servire al banco, e quello di Mara alla casa. Quest’ultima stava dando il resto a una cliente.

    Buongiorno Anna. Se vuoi la pizza la stiamo sfornando ora. Te lo dico perché poi va a ruba, fece Silvia che a breve avrebbe tolto la teglia dal forno.

    Ah, lo so. Non appena arrivano gli studenti sparisce tutto. Sono come gli Unni, commentò Anna divertita, riferendosi ai ragazzi che frequentavano il vicino Istituto Superiore Carlo Cattaneo di piazza Vetra.

    Quelli sono peggio dei lupi quando arrivano. A volte mi domando se a casa gli diano da mangiare... Alcuni se ne divorano addirittura tre tranci… Uno filato all’altro!

    Beata gioventù. A quell’età non si hanno problemi di linea. Se penso a quello che mangiavo io… fece Anna.

    Ma se poi a servire è Valentina la pizza sembra che l’apprezzino il doppio… aggiunse Silvia scherzando.

    Anna convenne.

    Difatti era risaputo che molti studenti si recavano al panificio Recordati tanto per la bontà della pizza al taglio, con la crosta un po’ bruciacchiata e croccante e la doppia mozzarella, quanto per la bellezza di Valentina. Delle tre sorelle era la più giovane. Bionda, una spruzzata di lentiggini sul viso felino, capelli mossi, una bocca perfetta, un fisico ben proporzionato, un sorriso a dir poco solare. Qualcuno diceva che avrebbe potuto posare come fotomodella o indossatrice, dato il portamento aggraziato e il temperamento vivace.

    In realtà Valentina frequentava l’ultimo anno della Facoltà di Medicina, e le mancava poco per laurearsi. Nel tempo libero che le rimaneva aiutava le sorelle nell’attività di famiglia, perché i genitori erano scomparsi qualche anno prima in un incidente stradale. La signora Carla Recordati e il marito Vittorio avevano lasciato alle figlie quel negozio che era stato la loro fortuna.

    La sorella di mezzo era Silvia, che lavorava invece fissa in negozio: aveva ventotto anni ed era fidanzata. Anche lei era molto carina, aveva colori più scuri, capelli castani e un modo di fare che piaceva ai clienti. E infine c’era Mara, la primogenita, che gestiva la cassa. Aveva trentaquattro anni, un marito e due bambini. Molti dicevano che di carattere assomigliava alla mamma, solare, ma anche grintosa e infaticabile.

    Che cosa ti posso dare oggi, Anna? le domandò Silvia.

    Che pane hai?

    Francesini, michette, bocconcini, pane al latte. Ho anche dell’Altamura, ottimo per le bruschette o per dei crostoni. Con il vento che ha soffiato ieri il pane è oggi croccantissimo.

    Allora dammi metà di quel pane d’Altamura. Vorrei preparare delle bruschette per oggi a pranzo. Mi daresti anche tre michette? Quando le vedo non resisto, confessò Anna.

    A chi lo dici… pensa a me che le ho qui a portata di mano, ironizzò Valentina, ma sai quanto mi devo trattenere?

    Trattenere?! Avessi io il tuo fisico… Mangia va’, che non hai problemi. Guarda io che balena che sto diventando! osservò Anna ridendo e accarezzandosi il ventre rotondetto.

    Come procede? le chiese Mara dalla cassa. Avendo avuto figli sapeva quanto poteva essere bella la gravidanza, o al contrario, travagliata e difficile. Lei era sempre stata bene, non aveva mai sofferto di una nausea. Forse era stato il suo periodo migliore.

    Bene. Peccato che mi mangerei anche il tavolo con le sedie, precisò Anna, il cui incubo era il ginecologo che ogni mese l’aspettava per pesarla e controllare che non fosse ingrassata troppo.

    Sei perfetta. Goditi questi momenti che sono i più belli. E riposati. Perché poi vedrai come ti terrà in pista una volta nato… aggiunse Mara.

    Anna prese il sacchetto con il pane e pagò.

    In quel momento entrarono altre persone e il negozio fu subito saturo quasi da non riuscirsi a muovere. Addirittura, durante la pausa pranzo, quando arrivavano gli studenti, si formava anche la fila fuori lungo il marciapiede.

    Anna, che non sopportava la ressa, fu contenta di essere entrata in un momento tranquillo durante il quale era anche riuscita a scambiare due parole con le proprietarie. Le salutò e uscì.

    Si sentiva bene, meglio del solito. Si soffermò a guardare la vetrina del negozio di abbigliamento accanto alla panetteria.

    Anna ormai aveva cominciato a cambiare taglia. Pur non essendo ingrassata, la pancia c’era e si notava. Cercava di indossare abiti comodi e pratici come i pantaloni della tuta, sneakers alla moda, ma senza rinunciare al buon gusto e alla femminilità. Per un attimo si vide riflessa nella vetrina. Si fermò a guardarsi. Indossava un cappotto di Gucci che faceva ormai fatica ad abbottonare, ma che le stava ancora bene. I leggings evidenziavano le sue forme atletiche, le gambe tornite frutto di allenamenti in palestra. La gravidanza le aveva disteso ulteriormente i lineamenti del viso rendendoli ancora più dolci. Si guardò e si piacque. Era da tempo che non si sentiva così serena, o quasi.

    S’incamminò verso casa. Era una bella giornata che prometteva l’arrivo della primavera. C’era un tepore quasi estivo nell’aria, stemperato però da una brezza che aveva ripulito la città dall’accumulo di polveri sottili e la rendeva più bella e vivibile, nonostante tutto. In momenti come quelli anche Milano mostrava un volto più gradevole.

    Anna percorse un tratto di corso di Porta Ticinese; attraversò poi la strada su cui sferragliavano i tram e imboccò via Scaldasole. Le mancavano pochi metri per giungere a casa. Se non fosse stato che Giorgio stava per tornare a pranzo, con quella giornata così primaverile e tiepida sarebbe rimasta fuori a passeggiare. Le piaceva raggiungere la vicina Darsena, da poco riqualificata e mangiare qualcosa di veloce. E magari anche un bel gelato alla frutta.

    Dopo un decennio di degrado la Darsena di Porta Ticinese era diventata un luogo frequentabile e suggestivo. C’erano anche piccoli negozi dove poter fare la spesa, bar e ristoranti che ti servivano a qualsiasi ora. La presenza dei Navigli che confluivano nel grande bacino, un tempo utilizzato come porto della città, le dava un senso di pace e di calma.

    Inevitabilmente andò indietro nel tempo con la memoria.

    Erano passati tanti anni da quando Anna, una liceale come tante, il sabato pomeriggio con le amiche stazionava al Parco delle Basiliche, ascoltando musica, e magari fumando i primi spinelli. Oppure andava con loro al mercatino di Senigallia in cerca di vestiti vintage, musicassette e dischi. Erano i primi pomeriggi di libertà in cui si sperimentavano anche i primi amori. Aveva allora diciassette anni e la certezza di tenere la vita fra le mani. Ma quanti sbagli nell’adolescenza, quante emozioni forti, pianti, delusioni, gioie. Pensò a quanto fosse imperscrutabile la vita.

    Arrivò a un elegante portoncino color noce. Era una bella casa d’epoca ristrutturata e di cui era sopravvissuta solo la facciata con i muri d’ambito. All’interno erano stati creati pochi ed eleganti appartamenti di grandi metrature con tanto di box sotterranei. Sposata da cinque anni, da altrettanti viveva lì con Giorgio, suo marito.

    Salì al quarto piano con l’ascensore, impersonale, silenzioso, arrivando ad un pianerottolo illuminato da grandi vetrate di cristallo che davano sul cortile interno consentendo una vista sui giardini dei palazzi vicini.

    Poiché abitava nell’attico del palazzo, Anna salì una rampa di scale ancora e suonò il campanello appoggiando le borse della spesa sull’ampio zerbino colorato.

    Attese una manciata di secondi, risolvendosi poi a cercare le chiavi di casa rovistando nella borsa.

    Miranda… non sente mai. Tutte le volte è così, si disse vagamente spazientita. Aprì la porta ed entrò.

    Miranda, sono io! esclamò Anna chiudendosi la porta alle spalle.

    Buongiorno signora, sono in stireria. Devo venire? domandò la colf abbassando prontamente il volume della radio che invadeva i locali di musica.

    Anna sorrise. Miranda era una brava donna, aveva solo il difetto di non sentire mai telefono, citofoni o campanelli perché in casa teneva il volume della radio sempre troppo alto. Veniva dalle Filippine, aveva cinquant’anni e una bambina di dieci anni. Lavorava sodo per dare un futuro migliore alla bambina, dal momento che il marito se n’era tornato nelle Filippine alla nascita della figlia, lasciandola sola e in difficoltà.

    Anna raggiunse la grande cucina e appoggiò i sacchetti della spesa accanto alle gambe del tavolo e guardò l’ora. Giorgio sarebbe rientrato tra una quarantina di minuti… dipendeva dal traffico. Raggiunse quindi Miranda nella stanza dedicata allo stiro.

    Miranda, lascia pure quelle camicie nella cesta, continuerai domani. Vai pure a casa che tra poco rientra mio marito.

    Signora, ma non è ancora ora, osservò la donna, sempre ligia e attenta agli orari.

    Non preoccuparti. È così una bella giornata... Dammi retta, vai a casa, insistette Anna convinta.

    Miranda, a quel punto, non aggiunse altro. Ringraziò Anna e andò a cambiarsi. Non era la prima volta che le concedeva di uscire in anticipo.

    Tra le due donne c’era un rapporto di assoluta fiducia e di rispetto. Anna si augurava soltanto che le cose andassero sempre così, perché non era facile trovare un aiuto valido in casa. Spesso sentiva le sue amiche lamentarsi per le brutte esperienze avute con le loro donne di servizio. Lei non aveva motivi per dolersi d’alcunché.

    Raggiunse il salotto in cui spiccava un grande camino con fini inserti in marmo, acquistato a un’asta in Versilia. C’era poi la zona dei divani dalle forme ultramoderne, una chaise longue di pelle e un grande tavolo di cristallo.

    Guardò l’agenda che teneva aperta sulla ribaltina di un mobile in stile Luigi XIV. Come segnapagina utilizzava un cartoncino sul quale era raffigurata Medusa, una delle tre Gorgoni. Era una riproduzione del celebre dipinto del tedesco Franz von Stuck, di cui era andata anni prima a vedere la mostra tenutasi a Trento. Anna si soffermò a guardare quell’immagine e si rabbuiò, ma solo per poco. Tornò a concentrarsi su ciò che la giornata le riservava.

    Nel pomeriggio avrebbe avuto l’appuntamento dal notaio che attendeva da tempo. Era fissato per le ore 16 in viale Montenero. Quella sera lei e Giorgio sarebbero poi usciti a cena. Anna sentiva di averlo trascurato un poco nell’ultimo periodo e anche lui, d’altronde, era sempre preso dal lavoro. Giorgio aveva una società che rappresentava alcuni marchi di moda già avviati oltre a giovani ed emergenti stilisti. Una professione che lo teneva spesso lontano da casa, ma che gli aveva permesso di farsi una solida posizione.

    Anna desiderava che quello fosse un giorno tutto per loro e aveva insistito affinché lui tornasse a casa per pranzo. Aveva voglia di fare l’amore con lui, di fargli capire che era felice di renderlo padre da lì a poco.

    Apparecchiò velocemente la tavola con pratiche tovagliette di vimini. Versò l’acqua del rubinetto in una brocca e aggiunse delle foglie di menta fresca. Ne teneva una bella pianta in un vaso in terrazza. Le piaceva, di tanto in tanto, aromatizzare l’acqua in quel modo semplice e antico. Preparò il pane per le bruschette. Lo tagliò a fette e iniziò a fare a pezzettini i pomodori pachino. Lavò le foglie del basilico e le sminuzzò. Sfregò con l’aglio le fette di pane e accese il forno. Con la funzione grill le avrebbe abbrustolite come piacevano a Giorgio.

    Guardò ancora il grande orologio che campeggiava sulla parete della moderna cucina e pensò che le rimaneva abbastanza tempo per fare una doccia e rimettersi in ordine.

    Intanto, quasi meccanicamente, estrasse dal sacchetto della spesa la mozzarella di bufala e l’insalata. Fece per condire quest’ultima, ma si accorse che l’olio era finito.

    No, accidenti, mormorò infastidita. Lo aveva travasato nell’oliera di terracotta giorni prima. Era convinta che ce ne fosse ancora.

    Nel frattempo Miranda salutò Anna.

    Va tutto bene, signora? Le serve altro?

    No, non trovo l’olio. Ho paura di averlo finito. Al limite faccio un salto giù a prenderlo.

    Vuole che vada io?

    No, Miranda, scherzi?! Vai pure a casa... A domani!

    Come vuole, signora, disse la colf congedandosi.

    Anna cercò nella piccola dispensa ricavata accanto al frigorifero. Niente. Non le restava che scendere a comperarlo. Cinque minuti e avrebbe raggiunto il piccolo negozio di alimentari che stava nella stessa via. Per la spesa grossa preferiva il supermercato, per quella di ogni giorno Anna andava sempre nei negozi piccoli e si trattava di un’abitudine ereditata da sua madre.

    Si infilò nuovamente le scarpe e non prese con sé la borsetta. Era questione di pochi minuti. Raccolse nel cavo della mano alcune monete da un posacenere in cristallo di Murano, chiaramente di bellezza e posizionato sul mobile all’ingresso con la sola funzione di raccogliere gli spiccioli e le minuterie che periodicamente si accumulavano nelle tasche di giacche e cappotti. Si chiuse la porta alle spalle. Raggiunse il pianerottolo sottostante per prendere l’ascensore andando così incontro al destino.

    Anna... si sentì chiamare alle spalle.

    La donna sussultò perché non si aspettava la presenza di qualcuno e certamente non quella di costui… del quale aveva immediatamente riconosciuto la voce.

    Fuori dall’ascensore il corridoio si sviluppava per alcuni metri. Qui c’era la porta di un altro appartamento, quello esattamente sotto il loro, che vi si affacciava. In quel momento era sfitto. E poi c’era la porta di uno sgabuzzino utilizzato come ripostiglio dall’impresa di pulizie che veniva due giorni alla settimana per pulire le parti comuni del condominio.

    Anna s’irrigidì. Girandosi di scatto si sentì presa alla sprovvista.

    Che cosa ci fai qui? domandò stupita e al contempo allarmata. Una lieve flessione nelle sue parole tradiva uno stato di nervosismo.

    Che bell’accoglienza mi riservi… constatò l’uomo, con una sottile vena ironica nella voce. E soggiunse: Passavo casualmente da queste parti e ho pensato di salire a salutarti. Sono in partenza. Ho deciso di andare all’estero per un periodo e forse non tornerò neppure… disse lui uscendo dalla zona d’ombra che fino a poco prima lo aveva celato alla vista di Anna.

    T’avevo detto che non volevo vederti mai più. E poi mio marito potrebbe rincasare da un momento all’altro. Vattene. Sparisci per sempre e che stavolta sia veramente per sempre sibilò lei scandendo le ultime parole e con una sorta di malcelata rabbia oscura.

    Non puoi trattarmi così, Anna. Tanto più che ti sto dicendo che uscirò per sempre dalla tua vita. Non è quello che volevi? Abbi almeno il buon gusto di salutarmi come si deve. Lasciamoci da buoni amici... disse l’uomo in tono stavolta mellifluo e avvicinandosi a lei.

    Aveva un’espressione a mezza via tra il sornione e il beffardo, quel fare ambiguo e misterioso che fino ad alcuni mesi prima aveva intrigato e ammaliato Anna.

    Lui indossava una tuta grigia e una felpa del medesimo colore. Anna non lo aveva mai visto così abbigliato: lui amava i vestiti eleganti, che indossava anche nel tempo libero e nei momenti di svago. Quel dettaglio quasi la turbò, anche se non c’era un motivo preciso. Avvertì il suo inconfondibile profumo di patchouli, un aroma avvolgente che aveva il potere di confonderla quando lui le era accanto.

    Anna provò paura.

    Da un angolo recondito della propria coscienza l’istinto le gridava a pieni polmoni di fuggire. Avrebbe dovuto e voluto prestare ascolto a quell’impulso. Anna, seppur incredula, ne aveva giustamente intuito le intenzioni. Ma si sentiva al contempo pietrificata, colma d’orrore, e prima che l’istinto di sopravvivenza le facesse compiere un balzo fuori dalla portata dell’uomo, lui le fu addosso. Anna nulla poté contro la premeditazione lucida e fredda.

    Le spinse una mano sulla bocca. Anna provò a urlare, a divincolarsi, ma la paura l’aveva resa tremante. Cercava di reagire, ma una parte di lei era come rassegnata. Tutto le parve ovattato. Sentì le tempie che pulsavano per il terrore, una sensazione di soffocamento e stordimento la raggiunse. Nutrì ancora la speranza che forse lui non la volesse uccidere. Non poteva essere, non ci voleva credere. Provò a gridare con quanto più fiato aveva.

    Zitta, sibilò l’uomo mentre la trascinava con sé. Forte e corpulento prevalse su di lei. Non provò pietà. Agì come aveva pianificato. La vetrata che dava sul cortile interno era aperta. Aveva predisposto tutto. Fu più semplice del previsto. Secondi che divennero infiniti tornarono a essere secondi. Una scena irreale. Lui la sollevò come un fuscello e la spinse, o meglio la lanciò nel vuoto.

    Sparì alla sua vista mentre un urlo, l’ultimo della sua vita, le moriva in gola.

    Poi il nulla.

    Solo un tonfo sordo, cupo, giunse fino all’ultimo piano. Dopo calò un irreale silenzio, mentre la brezza profumata entrava dalla finestra.

    Il cielo terso di una giornata primaverile milanese proseguiva, imperterrito e incurante dell’accaduto, ad illuminare lo scorcio di pianerottolo d’un interno milanese.

    Capitolo II

    La famiglia prima di tutto

    Milano, 12 marzo 1942

    Quella mattina, prima di rientrare a casa, Candido Pizzetti, classe 1899, aveva attraversato il quartiere osservando come negli ultimi mesi, causa gli eventi bellici, fosse drammaticamente mutato anche il traffico. I carri e i carretti che un tempo intasavano le strade erano pochi, mentre erano più numerose le automobili militari e i camion. Questi ultimi spesso venivano rallentati da qualche asmatico carro armato i cui cingoli facevano le scintille sferragliando sul pavé. La guerra era iniziata da parecchi mesi e Candido cercava di stare fuori casa il meno possibile, lo stretto necessario richiesto dai suoi affari.

    Aveva camminato lungo tutto il tragitto, senza guardarsi attorno, come se fosse profondamente assorto. Si era lasciato alle spalle il Carrobbio, passando davanti alle Colonne di San Lorenzo e poi oltrepassando l’arco di Porta Ticinese. Superata la Fossa interna del Naviglio aveva imboccato corso di Porta Ticinese, il quale fino alla fine del Settecento era chiamato semplicemente Cittadella, senza essere preceduto da via oppure strada. Questo nome era indicativo della storia secolare del quartiere popolare.

    Passando davanti alle Colonne di San Lorenzo, così denominate per via della basilica che fronteggiavano, a Candido tornavano sempre in mente certe storie udite da bambino. Facevano parte della sua infanzia, del suo vissuto, dell’esistenza che bene o male trascinava, come la sua gamba colpita dalla poliomielite, attraverso le vie cittadine.

    La storia di Milano, quella ufficiale, era materia per storici e colti prelati, non certo alla portata di persone umili come lui. In molti libri dotti si parlava di chiese e di basiliche, ma senza entrare troppo nei dettagli; a proposito della basilica di San Lorenzo e della sua fondazione incombevano strane voci che gridavano all’eresia. Di contro, la gente della Cittadella si tramandava le proprie storie a dispetto di quelle ufficiali. Taluni di questi racconti, dal sapore quasi ancestrale, solcavano il tempo riportando fatti che studiosi e archeologi avevano sempre negato. Ciò accadeva forse per la pigrizia di dover riscrivere i libri di storia, o forse perché era meglio che talune verità rimanessero consegnate all’oblio, tanto per non dare agio al popolino di farsi venire in mente strane idee.

    Talvolta la sera, dentro qualche corte nascosta nelle ali di edifici cresciuti un po’ troppo serrati tra loro, sturati i fiaschi di vinaccio spesso, versato nei boccali di terracotta o in qualche tazza metallica un po’ ammaccata dagli urti, queste storie venivano tramandate di generazione in generazione.

    Le leggende narrate sul Ticinese parlavano di genti che un tempo avevano varcato proprio il Ticino, il fiume che faceva da confine alle terre dei Celti Insubri e di cui Milano era la capitale. Il vero nome della grande città fortificata era noto solo ai druidi e a pochi altri. Per tutti era Medhelan, la città nel mezzo della pianura, il più importante centro della grande comunità. Qui sorgeva il sacro recinto ellittico, il medhelan per l’appunto, all’interno del quale si officiavano i riti stagionali e quelli propiziatori.

    Chi già abitava in quelle terre aveva accolto le genti che varcarono il Ticino, tanto da concedere loro di erigere la propria città, o cittadella, proprio accanto a quella già esistente, il Medhelan. L’avevano fatta a pianta ellittica, come il medhelan che stava all’interno della città circolare. Si sviluppava attorno a due assi perpendicolari tra loro. Alle estremità si aprivano le porte incassate nel poderoso terrapieno, la cui sommità era coronata dalla palizzata. L’esterno era inoltre protetto dal fossato largo una ventina di metri e profondo quasi tre, misura per la quale nemmeno l’uomo più alto di loro poteva stare in piedi senza essere sommerso. L’acqua l’avevano fatta arrivare da nord, dai due rami che lambivano l’intero circuito della grande città primigenia. Nel corso dei secoli qui nacquero storie legate a torbide tresche amorose, a passaggi segreti, a tesori murati in profondi sotterranei insieme ai cadaveri di sprovveduti cercatori.

    La gente, tanto quella del popolo quanto quella delle classi più abbienti, era sempre rimasta affascinata dalla storia del passaggio segreto che congiungeva Santa Maria delle Vetere, appartenente alle monache domenicane e situata lungo il corso di Porta Ticinese, con un loro possedimento che stava al di là dell’ellisse, Santa Maria della Vecchiabbia. Qualche malalingua diceva che il passaggio segreto faceva tappa fissa sotto l’Abbazia di Santa Croce, dove le monache, quando andavano e venivano, pagavano ai frati un pedaggio in natura.

    Pizzetti si era sempre interessato poco di queste storie, che comunque conosceva. Era molto più preoccupato di come barcamenarsi e tirare avanti. I tempi erano grigi, la guerra aveva complicato tutto, ma della propria condizione, comunque, non si doleva più di tanto. Aveva imparato ad arrangiarsi.

    In corso di Porta Ticinese possedeva al piano terreno un appartamento piccolo ma confortevole, con il negozio contiguo, ma in affitto, in cui aveva aperto una lavanderia. Gli affari all’inizio andavano più che bene, ma poi era sopraggiunto il conflitto mondiale, il secondo, come se il primo non fosse bastato. Il Regno d’Italia aveva dichiarato guerra a Francia e Inghilterra il 10 giugno 1940 e i bombardamenti non si erano fatti attendere. La speranza di una guerra combattuta unicamente al fronte si era presto rivelata un’illusione.

    Infatti, pochi giorni dopo l’entrata in guerra, nel cuore della notte, attorno alle ore 2 del 16 giugno era arrivato un primo stormo di aerei da bombardamento, seppur sparuto. Gli ordigni sganciati avevano mietuto le prime vite umane e lasciato il tangibile segno della distruzione. Il giorno seguente erano giunti nei cieli di Milano e Monza altri bombardieri e pochi minuti dopo la mezzanotte del 16 giugno era iniziato un bombardamento a tappeto. Le batterie contraerei della ex Di.C.A.T.¹ avevano sparato all’impazzata. Gli aerei cacciatori, detti più comunemente caccia, s’erano alzati in volo più volte e solo poco dopo le ore 6 del mattino pareva che tutto fosse finito.

    Durante la lunga notte gli aerei avversari non avevano trovato resistenza degna di nota, riuscendo così a portare a termine la loro missione per i cieli lombardi. E a terra, sui civili inermi, piovevano bombe.

    La difesa di questi ultimi rimaneva sostanzialmente affidata agli stessi, anche se ufficialmente i dispositivi a difesa della popolazione non mancavano.

    «Boia chi non molla una scoppola all’aereo, ma solo se si trova il cannone con cui spararla!» dicevano con azzeccato sarcasmo talune persone del quartiere, quando avevano il tempo di fare quattro chiacchiere all’osteria senza essere ascoltati da orecchie indiscrete, ovvero quelle degli onnipresenti delatori.

    Quella stessa gente che come Candido camminava ormai abbacchiata per le strade con la testa incassata tra le spalle e il mento verso terra. Nella postura di molti si leggeva una sorta di rassegnazione perché le difese antiaeree, al di là della propaganda di facciata, non si potevano dire né efficienti né efficaci.

    A inizio guerra i caccia italiani che dovevano abbattere i bombardieri nemici erano per lo più biplani di legno e tela, mentre l’ex Di.C.A.T. aveva pochi cannoni antiaerei adeguati e una pleiade di cannoncini affiancati da mitragliere e mitragliatrici della Breda e della Isotta Fraschini. Ad essi si aggiungeva qualche Saint-Etienne francese da 8 millimetri che faceva solo chiasso, riempiendo l’aria di proiettili che poi ricadevano sui tetti delle case e nei campi. Quindi, a bombardamento terminato, occorreva anche riparare i danni causati dalla stessa antiaerea e disinnescare i proiettili più grandi, quelli difettosi e rimasti inesplosi².

    Candido Pizzetti non poteva fare a meno di pensarci, camminando tra le macerie delle case bombardate e ammucchiate ai bordi della strada. Gli sembrava che tutto fosse irreale, come il fatto che la sua attività rischiasse di naufragare per questioni che esulavano dalla sua volontà. O per colpa di una qualche bomba sganciata sopra casa sua.

    Se la propaganda aveva minimizzato la grandezza degli ordigni che potevano essere sganciati dal cielo, dopo i primi due anni di guerra le sorprese erano appena cominciate.

    Gli aerei inglesi, e più avanti nei mesi anche quelli americani, facevano piovere ordigni che squarciavano le case, aprivano la pavimentazione stradale come se fosse stato burro. Con le esplosioni i pezzi di lastricato volavano via ed erano più pericolosi delle schegge stesse, per non parlare dei sampietrini che si levavano all’intorno come proiettili.

    Gli spezzoni incendiari, che nello scendere sembravano coreografiche asticelle, quando toccavano terra erano tozzi bastoni a sezione esagonale, devastanti nella lucentezza della punta. Picchiavano a terra con un suono inconfondibile, metallico, simile a un tam tam tam tatataam. Una frazione di secondo dopo, s’accendevano di luce. Dal corpo metallico d’ogni spezzone usciva un lucore bianco, abbacinante. Era la fiamma del fosforo, che consumava tutto quello su cui si posava.

    Giovannino, il figlio della vedova che faceva la portinaia nel caseggiato accanto a quello in cui abitava Candido, sgattaiolava fuori dal rifugio ancor prima del cessato allarme per andare a cercare qualche bello spezzone inesploso, da recuperare. Li portava dal rottamatt³, per venderli. Quello glieli pagava in moneta sonante, subito. E altrettanto subito Giovannino correva in quel vicolaccio ambiguo, quello delle puttane, per cercare il borsaro nero e comperare un cartoccino di zucchero grigiastro oppure una manciata di fave da succhiare lentamente, centellinandole. Un giorno gli andò male. Uno di quegli spezzoni scoppiò in ritardo mentre se lo teneva sulla spalla, come se fosse stato la mazza di legno che usava per giocare alla lippa. Il fuoco gli divorò l’osso della clavicola. Le carni della spalla e dell’ascella si fusero con quelle del torace… Avevano dovuto imbottirlo di morfina perché urlava come un ossesso per il dolore. Ma poi, nel giro di qualche giorno, la morte se l’era portato via ponendo fine ad ogni sofferenza.

    Candido scacciò tutti quei pensieri con un colpo di tosse, cavernoso. Non voleva nemmeno immaginare che cosa avrebbe fatto se la stessa cosa fosse capitata a suo figlio. Il suo motto era la famiglia innanzitutto. La protezione dei suoi familiari era il suo unico pensiero. Di conseguenza la sua priorità in quei mesi era stata quella di rendere più sicuro il suo rifugio antiaereo, allargando un poco la bocca del lucernaio e mettendo una scala di legno in pianta stabile in più. Avrebbe poi voluto collegare agevolmente la sua cantina con il misterioso locale sottostante, così da non dover spostare necessariamente l’unica scala di legno che serviva anche per uscire dal lucernaio, che veniva chiamato convenzionalmente uscita di soccorso.

    Capitolo III

    Ticinese, il vecchio quartiere

    12 marzo 1942

    Candido si soffermò un istante, come se qualcosa avesse attirato la sua attenzione. Osservò il tetto sfondato dell’edificio dalla parte opposta della strada. Con lo sguardo corse lungo la volta scrostata a tutto sesto del vecchio androne. Quell’immagine gli fece scaturire un sottile senso di angoscia. Era il palazzo di fronte a quello in cui abitava, colpito di striscio da uno dei recenti bombardamenti. Il prossimo a essere colpito, magari con risultati catastrofici, avrebbe potuto essere quello in cui abitava.

    Tirò dritto entrando al civico 75 di corso di Porta Ticinese.

    Fece un cenno di saluto al vecchio custode asmatico, perennemente acquattato in un bugigattolo invaso dal fumo di sigaro acre e spesso. Si trattava di pochi metri quadri adattati a portineria con divano letto e cucinino nella microscopica stanza sul retro.

    "Sciór Candido, buongiorno," fece il vecchio aprendo lo sportellino di vetro che stava dinnanzi al bancone della portineria, lasciando così uscire un refolo di fumo maleodorante.

    Buongiorno a voi, Giovanni. Tutto bene? domandò garbato Candido.

    Siete uscito presto, commentò il portinaio strizzando l’occhio. Non vi ho nemmeno sentito… aggiunse.

    Sì, ho sbrigato alcune faccende, prima della prossima grandinata di bombe, rispose l’altro facendosi cupo.

    "Già. La settimana scorsa uno sciottón⁴ ha fatto visita all’altro sciottón4… Visto che buco al tetto del Bianchi, qui davanti?! commentò il portinaio riferendosi al proprietario del palazzo di fronte che mal sopportava. C’è mancato poco che venisse giù tutto. Ben gli sta."

    Suvvia, Giovanni, non dica così… lo redarguì bonariamente il Pizzetti. Ci manca solo che facciamo la guerra tra di noi e poi siamo a posto… Non bastano queste maledette bombe a toglierci la salute e la speranza?

    "Sì, sì, sciór Candido, fece l’altro con tono falsamente accomodante. Ha ragione come sempre, ma quello non se lo porta via manco la peste, come le bombe non si sono portate via puttane, borsari neri e delatori!"

    Il portinaio non perdeva mai occasione per dilungarsi in invettive sulla moralità del quartiere e sulla gente che ci abitava.

    Vero… osservò laconico il Pizzetti.

    Se è per questo, continuò il portinaio tirando su col naso e subito dopo scaracchiando oscenamente nella sputacchiera d’ottone annerito, "qui ci stanno togliendo il quartiere, sempre più rosicchiato da queste bombe. La soluzione sarebbe la scighera⁵ giorno e notte. Almeno fino a quando i capi non trovano un accordo," borbottò scuotendo la testa e invocando il solo evento naturale che avrebbe potuto oscurare e mettere così al riparo dai bombardamenti tutta la città.

    "Più che la scighera ci vuole on scigherón, un bel nebbione," puntualizzò il Pizzetti tanto per porre fine alle chiacchiere. Una nebbia densa, spessa, che avrebbe nascosto la miseria umana di quel periodo in cui le persone avevano smesso di sperare in un futuro migliore. Così la immaginò: una coltre spessa, densa, che quasi si poteva toccare.

    Il Pizzetti abbozzò un saluto e proseguì verso l’andito male illuminato dove c’era l’accesso alle cantine. Dopo il breve scambio di battute tornò a immergersi nei propri pensieri. Ripensò alle parole di Giovanni sulla presenza di

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