Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Nino e gli anni Cinquanta
Nino e gli anni Cinquanta
Nino e gli anni Cinquanta
E-book244 pagine3 ore

Nino e gli anni Cinquanta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il romanzo rievoca gli anni Cinquanta, il post conflitto, la faticosa ricostruzione, i costumi, le tradizioni, le feste, i giochi, le scoperte attraverso gli occhi del protagonista che allora era un ragazzino come tanti.
La narrazione, in perfetto equilibrio tra diario e album fotografico, si pone come una sorta di ponte tra generazioni diverse come possono essere quella del dopoguerra e quella degli anni Duemila. Non a caso il romanzo si apre e si chiude rivolgendosi a un adolescente dei giorni nostri.
Il giovane protagonista, insieme a Nino e ad altri ragazzi della sua cerchia di amici, prendono per mano il lettore e lo accompagnano nelle strade e nelle loro case per fare assaporare la vita materiale e quotidiana di quel decennio. La narrazione ironica, divertente e pungente evidenzia le contraddizioni, gli affanni, le nevrosi, le fatiche, i malori, ma contemporaneamente mostra il mondo gioioso, magico dei bambini. Un mondo, comunque, sempre rivolto al futuro.
Affresco genuino di una generazione cresciuta dopo la Seconda guerra mondiale, tra macerie e lutti, della loro psicologia e di come vivevano ai bordi delle ruspe, delle automobili, della rimozione.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2021
ISBN9788832928112
Nino e gli anni Cinquanta

Correlato a Nino e gli anni Cinquanta

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Nino e gli anni Cinquanta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Nino e gli anni Cinquanta - Enrico Magni

    Duemila.

    1

    Nino

    Ho voglia di fare una passeggiata con te negli anni Cinquanta del secolo scorso, per incontrare persone, luoghi conosciuti. Le giornate scorrevano lentamente, c’era il tempo di afferrarle con la mano, mi facevano compagnia per tutto il giorno, mi si fermavano nella testa anche per mesi; i giorni erano scanditi dallo stesso ritmo e dalla medesima monotonia. Nelle mie orecchie il rintocco delle campane, il fischio delle sirene delle fabbriche cadenzavano i tempi della giornata.

    Giovanni, il sacrestano, batteva e tirava le corde delle campane alle cinque e trenta, poi alle cinque e quarantacinque, l’ultima era quella delle cinque e cinquantacinque per la messa delle sei. Le sirene nelle fabbriche squillavano alle dodici, con qualche secondo di scarto riuscivo a riconoscere la fabbrica. Nell’arco di qualche minuto ascoltavo cinque, sei suoni, era un piacere sentirli; gli abitanti accanto alla fabbrica, alla chiesa non erano disturbati dal rumore.

    All’interno delle case gli orologi erano una cosa rara e preziosa, erano a molla, andavano ricaricati tutti i giorni, spesso accadeva che si fermassero. L’orologiaio di casa mia aveva il compito di caricare l’orologio a muro, alcune volte si dimenticava o si addormentava prima di andare a letto. Il mattino dopo l’orologiaio subiva maledizioni, ingiurie, la dimenticanza della ricarica aveva degli effetti nefasti su ciascuno di noi. Era consuetudine assegnare il compito della ricarica, a turni, a un maschio di casa; per fortuna, il suono delle campane, delle sirene superava le barriere delle imposte.

    La prima sirena era quella delle cinque e trenta, a quell’ora in parecchie case si accendevano le luci.

    Lo so perché quando prendevo il primo treno con mio padre, mi piaceva guardare dal finestrino le luci accendersi nelle case, le finestre sembravano delle lampade di Natale: le persone si stavano svegliando.

    La mattina presto per me era misteriosa, mi sollecitava e prendevo qualche scusa per uscire di casa, dicevo che dovevo accompagnare il mio amico Nino che doveva servire la messa alle sei, così avevo la possibilità, nelle strade, di scoprire le donne con il velo in testa che andavano a messa e gli uomini con la tuta blu che si recavano in fabbrica. Le donne anziane vestivano sempre in nero, coprivano i capelli con un copricapo, tenevano bassa e ferma la testa, muovevano gli occhi velocemente per inquadrare chi passava accanto, poche erano le giovani donne maritate che andavano a messa. Nino era costretto a servire la messa prima perché era il chierichetto più vecchio del gruppo, quindi toccava a lui coadiuvare il prete.

    Guardavo con attenzione gli uomini in bicicletta e a piedi che correvano perché erano preoccupati di arrivare in fabbrica per timbrare in orario. Nino mi diceva che suo padre se arrivava con un minuto di ritardo, era penalizzato di quindici minuti e non riceveva nella busta paga il dovuto.

    Nella fabbrica del papà di Nino c’era un grosso orologio con una fessura all’altezza della pancia, inghiottiva il cartellino di cartone che segnava l’inizio, la fine del lavoro e le date dell’attività del mese. Il cartellino, dopo essere stato timbrato, era introdotto in un gran tabellone con delle feritoie dalle quali sbucava. Nino mi spiegava che il lavoro era distribuito su tre turni. Il primo turno del mattino iniziava alle sei e terminava alle quattordici del primo pomeriggio, il secondo andava dalle quattordici alle ventidue, il terzo dalle ventidue alle sei del mattino. Il papà di Nino quando faceva il turno di giorno inseriva il cartellino nella pancia dell’orologio alle otto e all’uscita delle dodici, poi obliterava alle tredici e trenta la seconda entrata e chiudeva il ciclo alle diciotto.

    Camminando per le strade del quartiere insieme al mio amico Nino, prima ancora degli operai, delle pie donne, il panettiere, l’alimentarista, l’oste avevano già alzato la saracinesca almeno da mezz’ora, anche prima. Guardavamo l’alimentarista che preparava il banco e toglieva dal frigorifero i formaggi, i salumi e li metteva in mostra per i primi operai che compravano il poco e frugale cibo per la pausa pranzo. Il pranzo era composto da due, tre panini, cento grammi di affettato, mezzo litro di vino, qualcuno prendeva la gazzosa. Ci capitava di vedere lo stesso operaio uscire dall’alimentare e andare in osteria a bere un bianco, un grappino, prima di entrare in fabbrica; difficilmente beveva una tazza di caffè, preferiva qualcosa di più frizzante per iniziare la giornata nella rumorosa e polverosa fabbrica.

    Gli uomini alle sei del mattino non avevano tempo di guardarsi attorno. La gente si muoveva con passo veloce nelle strade silenziose, qualche volta si sentiva l’urlo della Lambretta che rivendicava il suo spazio.

    Mentre l’uomo andava a farsi il grappino, le donne andavano in latteria a prendere il latte fresco appena arrivato e riconsegnavano le pesanti bottiglie di vetro, avevano la borsa di pelle, di cartone forte per la prima spesa.

    Il pane, lo zucchero, la pasta, il riso erano messi in sacchetti di carta, in cartocci estemporanei fatti al momento. Il bottegaio accartocciava con destrezza il caffè e lo zucchero in una carta grigia in modo da contenerli. Le dita del negoziante piegavano a metà la carta con dentro il prodotto, poi scorrevano ai bordi dei fogli, li univano attorcigliandoli come se fossero dei ravioli. La manualità, la velocità erano sorprendenti, come per magia la carta bidimensionale si trasformava in tridimensionale. Nel fagotto ci stava la polvere di caffè appena macinato che profumava. La borsa, oltre al pane, conteneva sacchetti e pacchetti, anche i biscotti erano sciolti. Le donne che avevano dei bambini piccoli compravano i biscotti solo per loro, quelli che facevano le elementari dovevano accontentarsi del pane fresco.

    Il pane fresco del mattino, il caffè emanavano un profumo che alleggeriva l’aria. Gli alimenti lasciavano traspirare il loro aroma dalla carta, l’imballo serviva solo il tempo necessario per raggiungere la casa e solo allora si aprivano i vari involucri e si mettevano gli alimenti nei rispettivi contenitori.

    La carta era conservata, piegata e messa da parte per la merenda del bambino, del marito. Tutto era riusato e riciclato. Lo scarto era minimo, tutti gli alimenti erano sciolti, i vetri erano riconsegnati al bottegaio, le borse di plastica non esistevano così pure le bottiglie. Era facile vedere per strada un cane avvicinarsi alla borsa e sentire la donna gridare per allontanarlo.

    Quelle mattine quando andavo a messa per far compagnia a Nino, mi piaceva guardare e ascoltare il rumore della Lambretta che si muoveva sulla strada come una tartarugona. Mi ero documentato attentamente sul motociclo, potevo sostenere una lezione davanti a tutta la classe sulla Lambretta.

    La Lambretta era come un giocattolo, aveva delle tubature leggere, il serbatoio era posto tra le gambe del conducente, il carburatore era ingrandito, la marmitta era rimpicciolita con un motore con rapporto di compressione elevato dotato di un trasportatore dinamico in alluminio per migliorare il raffreddamento. Il regime di potenza massima era di cinquemilatrecento giri/minuto, relativamente basso per uno scooter da pista. L’esposizione di tutte le parti, di colore verde militare, le davano un certo fascino. Il sedile fatto di finta pelle, imbottito di gommapiuma, era sostenuto da due grosse molle per attutire i contraccolpi della strada. Il sedile posteriore era separato dal primo. Chi era seduto dietro al guidatore doveva attaccarsi al manettone posto davanti per evitare di essere sobbalzato. La velocità massima era di cinquanta orari. Era affascinante, era il residuo meccanico e motoristico della guerra.

    Le strade erano prevalentemente sterrate, quando la Lambretta passava si sollevava un mucchio di polvere e con l’acqua si innalzavano spruzzi: i passanti dovevano abbassare l’ombrello per evitare di essere colpiti da sputi di fango.

    Prima di andare in chiesa con Nino facevamo sempre il giro del quartiere perché ci meravigliava la vivacità del mattino: la giornata iniziava presto.

    2

    Cestino

    Questa estate percorrendo il deserto dell’Iran fatto di terra battuta, sassi e montagna, su un altopiano che supera i mille metri, riparati all’interno del pulmino dal caldo secco ma intenso, a causa degli strani giochi associativi della mente, Loredana si ricordò del formaggio giallo.

    Lei, figlia di esuli istriani, era stata costretta a lasciare l’Istria dopo il secondo conflitto mondiale del ’45 per raggiungere Trieste dove oggi vive. Raccontava la difficile condizione di esule, il sentimento di rifiuto che i locali proiettavano su di lei e su tutti gli esuli: erano considerati dei traditori.

    Si ricordava della sua condizione difficile, la fatica a trovare del cibo. Si ricordò del formaggio giallo dal gusto amarognolo, espresse il suo totale disgusto. Era il formaggino degli americani che avevano lasciato in ogni angolo della penisola.

    Era lo stesso, sì, lo stesso che ci davano le suore all’asilo, invece di mangiarlo lo tiravamo, lo usavamo come sciolina nell’ampio spazio del refettorio.

    Loredana lo disprezzava. Allora non era una mia allucinazione infantile, un ricordo deformato! No, anche lei aveva provato le mie stesse sensazioni. Senza saperlo ci stavamo confidando che eravamo coscritti.

    Il formaggino giallo in quel momento diventò il segno e il simbolo di una certa generazione. Eravamo la generazione del dopoguerra anche se avevamo vissuto in latitudini diverse le nostre infanzie.

    L’asilo era un luogo mitico. C’erano delle suore vestite di nero che Loredana oggi, a causa dell’abbigliamento, chiamerebbe pinguini, come quelle incontrate in viaggio.

    Le suore si prendevano cura dei maschi e delle femmine di tre, quattro e cinque anni prima dell’inizio della scuola elementare. Allora non era obbligatorio frequentare l’asilo.

    I figli delle persone che stavano bene erano curati da ragazze appena diplomate in attesa di vincere il concorso magistrale. Alcune accudivano i bambini per tutto il giorno oppure per mezza giornata. Erano solite fare delle passeggiate il mattino e il pomeriggio accompagnando i bambini in qualche giardino pubblico. Le signorine erano attente a evitare che scivolassero via dal loro controllo. I bambini erano rispettosi dei comandi, difficilmente disobbedivano.

    La signorina a casa giocava con loro, iniziava a fare apprendere con l’abbecedario l’alfabeto, alcune parole bisillabiche, come casa, pane. Alle signorine era stato prescritto di non superare quell’indicazione, dovevano attenersi alle regole della tradizione, non assecondare la pedagogia moderna che lasciava più autonomia al processo evolutivo del bambino.

    I bambini, costretti ad andare all’asilo sotto la guida delle suore, erano stimolo di invidia per gli altri. L’invidia era reciproca.

    Io e Nino andavamo all’asilo infantile tutti i giorni dalle nove del mattino fino alle sedici del pomeriggio, eravamo costretti a seguire il programma della settimana voluto dalle suore, a differenza degli altri che se ne stavano fuori da quell’edificio vecchio e rattoppato.

    I bambini delle maestrine erano incuriositi vedendoci con il grembiule colorato: ci scrutavano, ci provocavano con smorfie, linguacce e atteggiamenti vari.

    Se ci sfioravamo, scattavano piccole scaramucce che le signorine appianavano separandoci.

    I bambini delle famiglie bene erano curiosi di vedere quello che succedeva dentro il vecchio edificio con tanti bambini; noi eravamo attratti dalla signorina che era meglio della suora. Erano due mondi che si contrapponevano e faticavano a capirsi.

    Da parte delle famiglie bene c’era la tendenza a mantenere un certo distacco, le signorine erano invitate a tener divisi i bambini che dovevano giocare solo con chi aveva la maestrina; i bambini dell’asilo erano sporchi, puzzavano, erano maleducati: era questa l’idea che frullava nella testa di quei genitori. Le condizioni economiche giocavano una parte importante.

    All’asilo, in linea di massima, c’erano i figli del disagio, oppure di famiglie numerose che lavoravano e non avevano né il tempo né la disponibilità economica per accudirli privatamente.

    A evidenziare la differenza sociale era anche la struttura dell’edificio che, prima di essere un asilo, era stato un piccolo ospedale, un luogo di ricovero per profughi, dispersi, insomma era una vecchia struttura nata per altri scopi.

    La cucina era stata una infermeria, i servizi igienici erano stati sistemati alla meglio, i pavimenti erano di piastrelle rosse, di cemento levigato, di legno. L’edificio era quello che era, bisognava accettarlo.

    I pochi asili di montagna erano in vecchie case riadattate allo scopo accanto alla chiesa, una sola suora accudiva a tutto, il parroco amministrava, le donne del paese a turno aiutavano in cucina, a riordinare, a pulire. Il bambino portava il cibo da casa, la suora svolgeva una funzione di custodia, di alfabetizzazione. Il comportamento dei bambini di montagna era più libero, insofferente nello stare per tante ore in un posto chiuso.

    Io e Nino andavamo in un asilo di città e portavamo la merenda nel cestino, le suore preparavano un primo piatto: risotto, pasta, minestrone, poi mangiavamo quello che avevamo portato da casa.

    Il cestino era importante, era l’oggetto del confronto, della rabbia. Ogni giorno si guardava che cosa ci fosse nel cestino dell’altro. Da alcuni usciva il profumo della frittata, della polpetta; ogni cestino aveva un suo odore piacevole, meno quelli che contenevano sempre lo stesso prosciutto o lo stesso formaggino bianco. Erano insopportabili. Per rabbia i cestini erano presi a pedate, ditate, alla fine della stagione erano distrutti.

    I profumi incutevano rabbia e invidia. In alcuni c’erano delle piccole scatolette d’acciaio che si aprivano, si chiudevano ermeticamente; l’aroma che ne usciva si distingueva dal risotto scialbo, cotto male dalla suora addetta alla cucina, che era anche vecchia e brutta. Il cestino profumato era stato preparato bene, con attenzione e i bambini senza la scatoletta ermetica si sentivano inferiori, di un’altra categoria.

    La scatoletta ermetica, il profumo che ne usciva, sollecitavano reazioni di guerra. Al momento del pranzo io e Nino eravamo seduti uno accanto all’altro con altri sei bambini; iniziavano le battaglie con la forchetta e il cucchiaio per appropriarci di qualche pezzo di cibo profumato. Succedeva che il banco saltasse, scattavano le pedate, le mani finivano nel piatto dell’altro. Ogni giorno era un confronto continuo, bisognava misurarsi, combattere per ottenere qualcosa.

    Erano belli solo i bambini delle maestrine e quelli che avevano la scatoletta ermetica!

    L’altro elemento di conflitto e interesse era il bicchiere. I bicchieri erano di latta o bachelite, quelli di latta erano colorati con dei segni particolari: il bicchiere dell’altro bambino era sempre più bello. Il bicchiere di bachelite era considerato di scarto e sottoposto a stress, veniva rotto per essere cambiato con quello colorato.

    Il cestino era importante, infatti tanti genitori mettevano l’etichetta con nome e cognome per evitare che si confondesse con qualche altro.

    Tre erano le variabili che caratterizzavano il cestino: la forma, il colore e il materiale. Da questi tre fattori era possibile riconoscere il suo proprietario. Un cestino malconcio o ben tenuto alla fine dell’anno scolastico evidenziava lo stato psicologico del bambino. La cosa peggiore era di ritrovarlo l’anno dopo sistemato con qualche filo di spago, di plastica colorata.

    I cestini erano nell’atrio, accanto, sopra o sotto i rispettivi indumenti e stavano lì fino all’ora del pranzo.

    I miserevoli cappotti, le sciarpe, i guanti di lana fatti dalla nonna, dalla mamma, dalla zia assomigliavano a quelli militari. Le donne erano abituate a cucire allo stesso modo per adulti e bambini. I guanti assomigliavano a quelli da baseball, potevano durare almeno per tre anni, con fatica il manico del cestino, della cartella stava nella mano.

    I calzettoni erano il doppio della circonferenza dello stinco, la berretta era larga o stretta. La lana era quella che pizzicava; quando si bagnava, impiegava un tempo infinito ad asciugarsi, se faceva freddo le mani si gelavano, così pure i piedi. A contatto con l’acqua il filo di lana raddoppiava di diametro, si attaccava alla pelle come carta assorbente, diventava fastidioso. L’unica soluzione era togliere le calze, metterle sul calorifero accanto alla stufa e stare a piedi nudi seduti sulla sedia. Era possibile vedere una fila di calze e guanti distribuiti in ordine sparso sui caloriferi, sullo schienale delle sedie.

    Una delle cose più brutte era quella di portare dei calzoncini corti di lana. Erano fastidiosi, davano la sensazione di essere più piccoli di quello che si era, erano scomodi per andare in bagno, non proteggevano né da qualche inconveniente fisiologico né dall’esterno. Se qualcuno metteva una gomma da masticare sulla sedia, si appiccicava e non si staccava più. Era un dramma toglierla, c’era il rischio di prendere qualche botta a casa.

    Sì, le botte dei genitori erano la norma, nessuno se ne meravigliava, dipendeva sotto quale cavolo uno era nato. Certi genitori menavano con facilità, anche le suore tiravano qualche ceffone, non tutte ma quasi.

    Era la regola, non esisteva il convincimento, bisognava fare quello che dicevano. Le botte non spaventavano, non intimorivano, un ceffone in più non cambiava la condizione. Alcuni a casa erano coccolati, subivano al massimo dei rimproveri, piccoli castighi; questi venivano subito riconosciuti e sollecitavano qualche rancore in chi prendeva i ceffoni: i ceffonati, per strane reazioni, trovavano il modo di sottoporre i coccolati alla lotta.

    L’asilo era il luogo per stare insieme, giocare, iniziare a stabilire amicizie, provare simpatie ed essere liberi dallo sguardo severo dei genitori.

    Le suore stabilivano un ordine di distribuzione dei bambini nelle rispettive classi. I bambini cercavano di sedersi accanto all’amico preferito, ma erano subito bloccati, i posti non potevano essere contrattati. Il posto era assegnato a qualcun altro, solo per fattori estemporanei e seri, non durava per tutto l’anno. Solo col passaggio di età, con il cambio di classe, con l’altra suora era possibile una nuova disposizione. Le classi erano formate in base all’età. Le regole erano inflessibili.

    La prima variabile per la costituzione della classe era il genere: c’erano classi di maschi e di femmine con servizi separati e grembiuli di colore diverso. La struttura architettonica dell’edificio permetteva di tenere distinte le femmine dai maschi. La separazione era fondamentale, difficilmente si trovavano classi miste, solo in piccoli centri o in montagna.

    La divisione si ripeteva anche per le

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1