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La casa della giustizia perduta
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La casa della giustizia perduta
E-book124 pagine1 ora

La casa della giustizia perduta

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Info su questo ebook

C’è un preciso istante, nella storia personale di ognuno di noi, in cui veniamo colpiti dalla consapevolezza di SAPERE.
In quel momento abbiamo due possibilità: ignorare tale consapevolezza e tentare di proseguire la nostra vita come prima oppure accoglierla, con la certezza che questa scelta, inevitabilmente, cambierà per sempre il corso della nostra esistenza.
Questo libro è conseguenza diretta della mia svolta al bivio, è il frutto del mio personale ORA SO.
E non posso tacere.
Partendo da Napoli, passando per Paderno Dugnano, poi Monfalcone, per arrivare a Trieste e poi a Nova Gorica e Anhovo in Slovenia, fino a Njivice in Croazia, questo è stato il mio personale viaggio sulle tracce dell’amianto, delle sue vittime, della giustizia da loro richiesta a gran voce e troppo spesso negata.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2017
ISBN9788899531300
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    Anteprima del libro

    La casa della giustizia perduta - Donata Milazzi

    risponderà?»

    1.

    Primo appartamento – Napoli, 1977

    L’inizio

    Da ragazzina pensi di essere invincibile, la morte non ti tocca …

    Filomena – 20/6/2014

    Sono Filomena e ho 55 anni.

    Se penso che gli anni in cui, ignara, ho respirato a pieni polmoni l’amianto, sono gli stessi anni in cui stavo costruendo il mio futuro, anni in cui il fervore della gioventù mi spingeva a fare programmi, a vagliare strade diverse, a progettare, a cambiare idea, a fare e disfare la matassa della mia vita di adulta, beh, lasciamelo dire, sembra proprio una beffa.

    Una beffa del destino.

    Era l’ottobre del ’77, non avevo ancora compiuto diciotto anni – sono nata per l’Immacolata, l’otto dicembre – e mi ero appena diplomata.

    Volevo iscrivermi a Lingue e per farlo dovevo fare l’anno integrativo, visto che mi ero diplomata all’Istituto Magistrale. Per racimolare un po’ di soldi decisi di trovarmi un lavoretto, solo qualche ora al giorno. Lo trovai proprio alla porta accanto a dove vivevo all’epoca con i miei genitori.

    Si trattava di una ditta individuale, l’Alberto C. di Napoli.

    Napoli, la patria del lavoro nero, la sua prassi, la normalità.

    Naturalmente anch’io sono stata assunta in nero, era mentalità comune. Il lavoro, era lavoro nero.

    Lavoravo prevalentemente la mattina, perché la moglie del titolare, la signora Antonietta, che all’epoca avrà avuto una sessantina d’anni, aveva bisogno di qualcuno che stesse in negozio la mattina mentre lei usciva a fare la spesa e altre commissioni.

    Il marito era rappresentante regionale per la Campania di diverse marche di Hi-Fi e quindi era sempre via per lavoro.

    Mi ricordo che la ditta oltre a trattare Hi-Fi era anche rappresentante di stufe catalitiche prodotte da una ditta di Ciriè, in provincia di Torino.

    La signora Antonietta ebbe la brillante idea – oggi lo posso proprio dire – di guadagnare dei soldi extra. Decide di farsi carico anche dell’assistenza di queste stufe e poiché all’inizio dell’autunno c’era sempre una gran mole di lavoro, pensa di prendersi un aiuto per il negozio.

    Io. Appunto.

    Mi facevano comodo quei soldi e così sono rimasta a lavorare con la signora Antonietta per circa quattro anni e mezzo.

    Purtroppo lavorando la mattina non riuscivo a seguire le lezioni all’università e inevitabilmente il mio piano di studi rallentava. Fino a fermarsi.

    Ricordo che nella cucina dell’appartamento la signora aveva ricavato un piccolo laboratorio per la manutenzione di queste stufe.

    Per circa tre anni e mezzo io e la signora Antonietta sistemavamo i pannelli delle stufe, perché era quello che nella stragrande maggioranza dei casi – a causa della combustione della stufa – si consumava e quindi andava ripristinato con l’amianto.

    Certo, allora non lo sapevo …

    La signora apriva il gas e con un accendino controllava dove il pannello perdeva, dove cioè venivano fuori le fiammate. In quel punto il pannello si era consumato. Quindi smontavamo il pannello dalla stufa, lo mettevamo sul tavolo e prendevamo, da una busta trasparente contenente una sorta di lanetta, queste fibre grigie, non belle da vedere, che pungevano le dita.

    Con questo materiale andavo a riempire gli avvallamenti presenti nel pannello della stufa, poi rimettevo al suo posto la griglia che teneva fermo il pannello e si rifaceva la prova con l’accendino o il fiammifero.

    Questa operazione veniva ripetuta fino a quando non si formavano più fiammelle.

    Mi ricordo che la signora Antonietta usava sempre guanti e mascherina per lavorare, le avevo anche chiesto il perché, non mi ricordo la risposta esatta, ma non doveva essere niente di tale, altrimenti mia madre, che era spesso lì con me, me li avrebbe fatti indossare.

    Da ragazzina pensi di essere invincibile, la morte non ti tocca, così ho continuato a non mettere alcuna protezione. Le precauzioni adottate dalla signora Antonietta mi sembravano solo le paranoie di una persona anziana. E poi lei mi aveva detto che si trattava di lana di roccia e lana di vetro. Io ero tranquilla. Ero così curiosa che andavo quasi con il naso dentro a quelle fibre.

    Ora rabbrividisco al solo pensiero …

    Dopo qualche anno mi sono trasferita a Trieste e a quel mio primo lavoro non ho più pensato; solo dopo aver scoperto d’essere ammalata, ho saputo che quelle fibre erano amianto.

    La ditta che produceva le stufe dichiarava apertamente che utilizzava l’amianto, la legge allora lo permetteva.

    Solo dopo gli anni ottanta, quando le campagne di sensibilizzazione contro il suo utilizzo hanno preso sempre più piede, la ditta ha incominciato a non utilizzarlo più e a sostituirlo via via con la ceramica.

    Mi ricordo che in quegli anni ero anche andata a vedere uno spettacolo di Antonio Albanese che utilizzando la comicità, denunciava la reale pericolosità dell’amianto.

    «Tutta la Brianza è fatta d’amianto, persino i suoi figli … » diceva ironico.

    E io ho riso anche se poi, tornata a casa, ho pensato «Mamma mia però … »

    Alla fine degli anni ottanta c’erano diversi personaggi della cultura e dello spettacolo che tentavano di forzare il governo a varare la legge contro l’utilizzo dell’amianto.

    Se ora ci penso …

    All’inizio del 2013 – a distanza di trentacinque anni – ho scoperto di essere ammalata di mesotelioma pleurico.

    Tutto è cominciato con un certo affanno nel salire le scale, ma all’inizio non ci ho proprio fatto caso, anche perché in quello stesso periodo avevo ben altre preoccupazioni, mi avevano infatti appena trovato un nodulo al seno e stavo facendo degli accertamenti.

    A fine giugno, conclusi più o meno tutti gli accertamenti e stanca di preoccupazioni, decido di partire per un viaggio in Canada.

    Questo viaggio però mi imponeva di ricominciare a camminare, cosa questa che nell’ultimo periodo – a causa del sempre maggior affanno – non facevo più.

    Detto, fatto.

    La sera del 16 luglio 2013 io e la mia amica Elena decidiamo di andare a camminare sulla pista ciclabile.

    Dopo aver percorso un tratto in salita, ci fermiamo sotto un ponte e mi accorgo che la mia amica mi guarda con preoccupazione e spavento.

    Alla mia richiesta di spiegazioni lei mi risponde «Mi avevi detto che avevi dei problemi, ma non avevo capito, non mi ero resa conto … tu non sei più in grado di respirare! Devi andare immediatamente dal tuo medico. Questa cosa non è normale! Guarda che domani sera ti telefono per sapere cosa ti ha detto».

    Rientrata a casa cerco l’orario di ricevimento del mio medico e l’indomani mattina mi reco presso il suo studio.

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