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Benvenuti all'inferno! Storia delle origini del Black Metal
Benvenuti all'inferno! Storia delle origini del Black Metal
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E-book524 pagine7 ore

Benvenuti all'inferno! Storia delle origini del Black Metal

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Sono molti gli autori che si sono inoltrati nei vasti territori del black metal moderno ma forse nessuno ha osato sviscerare in lungo e in largo le sue origini individuabili nei mitici anni '80.
Benvenuti quindi nella lunga parabola della cosiddetta “?rst wave of black metal”, ovvero un movimento musicale che dal 1981 al 1991 - cioè dall'uscita del seminale “Welcome to Hell” dei Venom all'apertura del negozio di musica “Helvete” con il quale si sarebbe realmente scatenato l'Inferno - ha messo le radici praticamente ovunque sconvolgendo in maniera totale il modo di suonare heavy metal. Allora, ecco che si va da Israele al Canada, da Singapore alla Norvegia, dai Paesi dell'America Latina ?no a quelli appartenenti al blocco sovietico, dove già il solo suonare musica rock costituiva di per sé un'impresa eroica.
È stata quindi analizzata ogni scena nazionale proto-black metal descrivendone le peculiarità e i gruppi principali andando oltre ai soliti nomi (Venom, Sodom, Mercyful Fate, Hellhammer…), in una continua ricerca a effetto nei meandri di una musica che all'epoca, più che un genere, era un modo di concepire l'heavy metal, esprimendone la versione satanica e blasfema per antonomasia.
Comprensivo di interviste ai Necrodeath, agli Schizo e ai brasiliani Holocausto oltre che di brevi recensioni delle produzioni dell'epoca, il libro contiene una sezione focalizzata sulla scena del rock occulto dagli anni '50 ai '70. Non vi resta altro che cominciare un viaggio in un mondo ostile e senza pace dove i dannati imperversano beati e torturati fra le Fiamme Eterne… e lunga e tortuosa sarà la strada.
666% garantito!
 
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2020
ISBN9791280133427
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    Anteprima del libro

    Benvenuti all'inferno! Storia delle origini del Black Metal - Flavio Adducci

    Nota dell’autore

    Poco prima di pubblicare l’ebook Nel Segno del Marchio Nero, fra l’altro nel giorno del mio compleanno che è il 24 marzo, mi ricordo che ero agitatissimo. Questo perché mi feci una serie infinita di turbe mentali chiedendomi cose tipo e se il libro verrà accolto male?, e se ho scritto qualche cazzata?, o forse dovevo aggiungere qualcos’altro?, e altre stupidate del genere. Fortuna che tutte queste turbe mentali si sono dimostrate ben presto totalmente inutili visto il buon riscontro che ha poi ottenuto, ed ecco quindi che tutto il lavoro di ben tre anni e mezzo per scriverlo non è stato vano. Certo, potevo lavorare ancora di più per avere più pubblicità e più recensioni ma, in fondo, non posso granché lamentarmi. Piuttosto l’unica cosa che rimaneva da fare, il mio sogno da realizzare e che mi è stato chiesto da tante, tantissime persone, era quello di stamparlo, darne finalmente un’edizione cartacea da sfogliare e da consumare. Ebbene, dopo tanto patire, questo sogno ce l’avete fra le mani!

    Ora, non tutti lo sanno ma, in origine, Nel Segno del Marchio Nero doveva intitolarsi Benvenuti all’Inferno!. Questo fu infatti il titolo che decisi insieme al mio editore, che allora si chiamava Chinaski Edizioni, qualcosa come quattro anni fa, solo che, per una ragione o per un’altra, il contratto fra noi venne rescisso, ergo quell’edizione non ha più visto la luce. Così, mi misi subito in azione allungando e pure di molto il saggio, facendolo infine uscire come ebook tramite il distributore online StreetLib con il titolo di Nel Segno del Marchio Nero dalla combinazione dei titoli di Under the Sign of the Black Mark dei Bathory e In the Sign of Evil dei Sodom, che trovavo molto suggestiva. E poi, il 14 luglio 2020, mentre mi stavo accingendo a fare jogging in Villa Pamphili, accadde l’inaspettato…

    Infatti, quella mattina mi chiamò Fabio Rossi, un mio amico saggista musicale ormai affermato autore di libri, tutti usciti appunto per la Chinaski Edizioni, su gente come Emerson Lake and Palmer e Rory Gallagher e che in quei giorni stava lavorando su un saggio con protagonista Quorthon e i suoi Bathory. Quindi, fra le altre cose, Fabio mi disse di aver parlato del mio libro al mio vecchio editore, che nel frattempo aveva cambiato il suo marchio editoriale in Officina di Hank, mi contattò tramite mail, dopo veramente un sacco di tempo. A questo punto, quasi non ci credetti perché nella mail mi si propose di riprovarci stampando finalmente il mio saggio, una volta per tutte. Insomma, devo dire che mi sono gasato un botto, inutile nasconderlo!

    Ecco quindi come sono andate le cose. Ed eccovi finalmente la versione definitiva del mio saggio, che nuovamente si intitola Benvenuti all’Inferno!. Approfittando dell’occasione, ho voluto ampliarlo abbastanza aggiungendo non solo un capitolo riguardante la striminzita scena iberica ma anche una lunga appendice che delinea una storia del proto-speed/thrash metal, originariamente pubblicata come articolo speciale, in inglese, sulla mia Timpani allo Spiedo ‘zine. Tutte queste (e altre) aggiunte, anzi, tutte le modifiche che ho apportato (comprendenti anche aggiornamenti, tagli e correzioni varie – per fare un esempio, è saltato fuori che certi demo misconosciuti sono usciti qualche tempo dopo o qualche tempo prima rispetto a quanto inizialmente riportato nella prima pubblicazione, in base agli stessi aggiornamenti effettuati su siti quali Metal-Archives), le ho fatte specialmente proprio per questi lettori, che così si ritrovano qualcosa di nuovo da leggere. E, ovviamente, anche per i nuovi lettori, che invece hanno immediatamente fra le mani un saggio il più completo e vario possibile.

    Ma ora basta con questa nota introduttiva, e quindi non vi resta che cominciare questo lungo viaggio negli abissi più oscuri della musica metal. Buona lettura!

    Roma, 31 agosto 2020

    Flavio Adducci

    PREFAZIONE

    Il black metal. Un genere con connotati precisi e ben codificati sia per quanto attiene agli stilemi musicali che lo caratterizzano, che per ciò che riguarda filosofia, argomenti preferiti e codici comunicativi estetici. Tutto molto chiaro a partire dagli anni ’90. Eppure, c’è stato un tempo in cui non solo il black non era così facilmente catalogabile, ma non era nemmeno distinguibile con precisione dagli altri generi. A partire dai primi anni ’80 e fino al 1991 circa, lo stile in questione era più paragonabile a un enorme calderone in cui gruppi diversissimi tra loro si scontravano nel cuore di un fluidissimo e magmatico plasma musicale che, in sostanza, li teneva uniti quasi solo dall’uso di determinate tematiche nei testi e poco altro. Spesse volte più a uso e consumo della critica, che per effettive affinità.

    Seguire la scena del tempo significava quindi essere schiavi delle semplici, sulfuree e punkeggianti canzoni dei Venom, così come degli intricati e sinistri arzigogoli dei Mercyful Fate. Ascoltare i Witchfynde come gli Hell. Muovendosi tra tutto ciò che vi passava in mezzo e oltre, attraverso una miriade di formazioni che oggi classificheremmo in maniera totalmente diversa. E tutto questo non era che da considerare come un punto caldo della storia del metal che, partendo da questa lunghissima serie di prodromi sviluppatisi nell’arco di circa dieci anni avrebbe portato a partire dal 1993 al black metal nella sua forma moderna e contemporanea e ad una lunga serie di sottogeneri. Uno smisurato numero di scorie metalliche che avrebbero creato un’infinita serie di torrenti, fiumi e fiumiciattoli più o meno carsici e impetuosi che tutt’oggi frastagliano il paesaggio del metal. Rendendolo qualcosa di unico nel panorama artistico mondiale.

    Di quella decennale esplosione oscura che ha condotto al black metal attuale, sono stato a suo tempo testimone diretto - non è un vanto, semplice questione di età - e con grande piacere ho notato come Flavio Adducci abbia costruito Benvenuti all’Inferno! rendendola con estrema meticolosità. Contestualizzando i due lustri analizzati dopo essere partito dalle prime, lontanissime avvisaglie di quello che sarebbe stato, citando addirittura il leggendario Robert Johnson e chiarendo la definizione stessa di proto-black metal. Approfondendo poi non solo la questione riguardante i singoli gruppi che possono essere definiti fondamentali per la creazione della cifra stilistica di quello che sarebbe stato il black prossimo-venturo, ma suddividendo la sua analisi in vari blocchi riguardanti precise scene nazionali. Non focalizzandosi banalmente soltanto su quelle principali e di solito relativamente conosciute (Stati Uniti, Germania, Svezia, Norvegia, etc.) o quelle mediamente note (Italia, Belgio, Olanda, Spagna), ma anche e soprattutto appartenenti a Paesi che di solito non vengono in mente che in seconda o terza battuta; o non vengono in mente affatto, come Argentina, Messico, Cile e altre.

    Probabilmente, alla fine è proprio questo il merito maggiore di Adducci; accanto a un lavoro certosino di ricerca che rispolvera una lunghissima serie di band note (dai Motörhead del mitico Lemmy agli Acid di Kate De Lombaert), che hanno in qualche modo creato le premesse per arrivare a imprimere a fuoco il marchio nero su una scena, l’autore ne storicizza moltissime altre ricordate a malapena. Di queste, una parte risulterà sicuramente del tutto misteriosa e affascinante da scoprire per alcuni, come quella composta da Expulser, Fantom, Kat e altre di questa risma, giusto per fare qualche citazione. Adducci le presenta surfando con stile colloquiale, il che denota la sua appartenenza concettuale al mondo delle fanzine tra le scene dell’Est europeo, quelle Sud e Nordamericane dell’epoca e tutte le altre. Descrivendo, raccontando, puntualizzando senza mai pontificare, ma scrivendo invece come farebbe un competente appassionato che parla a dei pari grado.

    Benvenuti all’Inferno! è ora un libro lungo e strutturato, che tuttavia si lascia leggere d’un fiato. Coinvolgendo quando riprende storie note di gruppi conosciutissimi con cui è sempre bello avere a che fare, ma che affascina quando lascia il sentiero più battuto e si avventura sulle rive più nascoste di quei fiumi di metallo cui accennavo prima. Per poi mescolarsi mentalmente con quella oscura marea da cui prorompono urla, distorsioni zanzarose, ribellione agli schemi, voglia di libertà e di essere vivi. Pur al netto di alcune esecrabili storture che ne hanno inquinato certe manifestazioni estetiche e programmatiche.

    Black: fuori dal gregge. Sempre!

    Francesco Gallina¹

    1 Saggista musicale messinese, scrive per Metallized e ha pubblicato negli ultimi anni vari libri, il più recente dei quali è Donne Rocciose (Arcana Edizioni, 2019).

    INTRO

    Il 6 marzo 2016, mentre parlavo con un carissimo amico di quello che sarebbe diventato il libro che ora state leggendo, lui a un certo punto se ne esce ponendomi un quesito che, a dire il vero, non mi ero mai posto durante la stesura: Ma quali sono i valori del black metal? Non so, la libertà individuale?

    Macché, quale libertà!

    I valori del black metal sono tutti a carattere negativo: odio, violenza, misantropia, vampirismo, occultismo, magia nera, guerra alla cristianità e chi più ne ha più ne metta. Ma soprattutto Satana, l’ispiratore principale a cui innumerevoli gruppi black hanno dedicato altrettanto innumerevoli canzoni atte a evocare il Male assoluto.

    Tutto ciò ovviamente si rispecchia nella stessa musica; una musica estremamente passionale, violenta, tecnicamente primitiva eppure maestosa, caratterizzata da pezzi spesso lunghi, da chitarre zanzarose in un costante tremolo picking², dalle quali però traspare spesso un’agghiacciante melodia di fondo realizzata attraverso rumorosi ed elementari accordi (a differenza del rivale death metal, che preferisce suonare le note singolarmente), una batteria che va a velocità folli suonando in blast-beat³, un basso quasi irrilevante perché spesso sotterrato dagli altri strumenti, e un cantante che si sfascia le corde vocali lanciando urla esasperate e disperate che sono vere e proprie lodi al Signore delle Tenebre. Il tutto viene avvolto da una qualità sonora così discutibile, così sporca e così a bassa fedeltà da rendere questa musica da tempesta infernale un qualcosa di indecifrabile per i non avvezzi a tali sonorità, quasi per spaventarli e allontanarli così da non far varcare loro un territorio pericolosissimo. Tutto ciò per la gioia dei fanatici di questo genere che, ascoltandolo, si ritrovano a concentrarsi al massimo delle proprie possibilità per scoprire anche i dettagli più nascosti, per scoprire i segreti più reconditi e dannati delle canzoni. Insomma, una musica facile da suonare e dalle strutture semplici (almeno generalmente) eppure difficile da ascoltare.

    E pensate, le caratteristiche menzionate hanno contribuito a dare vita a una musica così rivoluzionaria che negli anni ’90 fu criticata dai metallari più tradizionalisti, che allora si chiesero se il black metal fosse ancora vero e proprio heavy metal, tanti furono i canoni di quest’ultimo distrutti dal black, cosa che fa già capire l’estrema unicità di questo genere nell’intero panorama metal.

    A ogni modo, l’approccio descritto è soltanto una formula, destinata, come molte altre, a essere riletta e reinterpretata in numerose versioni. Non a caso, negli anni il black metal si è evoluto in tante e inaspettate forme da creare un’infinità di sottogeneri, dall’industrial black metal degli Aborym al viking black metal degli Enslaved, dal war black metal dei Bestial Warlust (il mio preferito, di gran lunga) al raffinato black metal sinfonico dei Cradle of Filth, permettendoci di assistere perfino alla nascita di estremismi negli estremi, come il black metal cristiano degli Horde o il National Socialist Black Metal (il cosiddetto NSBM) degli Absurd, cioè distorsioni veramente oltre e sempre controverse di una musica con cui, alla fine, ci si può fare quello che si vuole nonostante il suo messaggio originario. Ma gli stessi gruppi capiscuola hanno mutato radicalmente la propria musica degli esordi per farla divenire anche altro rispetto al black metal; un po’ come dire che la stessa semplicità del black metal gli ha permesso di esplorare le più svariate soluzioni, mentre solo poche formazioni della vecchia guardia sono rimaste ostinatamente attaccate alle radici barbare e primitive del genere, ora ritornate in voga grazie a un’orda di gruppi più giovani legati all’attitudine black più TRVE⁴ e incontaminata possibile.

    Queste radici barbare e primitive trovarono la loro migliore espressione soprattutto a partire dal 1994, l’anno nel quale il black metal esplose del tutto tirando fuori uno dopo l’altro alcuni dei suoi maggiori capolavori, da Hvis Lyset Tar Oss di Burzum a Transilvanian Hunger dei Darkthrone, da The Principle of Evil Made Flesh dei Cradle of Filth a De Mysteriis Dom Sathanas" dei Mayhem.

    Ecco, i Mayhem sono i padrini del black metal norvegese. Il loro chitarrista e leader Euronymous era talmente entusiasta della propria musica da essere sempre in contatto con metallari provenienti dalle parti più impensabili del Pianeta Terra; metallari tutti occupati a creare la propria versione del black metal negli stessi anni dei Mayhem, quasi come se una qualche misteriosa forza occulta avesse voluto sintonizzare fra loro artisti molto lontani geograficamente facendo suonare loro delle musiche simili, magari senza che l’uno sapesse dell’esistenza dell’altro, se non grazie all’ormai invalsa pratica del tape-trading (che verrà trattata approfonditamente più avanti). Ecco così nascere diversi stili autoctoni, i principali dei quali sono quello norvegese, quello svedese e quello greco, oltre ad altri minori che, sommati, rendono il black metal un genere davvero internazionale, come del resto l’heavy metal tutto: una musica patologicamente combattiva capace di infiltrarsi ovunque grazie al lavorio dei suoi devotissimi fan.

    Furono fra l’altro gli stessi Mayhem a dare inizio nei primi anni ’90 a una sorta di guerra ideologica contro il death metal, che anni prima aveva aperto un conflitto simile con il thrash metal; ma in maniera decisamente più ludica e goliardica. Ironicamente, però, prima che il black metal prendesse consapevolezza di se stesso in quanto genere definito, parecchi gruppi ad esso ascrivibili si appellavano indifferentemente black o death, perciò i due filoni per un po’ convissero in maniera del tutto pacifica. Solo che appena il metallo della morte, capitanato da band come gli svedesi Entombed e gli statunitensi Morbid Angel, divenne nel 1993 un genere relativamente commerciale trattato sui giornali comuni come fosse normale musica pop, il black metal iniziò a prendere vita propria divenendo molto popolare fra i giovani metallari che volevano qualcosa di più estremo, fresco ma anche pericoloso, come non lo era più il death metal, nonostante la musica tenebrosa e le (innocue) tematiche splatter e gore⁵ che non concretizzavano alcun vero male. Perciò serviva un altro tipo di metal brutale in grado di sostituire in maniera definitiva il death metal, così anche da riportare la musica metallica alle sue forti origini underground. Eppure, moltissime formazioni black della cosiddetta seconda ondata cominciarono la propria carriera esattamente dal death metal. Addirittura gli stessi Mayhem.

    Ma questa musica, insieme al suo immaginario violento e satanico e alla sua estetica basata principalmente su uno spettrale trucco cadaverico (in gergo, corpse-painting), dove ha trovato le sue radici barbare e primitive? Quali sono stati i gruppi che hanno anticipato molto del black metal moderno esploso negli anni ’90? E quali sono stati i protagonisti della cosiddetta first wave of black metal?

    Quante domande, signori! Tranquilli, scopriremo tutto cammin facendo. Ma attenti, perché adesso entrerete in un mondo ostile e senza pace dove i dannati imperversano beati e torturati fra le Fiamme Eterne… e lunga e tortuosa sarà la strada.

    Lasciate ogni speranza oh voi ch’entrate e quindi…

    BENVENUTI ALL’INFERNO!

    2 Il tremolo picking (in italiano plettrata tremolante o, appunto, zanzara) è una tecnica chitarristica che consiste nel suonare una nota in maniera continua e il più velocemente possibile, pizzicando la corda con rapide pennate alternate.

    3 Il blast-beat (letteralmente battito a raffica) è una tecnica usata principalmente dai batteristi di metal estremo che si basa sulla continua alternanza di colpi eseguiti tra grancassa e un qualsiasi altro fusto, solitamente il rullante, con velocità sostenute, quasi sempre al di sopra dei 200 bpm in sedicesimi.

    4 L’attitudine true, cioè vera, tanto decantata oggigiorno soprattutto dai gruppi portoghesi, si rifà a un’assoluta devozione verso i canoni del black metal degli anni ’90, così da rifiutare totalmente le successive evoluzioni del genere, spesso avulse dal suo messaggio originario e, perciò, ritenute false. Quindi, secondo questa attitudine, il black metal, come si vedrà più avanti, dev’essere primitivo, satanico, malvagio, misterioso e lontano da qualsiasi mira commerciale.

    5 Splatter (to splat = schizzare) e gore (sangue o spargimento di sangue) sono due termini usati principalmente per definire un particolare sottogenere cinematografico di tipo horror, esploso soprattutto durante gli anni ‘80, dove l’attenzione è posta su sanguinari effetti speciali di una estrema violenza visiva che rappresentano realisticamente sbudellamenti, squartamenti, scene di tortura, occhi strappati dalle loro orbite e quant’altro sia utile per scioccare e disgustare lo spettatore.

    DEFINIZIONE DI PROTO-BLACK METAL

    Però, cari miei, siccome io sono il vostro Virgilio, mentre voi impersonate, tutti quanti, quella palla al piede di Dante, ora mi arrogo subito il diritto di fermarvi davanti all’ingresso dell’Ade (con Cerbero che intanto vi guarda con gli occhi iniettati di sangue, i denti digrignanti e della schifosa bava che esce copiosa dalla bocca) per una piccola puntualizzazione. Perché, insomma, mica vorrete sul serio entrarci senza un minimo di conoscenze sufficienti per non cadere immediatamente nella lava dell’Inferno, no?

    Premettendo che proto è una parola di origine greca che viene usata nelle parole composte e che significa primo nel tempo o nello spazio, dovete porvi questa domanda: cos’è il proto-black metal? Beh, è tutto e niente.

    Definizione vaga questa. Mi spiego meglio.

    È tutto perché, per farla semplice, il proto-black metal sarebbe del generico heavy metal con tematiche sataniche. Ecco, in questo modo ogni gruppo che affronta temi analoghi può essere etichettato come black metal. Anche perché, del resto, negli anni ’80 succedeva effettivamente così con tutta una serie di formazioni una più diversa dall’altra; seppure, a dir la verità, a un certo punto si usò quest’etichetta in modi del tutto inappropriati. E da qui si capisce che la definizione di cui sopra è alquanto riduttiva.

    Ma allora perché è anche niente?

    Proprio perché il black metal del tempo poteva essere suonato da band fra loro diversissime non avendo contorni netti in quanto genere a sé stante, cosa che difatti non era. Ecco così emergere una valanga di gruppi che, spaziando dall’heavy allo speed, dal thrash al death (che si stava sviluppando proprio insieme al black metal, solo che sarebbe maturato prima di quest’ultimo) e perfino al power metal, non trattavano soltanto tematiche sataniche ma facevano in modo di trasporle nelle sonorità (e questo, credetemi, allora non era così scontato, come vedrete più avanti), evocando suggestioni veramente oscure e malvagie in stile possessione diabolica.

    Quindi: il proto-black metal è, detto comunque sempre genericamente, un heavy metal dalle atmosfere sataniche e oscure; ovvero un modo tipicamente ottantiano di pensare, di concepire l’heavy metal.

    Ma ancora non basta.

    Infatti, se la suddetta definizione è comunque sufficiente e valida perché rappresenta un compromesso fra i labili canoni in vigore negli anni ’80 e quelli più precisi di oggi (grazie ai quali risulta impresa abbastanza facile affermare se un gruppo sia realmente black o no), non bisogna basarsi solo sulle tematiche e sulla, in ogni caso fondamentale, capacità di trasmettere un clima infernale. Perciò, per comprendere appieno quanto formazioni diversissime come i Bathory o gli Oz fossero effettivamente vicine a ciò che si intende oggigiorno per black metal, bisogna focalizzarsi moltissimo sulle varie scelte musicali/attitudinali/esecutive/estetiche/liriche dei gruppi anni ’80, visto che molte di esse sono state poi riprese e sviluppate (meglio o peggio è soltanto una mera questione di punti di vista) dalla seconda ondata dei vari Mayhem, Emperor, Darkthrone e così via. Non dimentichiamo inoltre che, come si vedrà, rarissime formazioni proto-black erano capaci di evocare scenari veramente infernali senza parlare minimamente di Satana et similia. Ciò perché, se un gruppo non rispetta una o più condizioni tipiche del black metal, non significa necessariamente escluderlo da tale genere musicale.

    Adesso, cari miei Dante, fate un bel lungo respiro, pregate Dio… ora sì che potete entrare nel Regno degli Inferi!

    ROBERT JOHNSON E LA MUSICA DEL DIAVOLO

    C’era una volta Robert Johnson, un bluesman afroamericano che morì in circostanze misteriose il 16 agosto 1938 all’età di soli 27 anni, forse avvelenato con l’arsenico dal gestore del bar dove era stato scritturato perché, donnaiolo e bevitore incallito com’era, se la intendeva proprio con la moglie del capo.

    Purtroppo sui dati biografici di Robert Johnson si sa tuttora talmente poco che il suo nome è letteralmente avvolto dalla leggenda più impenetrabile. Ma di lui si dice che avesse venduto l’anima al Diavolo per diventare un chitarrista con i controfiocchi. Leggenda alimentata da lui stesso e teoricamente corroborata dal fatto che, dopo la morte della prima moglie – deceduta appena sedicenne nel 1930 causa parto – si trasferì per un po’ dalla cittadina di Robinsonville a quella di Martinsville (entrambe nel suo Mississippi) dove, grazie agli insegnamenti di un misterioso mentore, divenne così talentuoso con il suo strumento che, al ritorno, sorprese tutti mostrando doti eccezionali nonostante poco tempo prima non fosse altro che un mediocre musicista. Quel misterioso mentore era un certo Isaiah Ike Zimmerman, che aveva la curiosa abitudine di suonare e insegnare all’interno di un cimitero vicino casa all’ora di mezzanotte… semplicemente perché, come si sarebbe scoperto molti anni dopo grazie al racconto di una sua figlia, non voleva disturbare il sonno della moglie e della numerosa prole⁶!

    Fortunatamente, del genio di Robert Johnson è rimasta qualche effettiva testimonianza, visto che fra il novembre 1936 e il giugno 1937 quest’anima dannata del Mississippi incise, fra San Antonio e Dallas nel Texas, ventinove tracce per le etichette Okeh Records e Vocalion Records, lasciando così ai posteri il suo blues complesso e incredibilmente tecnico conosciuto come Delta Blues (dal Delta del Mississippi), caratterizzato liricamente da continui riferimenti a spiriti maligni e demoni, in pezzi come Hellhound on my Trail (dove si immagina di essere perseguitato da un segugio infernale) o in Me and the Devil Blues (dove invece narra di un incontro con il Demonio stesso).

    In un certo senso, si può dire che è proprio a causa sua che il blues ha cominciato ad avere la nomea di musica del Diavolo; e così è stato per il rock, suo figlio diretto. Non a caso, molti grandi artisti rock hanno reinterpretato durante gli anni varie canzoni di Robert Johnson. Fra questi si annoverano Eric Clapton e i Rolling Stones ma anche i Blues Brothers, che coverizzarono la sua Sweet Home Chicago inserendola fra l’altro nel loro omonimo film del 1980 diretto da John Landis.

    Probabilmente è proprio a Robert Johnson che si può far risalire la nascita del rock satanico, sebbene ci sia sempre stato un legame strettissimo fra il Diavolo e la musica afroamericana fin da quando gli schiavi neri cantavano le loro devil songs (come le chiamavano i bianchi timorati da Dio) mentre erano al lavoro nelle piantagioni.

    È un peccato che Satana abbia sempre le migliori canzoni, come disse una volta il fondatore della Chiesa Metodista John Wesley⁷ dopo i primi esperimenti di cristianizzazione degli schiavi neri che si risolsero, agli inizi, in uno strano e diabolico connubio pregno di superstizione fra il cristianesimo e il paganesimo di origine africana.

    6 Se volete saperne di più sulla figura di questo personaggio, vi consiglio di leggere il seguente articolo: http://www.spaghettiblues.it/IRedeiRE.html.

    7 Arrigo Polillo – Jazz, pag. 31 (Arnoldo Mondadori Editore, 1975).

    LA CHIESA DI SATANA E LA FINE DELLE ILLUSIONI

    Le prime avvisaglie di satanismo nella cultura popolare, che poi creeranno direttamente o indirettamente il vero rock satanico, si ebbero però intorno alla fine degli anni ’60.

    Risale infatti al 30 aprile del 1966 la costituzione a San Francisco, California (città tradizionalmente molto ricettiva nei confronti delle culture cosiddette alternative), della Chiesa di Satana. Fondatore e Gran Sacerdote fino al 1997 (quando morì, a 57 anni, per infarto) di questa curiosa istituzione religiosa che contempla addirittura un matrimonio satanico legalizzato a tutti gli effetti, è Anton Szandor LaVey (nato come Howard Stanton Levey), un altro misterioso personaggio di cui si hanno pochi dati biografici certi prima del 1966, a parte il fatto che avesse lavorato come organista in alcuni strip-club e (forse) come fotografo per la polizia… e mille altri lavori più o meno bizzarri come scritto sulle biografie da lui pilotate quando ancora era in vita, una delle quali scritta dalla sua compagna e segretaria Blanche Barton.

    Fondata insieme all’amico cineasta d’avanguardia Kenneth Anger, la Chiesa di Satana non fu però creata con propositi realmente blasfemi. Come spiegato approfonditamente dallo stesso LaVey nel suo primo libro La Bibbia Satanica, pubblicato nel 1969, la filosofia che sta alla base di essa è infatti di tipo sostanzialmente edonista in quanto considera ogni essere umano come un vero e proprio dio volto a soddisfare i propri piaceri, usando al contempo Satana come un semplice simbolo di ribellione.

    È probabilmente proprio per questo che fu persino ben vista dall’alta società di quegli anni, tanto che il regista Roman Polanski volle (e ottenne) la collaborazione di LaVey come consulente per il suo film Rosemary’s Baby (1968) nel quale veniva esplorato il torbido mondo delle sette sataniche. Bisogna però dire che questa grande visibilità fu permessa anche dalle conoscenze d’alto bordo di Anger, controverso regista omosessuale di cortometraggi d’avanguardia diventato famoso fra le cerchie di Hollywood con Fireworks, girato nel 1947 quando aveva solo 20 anni. Fu infatti proprio grazie a lui che a fine 1966 s’iscrisse alla Chiesa di Satana addirittura la nota attrice Jayne Mansfield, una rivale, purtroppo in crisi nera, di Marylin Monroe, di cui era una sorta di clone, destinata sfortunatamente a morire in un brutale incidente automobilistico nel 1967 a soli 34 anni.

    Ponendosi fin da subito come un’entità multidisciplinare, la Chiesa di Satana fu enormemente pubblicizzata nel 1968, con tanto di uscita via Murgenstrumm Records (gestita dallo stesso LaVey) di The Satanic Mass, la prima incisione su vinile strettamente satanica della Storia, la quale presentava 8 pezzi tutti parlati (quindi del genere spoken word⁸) introdotti dai quasi 20 minuti della titletrack, cioè una vera e propria messa satanica celebrata in occasione del battesimo (naturalmente satanico) della figlia più piccola del Gran Sacerdote, Zeena.

    Dopodiché, nel 1969 fu la volta del cortometraggio di 11 minuti Invocation of My Demon Brother di Kenneth Anger (con LaVey nel ruolo di se stesso), le cui musiche furono addirittura curate da Mick Jagger dei Rolling Stones (di cui parlerò più avanti). Invece il successivo film di questo provocatorio regista californiano, Lucifer Rising (finito di girare nel 1972 ma distribuito soltanto nel 1980), ebbe come collaboratore musicale nella versione definitiva del 1980 – dopo un tentativo fallito, per via di una serie di screzi, con Jimmy Page dei Led Zeppelin – Bobby Beausoleil, un criminale appartenente alla famigerata Manson’s Family, il quale curò la colonna sonora della pellicola direttamente dal carcere. Sta tuttora scontando l’ergastolo per l’omicidio di un insegnante di musica commesso il 27 luglio 1969.

    È da notare però che la Chiesa di Satana, forse per la sua natura rispettabile nella società normale, oggigiorno non trova sempre consensi negli ambienti del metal estremo di impronta satanica, venendo alle volte addirittura derisa. Ne danno un lampante esempio i black/death metallers australiani Abominator che, durante un’intervista sull’edizione italiana della rivista Grind Zone, definirono il satanismo laveyano come troppo noioso e mondano⁹.

    Ritornando al nostro racconto, la Manson’s Family era una comune di San Francisco composta da giovani sbandati che facevano capo al carismatico Charles Manson, un pregiudicato appassionato di occultismo che conosceva i segreti più reconditi dell’ipnosi e che aveva il pericoloso pallino di diventare una rockstar; sogno infranto più e più volte tanto che, secondo alcuni, arrivò a esorcizzarlo brutalmente persuadendo i suoi adepti a uccidere varie persone collegate più o meno direttamente con quel sogno. Il tutto culminò nella terribile notte del 9 agosto 1969, quando fu consumata la strage in casa Polanski che vide, fra gli altri, l’omicidio della stessa moglie del regista, la ventiseienne Sharon Tate, incinta di otto mesi e uscita da poco dalle riprese di Una su 13 di Nicolas Gessner/Luciano Lucignani con un istrionico Vittorio Gassman.

    Arrestato qualche mese dopo, Charles Manson, fan depravato dei Beatles tanto da omaggiare la loro Helter Skelter proprio in quella strage, fu condannato dapprima alla pena capitale e poi all’ergastolo, trovando effettivamente la morte in carcere il 19 novembre 2017 a 83 anni a causa di un arresto cardiaco. Durante il processo si dipinse in fronte una X, in seguito sostituita da una svastica: un comportamento provocatorio che sarà tipico del punk (non a caso, il volto allucinato di Manson fu usato dal feroce gruppo punk/HC bostoniano Negative FX per il loro unico e omonimo album del 1984) e, in modo più serioso, del black metal.

    A proposito dei Beatles: questa sorta di pionieri della rivoluzione giovanile che sarebbe culminata nel ’68 misero sulla copertina dell’ambiziosissimo (e costosissimo) Sgt. Peppers’ Lonely Hearts Club Band del 1967 vari personaggi più o meno famosi, compreso il controverso occultista britannico Aleister Crowley, cioè colui che si autodefinì addirittura come l’uomo più cattivo che sia mai esistito¹⁰; un’inclusione che, a parte essere un piccolo segnale che la musica rock stava diventando pericolosa, non era poi così casuale, visto il passato del gruppo.

    Infatti, durante il periodo della Beatlemania durato all’incirca dal 1963 al 1966, i quattro ragazzi di Liverpool sembravano governati da una qualche misteriosa forza occulta che permetteva loro di aizzare giovani folle di fan estasiati con il risultato di provocare indirettamente non solo disordini sedati con molta fatica dagli organi di polizia, ma anche veri e propri svenimenti di ragazze eccitatissime nel vedere in concerto i loro beniamini! Senza contare le violente reazioni alla nota affermazione di John Lennon secondo cui i Beatles sarebbero stati addirittura più famosi di Gesù Cristo; ragion per cui, in alcune parti degli Stati Uniti, i loro dischi furono letteralmente messi al rogo.

    Sempre negli Stati Uniti e più precisamente il 29 agosto 1966 nell’alternativa San Francisco, i Beatles, a chiusura di un tour estenuante, tennero il loro ultimo concerto ufficiale: decisero di farla finita con le esibizioni dal vivo, anche per difendere la propria incolumità, ormai sempre a repentaglio per via dei fan.

    Sempre Aleister Crowley era praticamente il feticcio dei Led Zeppelin. Nati nel 1968 a Londra, subito acquisirono un tale prestigio con i due album rigorosamente senza titolo del 1969 che il loro chitarrista Jimmy Page, avido collezionista e studioso degli scritti appunto di Crowley, comprò nel 1970 la famosa Boleskine House, una tenuta dalla fama alquanto maledetta appartenuta proprio al suo Maestro, il quale molti anni prima vi aveva compiuto misteriosi rituali. E pare che il proprietario precedente al musicista, un certo Maggiore Edward Grant, si fosse suicidato nel 1965 proprio in quella che era stata la camera da letto di Crowley! Inoltre, lo stesso Page aprì a Londra, sempre in quel periodo, la libreria dedita all’occultismo Equinox, il cui nome era un atto d’amore verso lo stesso Crowley che, a suo tempo, aveva condotto un omonimo periodico di magia occulta; anche se purtroppo l’impresa di Page fu ben presto chiusa dati i suoi impegni sempre più gravosi con la band. Infine, il gruppo stesso incluse, fra i solchi del vinile di Led Zeppelin III, il terzo album (Atlantic Records, 1970), un messaggio nascosto che non era altro che una citazione della celebre massima in inglese arcaico del solito Aleister Crowley: Do what thou wilt/So mote it be. Che, tradotto, significa: Fa’ ciò che vuoi, così potrai essere¹¹. A sua volta, la massima di Crowley non rappresenta altro che la rivisitazione in chiave occulta del Fa’ ciò che vuoi educativo reso famoso dal romanzo satirico Gargantua (1532) del francese François Rabelais, posto come unica regola da rispettare all’interno dell’immaginaria Abbazia di Theleme, presente nella suddetta opera. Thelema, guardacaso, proprio come la filosofia inaugurata da Crowley. Inutile dire che la suddetta massima sarebbe stata citata più e più volte nel rock settantiano prima e nell’heavy metal poi.

    A questo punto, da menzionare è anche IV, il quarto album dei Led Zeppelin (Atlantic Records, 1971), che sarebbe diventato celebre per vari motivi, fra cui per quei quattro misteriosi simboli magici sulla copertina, ciascuno associato a un membro del gruppo (Page si scelse la runa del fantomatico ZoSo, presa probabilmente dall’alfabeto magico del grande matematico astrologo del Rinascimento italiano Girolamo Cardano); e per l’immortale Stairway to Heaven, uno dei brani rock più popolari di sempre nonostante contenesse, per la gioia e il fascino perverso dei censori moralisti, un messaggio subliminale inneggiante a Satana, non si capisce se messo lì apposta o meno.

    Alla luce di tutto ciò, si può dire che gli Zeppelin siano stati uno dei primi gruppi seriamente occulti del rock, tanto da aver contribuito inconsapevolmente alla distruzione della flower power generation. Senza parlare poi del fatto che sarebbero stati incredibilmente influenti per l’heavy metal, considerate certe loro tematiche ispirate al Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien e al folclore pagano nordico, entrambi poi saccheggiatissimi dal black metal.

    A concludere in via definitiva l’era pace e amore degli hippie ci pensarono i Rolling Stones. Concepiti in un certo senso come la versione brutta sporca e cattiva degli amici/rivali Beatles, affrontavano temi scabrosi inerenti anche l’occultismo, tanto da intitolare il loro album del ’67 Their Satanic Majesties Request (Decca Records), celebre oltretutto per Sympathy for the Devil nella quale il cantante Mick Jagger impersona nient’altro che Lucifero.

    Ebbene, quattro mesi dopo il leggendario festival di Woodstock che fu il culmine di quest’era, il 9 dicembre 1969 si tenne, in California, l’Altamont Free Concert, un festival gratuito organizzato dagli stessi Stones, che però partì subito con i peggiori auspici per finire ancor peggio! Per esempio, come security gli organizzatori ebbero la brillante e irripetibile idea di assoldare gli Hell’s Angels, leggendario club di motociclisti rissosi dallo stile di vita al limite della legalità che con l’atmosfera da ebetudine hippie non c’entravano un fico secco. Ma quel che è peggio è che, già dopo vari incidenti anche particolarmente violenti occorsi durante la manifestazione, quando la band attaccò con Under My Thumb si scatenò definitivamente l’Inferno: un diciottenne afroamericano di nome Meredith Hunter, che pare avesse sparato per aria un colpo di pistola, fu ucciso proprio da un Hell’s Angel, tal Alan Passaro, poi scagionato da qualsiasi accusa perché si ritenne che avesse agito per legittima difesa. La cosa assurda è che in quel festival non solo morirono quattro persone (di cui solo una assassinata), ma nacquero paradossalmente altrettanti bambini!

    Così, con il violentissimo Altamont Free Concert si segnò la definitiva fine delle illusioni che avevano caratterizzato con ingenuo ottimismo la flower power generation, dando il via a un periodo buio da cui sarebbero scaturiti i Black Sabbath, uno dei gruppi rock più influenti di sempre.

    8 Più nello specifico, il cosiddetto spoken word è una forma di poesia recitata, a volte tramite esibizioni che includono anche musica e danza. Alcuni fra i suoi maggiori interpreti vengono citati proprio in questo libro, come Jello Biafra, ex-leader dei Dead Kennedys, ed Henry Rollins, una volta cantante dei Black Flag.

    9 Grind Zone, n. 1, febbraio/marzo 2004 (Sonnen Verlag International AG), pag. 64.

    10 Un’espressione che potete leggere anche dando un’occhiata su Wikipedia attraverso il seguente link:

    https://it.wikipedia.org/wiki/Aleister_Crowley#Soggiorno_in_Italia:_l.27abbazia_di_Thelema.

    11 https://it.wikipedia.org/wiki/Led_Zeppelin_III#Page_e_Crowley.

    DA SCREAMIN’ JAY HAWKINS AI BLACK SABBATH

    Adesso facciamo un passo indietro di una decina di anni, giusto per parlare finalmente di musica in senso stretto. È quindi ora il momento di parlare di Screamin’ Jay Hawkins.

    Jalacy Hawkins, da Cleveland, Ohio, era uno dei tanti bluesmen afroamericani che negli anni ’50 cercavano di sbarcare il lunario dopo aver iniziato la carriera musicale quando a 24 anni, nel 1951, trovò lavoro come pianista jazz per conto del chitarrista Tiny Grimes, molto importante nello sviluppo del bepop (cioè un sottogenere jazz, per chi non sapesse). Dopo due anni però il nostro si mise in proprio, e fece uscire uno dietro l’altro qualche singolo dal ’53 al ’56. Ma poi, ecco arrivare l’illuminazione, o meglio, quell’incantesimo delirante dal titolo I Put a Spell on You, un pezzo del 1956 pubblicato dalla Okeh Recordings (sebbene la sua prima versione fosse stata registrata per la Grand Records a fine 1955) destinato a influenzare moltissimi musicisti fra i più svariati, alcuni dei quali lo avrebbero coverizzato aggiungendogli il proprio tocco personale.

    Il bello è che I Put a Spell on You nacque come ballata blues d’amore. Ma Jalacy, anzi, Jay e i suoi compari erano talmente ubriachi in sede di incisione che la fecero diventare qualcos’altro. Qualcosa di cupo, qualcosa di bestiale, qualcosa di assolutamente disperato che riesce a far rabbrividire ancora oggi perfino i più navigati ascoltatori. Ciò è merito soprattutto della prestazione vocale totalmente fuori controllo dello stesso Jay che, oltre a essere un cantante molto tecnico e versatile, qui si scatena del tutto urlando e grugnendo come in preda a una qualche forza oscura e cantando follemente di un amore bruciante. Insomma, una prova vocale così inquietante che non solo Jay non si sarebbe mai ricordato di aver registrato il pezzo, ma questo fu praticamente bandito da tutte le radio finché non ne venne offerta una versione edulcorata! Anche questa bandita. Eppure il singolo

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