Dizionario dell'abbandono
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Anteprima del libro
Dizionario dell'abbandono - Capitani Francesco
1.
Le occasioni
L’abbandono può essere tante cose, non una sola.
Nel romanzo di Mark Twain, Huckleberry Finn venne definitivamente abbandonato dal padre. Deluso, ribadì un’iperattività spesso distruttiva, ma fertilissima e onnivora – che gli psicologi hanno battezzato con l’omonima sindrome.
Didone si suicida, invece, mentre brucia Cartagine ed Enea definitivamente l’abbandona alla volta di Roma: Vado… Ma dove? Oh Dio! Resto… Ma poi… Che fo? Dunque morir dovrò senza trovar pietà? E v’è tanta viltà nel petto mio? No, no, si mora; e l’infedele Enea abbia nel mio destino un augurio funesto al suo cammino. Precipiti Cartago, arda la reggia, e sia il cenere di lei la tomba mia
.¹
Ogni strappo abbandonico può mettere alla prova le cose che finiscono per reinventarsi, fino a divenire proprio altro e trovare un riscatto, un senso ogni volta nuovo (Finn), oppure può rivelare la vulnerabilità di chi è incapace di pensarsi liberamente (Didone). Fra l’una e l’altra soglia più stati intermedi allacciano due forze di senso opposto: la stagnazione affettiva su quanto perso e la volontà di superare l’abitudinaria identità cui si è legata parte dell’esistenza. Cose e persone si trovano all’improvviso prive di una sintassi – con un proprietario o un inquilino, con un amante o all’interno di una comunità –, ora soffrono l’assenza di una riconoscibilità sociale, d’un tratto sono soli. Hanno accettato al tempo di dover mortificare la propria individuazione – del particolare sul generale – pur di adeguarsi a contesti prevedibili ma rassicuranti, hanno ceduto al senso comune tiranno che inibisce la spontaneità degli individui e li preserva da spinte di rigetto – la comunione fra persone impone la reciproca vigilanza; anche le mode edilizie fanno i manufatti sempre simili, i piani regolatori impongono equilibrio e coerenza urbanistici.
Ora l’abbandono presenta il conto, per gli uni e per gli altri; può costituire un’occasione di individuazione, anime e materie vengono liberate dalle catene costrittrici delle regole comuni – come Finn, le ville abbandonate sperimentano l’isolamento, divengono terre di riparo anziché di residenza esclusiva, luoghi di improbabile contaminazione arborea su plastiche e cementi. Oppure può divenire la spia di uno stato di irresoluzione, le cose abbandonate si polverizzano fino all’ingenuità della materia che precedeva la malta e l’impasto dei materiali. È più devastante su cose e persone dalle fibre fragili (Didone), come fanno quelle tecniche archeologiche che usano il gesso per riempire le cavità lasciate da corpi uccisi dalle tempeste di fuoco: un amante ripudiato può non riprendersi mai dal trauma dell’abbandono. Allora provo a lanciare funi fra vivo e morto, animato e inanimato, fra umano e molecolare, il galleggiamento metaforico può attenuare le asprezze delle fratture abbandoniche, ne descrive a distanza per capirne qualcosa in più.
Non ricordo la prima volta che ho provato interesse per le cose abbandonate, case, palazzoni o cimeli urbani di periferia, non ricordo nemmeno il primo ingresso. Spesso sono luoghi incolti, difficili, una casa abbandonata non reclama attenzione, si fa i fatti propri e confida nell’indifferenza alle sue vergogne, perfino l’edera piglia iniziativa e l’avvolge fino a fare implodere le mura. Non ho una memoria specifica, forse non provavo al tempo, da bambino, alcuna attrazione da questi rigetti della civiltà né mi avvedevo della necessità di meglio capire certe dinamiche umane. Anni dopo ho perso ogni potere d’iniziativa, le cose abbandonate – ospedali, case, palazzi, finanche manicomi o strutture industriali – mi accerchiano più di quante ne vedessi prima. Farcire di significato le pieghe grinzose del quotidiano
scriveva Virginia Woolf nel 1928 a proposito della necessità di ricomporre gli attriti di una realtà che pare ostile alla comprensione. Allora cerco le ipotesi dell’abbandono, favoleggio, l’alfabeto è più silente, in certi casi pare straniero, non meno vorrebbe essere capito.
Alcune volte le cose abbandonate cambiano, fino a diventare proprio altro, come quando una casa colonica collassa e non ha più un tetto che ripari niente e nessuno; stanno per quando servono, non vedono l’ora l’uomo si faccia da parte per divenire quel che vogliono, ipotizzano ellissi e linearità curve, cercano nuove relazioni con il peso della gravità e impensate confidenze con gli animali selvatici. O forse non è la migliore soluzione possibile, le cose abbandonate soffrono il distacco, si mantengono belle e fingono gioventù; per un po’ non hanno nulla da invidiare alle cose abitate, gli infissi reggono, i colori vivi sulle pareti, hanno ancora solide fondamenta e vetri forti, l’ordine delle cucine si mantiene inalterato dovesse tornare qualcuno da un momento all’altro. Continuano ad attendere. Anni, decenni. Poi passa il tempo e finiscono per non crederci più, l’erba piglia iniziative più di prima, il ramo dell’albero secolare minaccia il tetto, si rendono conto che non tornerà nessuno e che sarà una impresa d’ora in poi, da sole e alle prese con acqua e intemperie, mantenersi presentabili alla vista. Poi si lasciano definitivamente andare, amanti deluse e tradite dalla nuova gioventù urbana, le finestre sembrano le bocche spalancate del morente e i pensili i denti malmessi, le linee orizzontali divengono curve e stravolte, la polvere ne fa conquista e si prende gioco dei luoghi che le donne di casa tenevano lindi, esattrici dell’igiene. Altre volte si tengono ancora in piedi e sfidano l’urbanizzazione; nel buio nulla le distingue dal resto, procurano ombre e segnano orizzonti come altre costruzioni. Alla gente non importa, di notte, cosa sono le cose; il buio ha sgranato le differenze e nell’oscurità sono cose sempre giovani.
L’abbandono sarebbe l’esito del perdente, e generalmente non piace. Il linguaggio giuridico lo limita a una sottrazione dell’obbligo di vigilanza, alcune ipotesi di abbandono stanno nel codice penale come misfatti compiuti a danno di soggetti deboli e insufficienti, come i minori: una sorta di affidamento tradito, di promessa non mantenuta. Poi viene il recupero, al più forte spetta ogni obbligo di cura nei confronti del più debole, spesso relegato – come nel caso degli infanti – in strutture luride e cattive come gli orfanotrofi, mai descritte benevolmente dalla (disvelata, oggi) cronaca ospedaliera. Si ha la malsana idea che la protezione sia sempre un fatto impeditivo, come la catena attorno al collo del cane impazzito da una vita in cattività. Una volta vidi relazioni cliniche a terra sul pavimento di un istituto per bambini di inizio Novecento e mi cadde l’occhio sulla descrizione di alcune stranezze comportamentali: sull’una agitato
, fosse una colpa, di quel bambino s’aveva timore non del senno che mostrava di avere, la parola curioso
l’avrebbe ammantato di uno scomodo candore all’interno di strutture fatte per l’ordine. Abbandonato è anche il matto, quattro mura di una struttura manicomiale privano i folli di un nome o di un’utilità proficua agli altri. Con l’abolizione dei manicomi vagano per la città segnando tempi e minuti più lunghi degli altri e sono convinto che non hanno bruciato nulla di quanto sanno, non si fidano e lo tengono per sé. Ecco, m’interessa chi non ce l’ha fatta ed è finito invischiato in una sorta di irrisolto purgatorio in cui la memoria pare il tendine infiacchito di un presente che è stato. Una sorta di terra di mezzo in cui i significati scivolano, i frammenti di senso sconfitti dalle attualità non vengono nemmeno più percepiti. S’impara molto, ad esempio, di quali fossero state le gerarchie architettoniche all’interno dei manicomi abbandonati, i matti più gravi erano ai piani superiori, le urla più lontane, le stanze di isolamento erano tre o più per ognuno e nessuno al primo, riservato ai modesti eccentrici nel ragionamento. Occorre fare in fretta; più le cose abbandonate si stancano di raccontare, più vanno prese per tempo, prima che un maledetto progetto di recupero provi a rinnovarle o del definitivo stravolgimento allo stato primordiale della maceria; arrivati a quel punto nulla più è possibile.
Ad esempio mi capita spesso di prendere nota di un complesso cinematografico, un nugolo di colori, di luci e di gente che sgomita; ma c’è un perdente. A quaranta metri s’insinua una casa colonica di inizio Novecento di due piani abbandonata, non ha un posto in prima fila, i proprietari decisero di portare la coltivazione dei campi a ridosso delle mura. Negarono alla casa perfino il conforto dell’ombra di un grosso albero come spesso i vecchi facevano, e persino di un passaggio che potesse allontanare l’onta dell’isolamento. Poi sono stati ancora più cattivi, hanno ceduto il terreno circostante ai proprietari di un complesso commerciale e quella casa ha finito per assistere allo scempio della propria memoria. Vista e ignorata. Non ha nemmeno avuto la fortuna di potersi nascondere, come fanno i gatti che sanno di dover morire. Le vecchie case coloniche sono inaffondabili, esposte alla gogna popolare, non periscono mai e le norme urbanistiche ne impediscono la demolizione. Allora permangono morenti alla vista del popolo che per giunta le ignora; qualche burocrate permarrà la tortura fin quando può, fino al momento del collasso. L’abbandono, pertanto, parrebbe una forma di nudità, di resa, la flebile comunicazione di un insuccesso, le cose divengono più timide ma non definitivamente annichilite, non hanno