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Grand Hotel Coronda
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E-book432 pagine6 ore

Grand Hotel Coronda

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Info su questo ebook

“Coloro che hanno preso la decisione di torturare gli uomini, di condurli sino alla follia e assassinarli non saranno mai coloro che scriveranno l’ultima pagina della storia. I ricordi sovversivi dei sopravvissuti di Coronda denunciano i loro torturatori. Gli ex prigionieri hanno ottenuto giustizia e i criminali sono stati condannati. Inizia, così, una nuova pagina: che non trionfi mai l’oblio, che non si ripetano più gli atti disumani che sono stati commessi in quell’orribile carcere argentino. Grand Hotel Coronda, un libro indispensabile.”
Leonardo Boff, teologo


“Questa testimonianza dei prigionieri di Coronda è un nuovo contributo al riscatto della memoria collettiva, che respira nascosta sotto l’amnesia imposta.”
Eduardo Galeano, giornalista e scrittore 


“Questo libro rappresenta un atto di grande generosità. La generosità della memoria che non è mai un dovere, specie per chi ha attraversato i territori più estremi del dolore, ma una scelta, un cammino, un dono.”
Don Luigi Ciotti, presidente Associazione Libera


“Non ci sentiamo vittime della nostra storia. Siamo stati e continuiamo ad essere attori sociali che desiderano cambiamenti strutturali, da costruire con la gioia della consapevolezza umana. Ed è per questo che, sebbene alcune di queste pagine riflettano sofferenze molto profonde e assenze insostituibili, l’umorismo, come appare nella maggior parte del racconto, è sempre stato un’arma letale contro i nostri carnefici.”
Gli Autori, Collettivo El Periscopio
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2022
ISBN9788830670730
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    Anteprima del libro

    Grand Hotel Coronda - Collettivo El Periscopio

    Prefazione

    Questo libro rappresenta un atto di grande generosità. La generosità della memoria che non è mai un dovere, specie per chi ha attraversato i territori più estremi del dolore, ma una scelta, un cammino, un dono.

    A farci questo dono sono persone che hanno condiviso un’esperienza tremenda, il carcere in una delle strutture riservate agli oppositori politici in Argentina, sotto la dittatura militare, negli anni ’70 e ’80. Una detenzione non soltanto ingiusta perché subita in assenza di reati, né soltanto spietata a causa delle torture fisiche e psicologiche quotidiane: una detenzione disumana. A renderla particolarmente dura, come si coglie da queste testimonianze, era il sentimento di sospensione della propria vita. Il fatto di trovarsi totalmente alla mercé degli aguzzini, senza sapere quando si sarebbe compiuta una sentenza di morte che tutti davano comunque per scontata.

    E invece no. Invece, molti di quei coraggiosi prigionieri sono usciti sorprendentemente vivi dal carcere di Coronda. Alcuni hanno lasciato l’Argentina e si sono rifatti un’esistenza altrove. Avrebbero potuto chiudere per sempre in un cassetto l’angoscia delle torture, il lutto per i compagni scomparsi, le tremende ferite impresse nella carne e nello spirito. Guardare oltre, non tornare col pensiero a quei giorni cupi, smettere di chiedersi la ragione della propria sopravvivenza, di fronte alla morte di tanti altri. Perché hanno scelto diversamente? Perché hanno unito voci e ricordi in questo libro intenso, così pieno di dolore che sembra di sentirselo sulla pelle, ma ancor più pieno di passione, di amore e di speranza?

    Proprio perché sono rimasti vivi. Vivi in ogni fibra del loro corpo che invano la violenza ha provato a schiantare; vivi in ogni anfratto della coscienza che nessuna minaccia ha potuto oscurare; vivi nel flusso dei pensieri che per tutta la prigionia sono riusciti a scambiare, violando con audacia i controlli delle guardie, e allacciando amicizie fatte di sguardi, cenni, brevi racconti e parole di intesa.

    Berta, una delle Nonne di Plaza de Mayo che da anni lottano per restituire alle vere famiglie i bambini nati nelle prigioni del regime e poi adottati dai militari, ha parlato, a proposito delle esperienze estreme raccontate in queste pagine, di soluzioni per l’energica difesa della vita. Ed ecco che quella vita energicamente difesa ieri, non poteva che diventare una vita alimentata intensamente oggi.

    Il dono della memoria è un dono che viene dal passato, per l’oggi. Perché non basta essere sopravvissuti, se ci si accorge che il mondo ritrovato, tanti anni dopo la fine della prigionia, anche se liberato da quella dittatura assassina è comunque un mondo sotto il ricatto di altre forme di violenza e di sopruso. È lì che scatta la molla, il desiderio di ritrovarsi e in un certo senso farsi ritrovare dalla storia, col proprio carico di memorie scomode e preziose.

    L’ho visto accadere tante volte, con le vittime di reati mafiosi e i loro famigliari. La memoria dolorosa, che non dà tregua, smette di essere un fardello quando viene condivisa. Quando diventa occasione per riportare in vita le storie di chi non c’è più, e attraverso quelle storie contribuire a tracciare una strada di impegno e di speranza per il domani. La sofferenza si trasforma così nella più meravigliosa e generosa forma di responsabilità: raccontare il male che è stato, affinché non si ripeta. Ma anche raccontare il bene che da quel male è sorto: i nuovi legami d’affetto, la solidarietà ricevuta, il cammino di verità e giustizia percorso a piccoli e tenaci passi.

    In questo libro, il racconto dei torti subiti scolorisce di fronte a quello dell’amicizia, della resistenza, dei progetti di rinascita politica e sociale coltivati persino quando arrivare vivi al giorno dopo sembrava già un miracolo.

    Ho avuto la fortuna di incontrare io stesso delle persone reduci da esperienze simili. Si presentò una famiglia argentina al Gruppo Abele, che aiutammo a ricostruirsi un’esistenza a Torino. Neppure loro abbandonarono la strada dell’impegno, e scelsero di dedicarsi insieme a noi al lavoro sociale accanto ai poveri e agli ultimi. Ancora oggi sono attivi in una cooperativa che dà impiego a donne e uomini con storie difficili.

    I regimi passano, i problemi restano. Povertà, discriminazioni, violenza, soppressione dei diritti umani fondamentali, in un sistema oggi ancora più compromesso, dove non sono le distorsioni delle forme di governo a determinare l’oppressione di cittadini e lavoratori, come fecero le dittature in America Latina, ma è proprio lo standard dei rapporti politico-economici ad aver perso qualsiasi legame con l’etica e la giustizia.

    Chi, nel nome della giustizia e dell’uguaglianza, ha messo in gioco la propria vita fino a rischiare di perderla, di fronte a un simile scenario potrebbe cedere alla rassegnazione. Non i coraggiosi autori di questo libro!

    Li ringrazio per il dono che ci fanno, per l’impulso che ci danno a non cedere, non delegare, non smettere di sperare e di impegnarci per cambiare le cose. Così ringrazio chi ha curato l’edizione italiana, a nome dei tanti che leggeranno queste storie e vi troveranno nuova consapevolezza e nuovi stimoli a un’azione quotidiana in difesa dei diritti, della libertà e della dignità di ognuno.

    Don Luigi Ciotti

    Presentazione

    Tra il 1974 e il maggio del 1979 furono internati nel carcere di Coronda 1.153 prigionieri politici.

    Dal dicembre 1999 fino al maggio 2003, circa 150 di essi, mediante una serie di incontri e un’infinità di e-mail, riuscirono a mettere insieme il materiale che costituisce questo libro, i cui autori sono: Héctor Abrile, Livio Acosta, Froilán Aguirre, Daniel Álvarez, Humberto Antonioli, Carlos Ballarini, Orlando Barquín, Daniel Bas y Mansilla, Eduardo Boero, Rafael Bugna, Raúl Castro, Roberto Cepeda, José Cettour, Raúl Chiartano, Oscar Clement, René Coutaz, José Cuesta, Enrique De Feo, Carlos Demiryi, Jorge Destefani, Francisco Druetta, Antonio Fernández, Eduardo Fernández, Sergio Ferrari, Juan Gentillini, José Hisi, René Irurzún, José Kondratzky, Félix López, Patricio Mansilla, Alberto Marquardt, Rubén Maulín, Héctor Medina, Raúl Nudel, Víctor Ortiz, Luis Ortolani Asuar, Jorge Palombo, Rubén Pancaldo, Victorio Paulón, Jorge Pedraza, Miguel Pita, Hugo Pot, Roberto Pozzo, Carlos Raviolo, César Ricciardino, Miguel Rico, Rubén Rios, Ricardo Rivero, Héctor Ruiz, Aníbal Sánchez, Norberto Santa Cruz, Augusto Saro, Raúl Sassi, Carlos Scocco, Carlos Selva, Eduardo Seminara, Ernesto Suarez, Carlos Usinger, Efren Venturini, José Villareal, Raúl Viso, Alfredo Vivono.

    Questo, come tutti i libri, non finirà mai di essere scritto. Le testimonianze originali sono a disposizione di chi lo desideri, per qualsiasi chiarimento.

    Prologo

    Dopo l’assalto al potere istituzionale dello Stato da parte delle Forze Armate, che imposero una dittatura militare e divennero truppe d’occupazione, l’Argentina visse momenti terribili. Si violarono i Diritti Umani e si posero in atto politiche che portarono alla distruzione della capacità produttiva del paese, assoggettandolo ai grandi interessi delle società finanziarie, nazionali ed estere.

    Queste politiche rientravano nel modello della Sicurezza Nazionale sviluppata dagli Stati Uniti per tutta l’America Latina. Più di 80.000 militari latinoamericani si formarono nella Scuola delle Americhe a Panama e nelle accademie militari statunitensi. Le conseguenze furono tragiche per le popolazioni locali. In particolare nel nostro paese, dove divennero pratiche comuni il sequestro, la prigionia, la tortura e la sparizione di persone.

    Per contro, sorsero numerosi gruppi di opposizione sociale che tentarono di dare risposte al sistema di repressione, attraverso l’azione. Alcuni scelsero la lotta armata contro l’oppressione militare, politica ed economica. Altri scelsero la resistenza passiva e cercarono forme alternative di pressione, nazionale e internazionale, per denunciare le gravi violazioni dei Diritti Umani da parte della dittatura militare.

    Nonostante il tempo trascorso e le rilevanti conseguenze che ebbe l’assalto alle istituzioni democratiche da parte delle Forze Armate, divenute signore della vita e della morte del popolo argentino, dobbiamo affrontare oggi una rilettura dei fatti e della storia vissuta: una lettura serena e critica attraverso la memoria, con la consapevolezza che essa non possa rimanere ancorata al passato.

    La memoria deve illuminare il presente, perché è attraverso di essa che possiamo generare il futuro.

    Il libro Grand Hotel Coronda nasce dalla necessità dei protagonisti di vedere proiettato nel futuro il loro vissuto come forma di impegno sociale: la prigionia e gli anni senza diritti, l’isolamento e gli accadimenti che segnarono la loro vita.

    Oggi, questi ex prigionieri di Coronda possono tornare a guardarsi, pensare e ricordare, condividere esperienze del loro vissuto. Non si tratta di una terapia catartica, bensì di un contributo alla memoria collettiva.

    Opportunamente, alcuni di essi sottolineano nell’introduzione le motivazioni che li convinsero a riunirsi e riflettere assieme su quella tappa della loro vita: Qualcuno chiese allora: per quanto tempo ancora diremo che gli ex prigionieri politici, testimoni diretti del terrorismo di Stato, non hanno ancora dato testimonianza collettiva alla società sul funzionamento di quella macchina del terrore? E la risposta fu:– Cominciamo da Coronda.

    Quelli che hanno patito la prigione e le ingiustizie dei signori della morte della dittatura militare sono rimasti segnati profondamente. Ecco perché ciascuna esperienza e ciascuna testimonianza sono valide e costituiscono un contributo alla memoria collettiva dei popoli e, in particolare, alle nuove generazioni che non hanno vissuto quell’epoca di terrore.

    La creatività e la resistenza permisero di sopravvivere nel carcere, mantenere gli ideali e immaginare nuove alternative. Il tempo non ha modificato il modo di pensare e la capacità di costruire nuovi paradigmi sociali, culturali e politici.

    L’idea del libro è quella di dare il proprio contributo al modo di pensare la realtà che oggi vive il popolo argentino, tenendo presente che il pensiero senza sentimento è la grande tragedia della vita. E quel sentimento sorge attraverso questo libro che urla a gran voce Mai più Coronda!.

    Nel carcere il sistema oppressivo tende a uniformare, annullare la persona umana e sottometterla alla repressione, che impone di non pensare, di rispondere meccanicamente alla paura. Così, la persona scompare e diventa solo un numero. Ci sono stati alcuni compagni che non sono riusciti a sopportare la tortura, la forte pressione psicologica e l’isolamento. Altri ebbero la capacità di resistere, di conservare la memoria e la volontà di sopravvivere e di continuare a combattere nonostante la situazione e il carcere.

    Poco a poco si vanno stringendo vincoli di solidarietà e ciò aiuta a sapere che non si è soli nella lotta e che bisogna evitare che ci annichiliscano. Resistere è l’ordine, l’obiettivo per continuare i cammini di liberazione. Conoscersi nel carcere è una ricchezza incommensurabile. Nella scuola carceraria si impara come se fosse l’università della vita e della resistenza. In essa vi è una grande varietà di persone che soffrono gli stessi mali, vittime dell’oppressione: gruppi di base, dirigenti sindacali, politici, religiosi, contadini, studenti. Molti con una lunga militanza sociale, altri per la prima volta in tale dolorosa situazione soffrono lo sradicamento, le assenze, l’impotenza di fronte alle guardie. Devono cominciare l’apprendistato carcerario, dalla lingua ai segnali, fino ai codici di comportamento e di comunicazione interna.

    Ogni persona è un mondo e ogni esperienza esprime i valori e contenuti che l’hanno condotta all’impegno politico e alla resistenza. Incontrarsi nuovamente per condividere tali esperienze e diffonderle costituisce un valido contributo per le nuove generazioni, contribuisce ed è utile alla costruzione della memoria collettiva del popolo.

    Spesso sentiamo dire da parte di taluni: Bisogna guardare al futuro e dimenticare il passato. Sono trascorsi molti anni dai fatti e il tempo deve servire per coprirli con un mantello di oblio e rassegnazione. Il passato è passato e il futuro impone di porre le energie e il pensiero in avanti…

    Sull’oblio non si può costruire una società più giusta e umana. L’impunità giuridica pone in serio pericolo il processo democratico e rende possibile che fatti aberranti come quelli vissuti durante la Dittatura si ripetano.

    Questo libro di ex detenuti politici di Coronda, che hanno deciso dopo molti anni di riunirsi e ricostruire i fatti, dà un contributo alla coscienza collettiva, riscatta i valori umani e la capacità di resistenza di fronte all’oppressione. I fatti quotidiani vissuti nel carcere favorirono la formazione di una rete di solidarietà tra questi uomini, che perdura nel tempo. Tale rete dà i suoi frutti nel libro, il quale costituisce un supporto per la società argentina negli attuali momenti di grande incertezza, causati dalla perdita di valori da parte di settori politico–giuridici che hanno perso la memoria nei labirinti delle loro stesse meschinità.

    È necessario che i giovani possano recuperare una fase della storia vissuta dal popolo argentino e a questo scopo si impegnano coloro che vissero quel dramma e che vogliono far nascere un paese migliore per tutti.

    Adolfo Pérez Esquivel

    (Premio Nobel per la Pace 1980

    Responsabile del movimento Pace e Giustizia)

    Introduzione

    I nostri aguzzini ci giurarono che saremo usciti da Coronda pazzi o morti. Siamo vivi e la nostra unica pazzia è di continuare a celebrare la resistenza collettiva che come prigionieri politici abbiamo messo in atto nelle fredde mura di quel carcere di massima sicurezza… dopo oltre quarant’anni, continuiamo ad essere combattenti per la vita, per la solidarietà, per la speranza.

    Questo libro racconta la storia, risalente agli anni ’70, della vita collettiva di ex prigionieri politici detenuti nel carcere di massima sicurezza di Coronda, situata tra le città di Rosario e Santa Fe, a 420 km a nord di Buenos Aires.

    Fummo 1.153 i detenuti politici incarcerati a Coronda tra il 1974 e il 1979, anno in cui il Governo – a seguito delle forti mobilitazioni a livello nazionale e internazionale – finalmente chiuse il carcere per tale scopo.

    Tra il 1976 e il 1979 il carcere di Coronda, trasformato in un campo di sterminio fisico e psicologico, ebbe la particolarità di essere diretto dalla Gendarmeria Nazionale, una forza di sicurezza nazionale militarizzata, nota per la brutalità delle sue azioni. Questa forza ha attuato con un particolare sadismo la cosiddetta Campagna di Pensionamento, promossa dalla dittatura nelle diverse carceri con lo scopo di abbattere i prigionieri politici e garantire che coloro che ritornavano alla libertà fossero talmente devastati da non pensare nemmeno lontanamente di riprendere la militanza politica, sociale, sindacale o associativa. Questo libro che tu, caro lettore e cara lettrice, tieni tra le mani è una prova convincente che i militari hanno fallito anche in questo obiettivo!

    Grand Hotel Coronda è una testimonianza collettiva, autodidatta, esperienziale, quasi anonima: i capitoli, composti per lo più con contributi di autori diversi, non sono firmati. Per i 70 ex detenuti che hanno partecipato attivamente alla scrittura – e tanti altri che hanno accompagnato il processo di ricostruzione della nostra storia –, l’obiettivo era quello di trasformare in lettere nere le lacrime incolori, le risate verdi e la quotidianità rossa della lotta per la sopravvivenza al carcere in condizioni quasi limite.

    Abbiamo voluto dare un contributo dal nostro intimo, consapevoli che il riscatto delle nostre esperienze e il nostro impegno per la giustizia in Argentina costituisce un esempio e un contributo essenziale a un nuovo paradigma universale a favore della verità, contro l’oblio e l’impunità. L’esperienza di ricostruzione collettiva della memoria nel nostro Paese è pressoché eccezionale nel continente latinoamericano, dove nei decenni degli anni ’70 e ’80 vi furono molteplici dittature militari simili per modalità, obiettivi e progetti.

    In Argentina abbiamo vissuto un vero e proprio genocidio che ha lasciato conseguenze in tutta la società, ed ha causato migliaia di morti, trentamila desaparecidos, più di diecimila prigionieri politici e innumerevoli esuli dentro e fuori il Paese, a cui si è aggiunta l’appropriazione criminale di oltre 500 bambini nati in prigione.

    La dittatura civile-militare-ecclesiastica (1976-1983) ha attuato un piano repressivo volto a eliminare ogni opposizione politica e riformare la società in tutti i suoi aspetti. È stato progettato dal potere reale come parte di una strategia regionale elaborata nelle officine dell’impero. Il terrorismo di Stato iniziò a svilupparsi prima del Golpe, con omicidi commessi da bande armate parastatali e fu plasmato, definitivamente, dopo l’assalto al potere, il 24 marzo 1976. Contò sull’impegno e la partecipazione attiva di grandi gruppi economici, delle forze armate e di sicurezza, nonché della leadership della Chiesa cattolica. E con il complice ed essenziale appoggio dei media allineati al potere costituito, di alcuni settori della magistratura e anche di una parte della stessa società civile che, per paura o incoscienza, ha taciuto di fronte al genocidio. C’erano anche civili che collaboravano consapevolmente con i repressori, tradendo attivisti e oppositori, nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle università, ecc.

    La classe operaia e il popolo argentini, protagonisti di una lunga storia di lotte, hanno resistito a questo piano. Le nostre storie riflettono solo un piccolissimo pezzo di quella resistenza, quella che abbiamo dovuto combattere assieme a migliaia di donne e uomini che in quei tragici anni sono passati attraverso alcune delle centinaia di carceri e centri di detenzione clandestini in tutto il Paese, dove la dittatura ha cercato di spezzare le nostre lotte giovanili di libertà e anticonformismo.

    Noi non abbiamo il monopolio della memoria. Riportiamo semplicemente un’esperienza, la nostra, quella del carcere di Coronda, che a distanza di oltre quarant’anni continua ad unirci nell’Associazione Civile El Periscopio. Crediamo che la Memoria sia una componente essenziale dell’identità di un popolo e che non sia possibile costruire una società veramente democratica sulla base dell’oblio, della negazione e dell’impunità. I rapporti di fratellanza che si sono instaurati attraverso le esperienze che animano la nostra storia, sono solidi come allora. Gli ex prigionieri politici di Coronda si sentono fratelli della vita, figli della più brutale repressione quotidiana, genitori di questa memoria che abbiamo deciso di condividere. Non ci sentiamo vittime della nostra storia. Siamo stati e continuiamo ad essere attori sociali che desiderano cambiamenti strutturali, da costruire con la gioia della consapevolezza umana. Ed è per questo che, sebbene alcune di queste pagine riflettano sofferenze molto profonde e assenze insostituibili, l’umorismo, come appare nella maggior parte del racconto, è sempre stato un’arma letale contro i nostri carnefici. Erano i gendarmi e le guardie i veri prigionieri delle proprie paure. E noi, pur stando 23 ore al giorno in celle di 2,80 x 3,40 metri, gli esseri veramente liberi.

    Chi ha vinto e chi ha perso in quella realtà carceraria? Una parte della nostra giovinezza l’abbiamo passata dietro le sbarre. Molti dei nostri cari compagni, che onoriamo nel libro, hanno esalato l’ultimo respiro a Coronda. Tanti altri non sono mai riusciti a riconquistare, anche nella successiva libertà, la vera gioia della vita, né hanno smesso di sentirsi appesantiti dal peso indelebile delle sbarre e delle brutalità. Nessuno ne è uscito illeso. Impossibile negare l’impatto di un’esperienza di vita–morte, quando ogni giorno sorgeva con la possibilità che fosse l’ultimo. Nemmeno loro, i carcerieri, ne sono usciti interi. Le nostre testimonianze trasformate in libro sono state un ulteriore grido di denuncia sociale che, senza dubbio, ha accresciuto fino all’ultimo centimetro la vergogna personale - se ne è rimasta ancora qualcosa - dei nostri carnefici. Questo libro è stato anche una prova accusatoria chiave nel processo per i crimini di lesa umanità che nel maggio 2018 ha condannato a 22 e 17 anni di carcere, rispettivamente, due dei tre comandanti della gendarmeria (il terzo era già morto) che avevano diretto, a suo tempo, il carcere di Coronda. Tale processo e la pena che celebriamo, non come vendetta ma come trionfo della giustizia, hanno avuto come avvocati dell’accusa i legali di HIJOS Santa Fe, associazione dei figli dei nostri compagni desaparecidos. E la nostra Associazione Civile El Periscopio, editore del libro, in detto processo si è costituita come parte civile. Elaboriamo la memoria e promuoviamo la giustizia.

    È il nostro miglior omaggio a tutti i compagni che non ci sono più fisicamente ma che continuano ad accompagnarci in ogni battito di farfalla. Ed un contributo in più alle centinaia di cause giudiziarie portate avanti dalle vittime del terrorismo di Stato che stanno ottenendo la condanna dei genocidi a partire dalla lotta instancabile di tutte le organizzazioni per i Diritti Umani e dalla coraggiosa testimonianza dei sopravvissuti.

    La ricerca della verità e la denuncia degli eventi accaduti durante i tragici anni della dittatura sono iniziati nello stesso periodo in cui essa si perpetuò, grazie al coraggio di alcuni giornalisti, ai reportage di organizzazioni internazionali come la Commissione Inter–Americana per i Diritti Umani (IACHR), Amnesty International e la Croce Rossa Internazionale, alla nascita di organizzazioni per i Diritti Umani nel Paese e all’estero, e al sostegno solidale dei popoli in cui migliaia di argentini perseguitati sono andati in esilio. E soprattutto, grazie ai parenti e amici delle vittime.

    Le testimonianze raccolte dal CONADEP a partire dal dicembre 1983 e il successivo Processo alla Giunta di Comandanti continuarono ad abbassare il velo di occultamento instaurato dalla dittatura. Questo processo non si è mai fermato e non si fermerà mai perché i sopravvissuti al terrorismo di Stato, i loro familiari e parenti, organizzati su tutto il territorio del nostro Paese in centinaia di organizzazioni per i Diritti Umani, non abbandoneranno mai la ricerca di militanti scomparsi e di bambini rubati, guidati dall’esempio illustre delle Madres e Abuelas di Plaza de Mayo. E se qualcuno si permettesse di dubitare delle brutalità della dittatura, l’identificazione dei resti effettuata dall’Équipe di Antropologia Forense Argentina (EAAF) e la restituzione dei nipoti rubati (con il conseguente recupero della loro identità) costituiscono la prova più contundente della verità.

    Il processo di elaborazione del nostro libro è iniziato a metà dicembre 1999, in una riunione di ex compagni delle carceri della dittatura genocida. Tra abbracci, ricordi ed emozioni, si sono formati diversi gruppi, alcuni costituiti da vecchie organizzazioni politiche e altri da amicizie forgiate in carcere. Invece, gli ex detenuti di Coronda presenti all’incontro si sono riuniti attorno a un tavolo, lasciando da parte ogni appartenenza politica del passato. Lo spirito unitario che avevamo forgiato dietro le mura due decenni prima era ancora vivo e prevaleva su tutto. Qualcuno si è chiesto, allora: per quanto tempo diremo che gli ex prigionieri politici, testimoni diretti del terrorismo di Stato, non hanno ancora offerto alla società una testimonianza collettiva sul funzionamento di questa macchina dell’orrore? Partiamo da Coronda, compagni! L’accettazione della proposta è stata unanime, senza fermarsi a ragionare sui dettagli. Abbiamo deciso di incontrarci solo un mese dopo. Così, a più di vent’anni di distanza da una resistenza condotta in modo unitario, un folto gruppo di corondinos iniziò a incontrarsi per affrontare l’esperienza senza precedenti di scrivere un libro in forma collettiva. Per due anni ci siamo scambiati mail e abbiamo tenuto numerosi incontri di ex detenuti, da cui sono emersi i diversi contributi. E, poco a poco, tutti gli aspetti della vita carceraria emersero negli scritti. In questa fase, abbiamo capito che c’erano due pilastri, concordati unanimamente, su cui doveva basarsi il libro. Uno era il carattere testimoniale: scrivere come protagonisti di un’esperienza di resistenza in un centro di detenzione per prigionieri politici, come militanti popolari liberamente determinati a confrontarsi collettivamente con un piano sistematico di repressione, isolamento e annientamento delle persone. L’altro, era che il libro riflettesse quell’unità forgiata nella resistenza carceraria al terrore della dittatura. Non in un’unica e omogenea testimonianza ma attraverso una voce di voci diverse. Si arriva, così, a configurarsi un arazzo di storie, scritti e testimonianze orali che ha i colori propri del piccolo mondo, attivo, organizzato e solidale, nato tra le mura del carcere di Coronda.

    Non pretendiamo di farci portavoce di nessuno, tanto meno di appropriarci di un’esperienza che appartiene a più di mille uomini vissuti dall’altra parte dello spioncino. La nostra migliore ricompensa sarebbe sapere che abbiamo contribuito con un granello di sabbia al lungo compito di ricostruire la Memoria e la lotta per la Verità e la Giustizia di uno dei periodi più cupi della storia argentina.

    Negli ultimi vent’anni, migliaia di copie di Del otro lado de la mirilla sono giunte nelle mani dei lettori, la stragrande maggioranza dei quali coinvolti in decine di presentazioni ed eventi commemorativi del colpo di Stato, ed in cui i membri della nostra associazione hanno preso in carico la distribuzione del libro come un atto di militanza per la Memoria, la Verità e la Giustizia. A loro volta, migliaia di compagni, collettivamente e individualmente, hanno realizzato le più svariate produzioni letterarie, artistiche e culturali, correlate agli eventi accaduti durante il tempo del terrorismo di Stato, percorrendo questo spazio senza tempo che si chiama Memoria.

    Un nostro speciale omaggio va al libro Nosotras, presas politicas, testimonianza collettiva di 112 ex detenute politiche del carcere di Villa Devoto (Buenos Aires); e ad altri manoscritti che narrano i fatti accaduti in altri centri di detenzione legali e clandestini. Mentre era in preparazione la 3a edizione in spagnolo, la versione in francese di Del otro lado de la mirilla è stata pubblicata in Svizzera con il titolo Ni fous, ni morts (Edition de l’Aire, 2020).

    Perché pubblicare Ni fous, ni morts e, adesso, Grand Hotel Coronda in Europa? Siamo convinti che la nostra particolare storia di resistenza in un carcere di massima sicurezza dell’Argentina negli anni ’70, contenga valori e messaggi universali: di ribellione, di non accettazione delle imposizioni e di rifiuto della sottomissione alla repressione. Ed esalta la forza della lotta collettiva e unitaria come metodo essenziale di vittoria contro qualsiasi nemico o avversità, in ogni momento della storia dell’umanità. Questo messaggio è valido ancora oggi, ai nostri giorni, in un mondo governato da un sistema egemonico neoliberista globalizzato, tanto insensato quanto disumano; che non si preoccupa della distruzione accelerata dell’ambiente, che mette a serio rischio la stessa vitalità della nostra Madre Terra.

    Il potere detenuto dai padroni del mondo (e le loro strategie per conservarlo) è una questione universale, che travalica i confini, così come la resistenza dei popoli a quel potere ingiusto. Le forme variano nel corso della storia dell’umanità e secondo le caratteristiche di ciascuna società, ma si tratta, essenzialmente, dello stesso problema: l’eterna disputa tra coloro che sottomettono i popoli e coloro che anelano a vivere nella libertà. In breve: qual è la differenza tra essere assassinati in un campo di sterminio europeo o in un altro in America Latina? Tra morire sotto una dittatura latinoamericana o nelle acque del Mediterraneo fuggendo dalle carestie, dalle guerre o come rifugiato climatico?

    Questo libro rivendica gli stessi aneliti di libertà e giustizia, la stessa ricerca di un mondo da costruire sulla base della solidarietà e della fratellanza tra i popoli. Le nostre testimonianze di Coronda collegano le lotte del passato con quelle che da anni sono esplose con forza nella vita politica mondiale. Per citare solo due esempi: le lotte dei movimenti femministi e per la diversità di genere contro il maschilismo violento e quelle dei movimenti ambientalisti contro la depredazione della Madre Terra. Esse confluiscono nell’unico obiettivo di perseguire un Altro Mondo Possibile, oggi più che mai necessario.

    Vi consegniamo questo libro con la convinzione che condividere la nostra resistenza a Coronda sia un contributo in più alla MEMORIA.

    Gli Autori

    Nota dei redattori

    In molti passaggi del libro abbiamo deciso di evitare correzioni di stile, in particolare, nei capitoli dove si riportano dialoghi o si narrano esperienze molto intense. Se avessimo cambiato la redazione e/o il modo proprio di esprimersi di ciascun compagno, questo libro avrebbe perso forza come testimonianza.

    D’altra parte, molti termini tipici del gergo carcerario e del gergo della militanza sono definiti nel glossario, alla fine del libro.

    Capitolo 1 – Da Kerenski a Coronda

    Alcuni dissero Bartolo e altri dissero Kerenski.

    Per quei casi strani della storia, Nono, durante la lezione sulla Rivoluzione Russa che stava dando dalla finestra, aveva cominciato, proprio quella sera, a parlare della repressione di Kerenski contro i bolscevichi nel luglio del 1917, quasi esattamente a sessanta anni dall’accaduto…

    Il silenzio. C’era un freddo intenso e una leggera pioggia continuava a cadere. Ormai faceva buio e la notte avanzava, non solo sul paesaggio, ma anche su di noi.

    Dalla cella dov’ero con il Gallego, si vedeva il campo sportivo e il muro. Di fianco al campo da bocce c’era la parete di fondo della panetteria. Più in là c’era l’ingresso a quella zona.

    Da quell’ingresso vedemmo che arrivavano correndo i soldati. Erano inquadrati e si sistemavano davanti alle finestre senza dire una parola.

    Era la prima volta, dopo quasi un anno da quando avevano assunto la responsabilità del penitenziario, che i soldati si mostravano dinanzi a noi armati. Fino a quel momento la loro presenza si era limitata al controllo dell’ingresso del carcere, inclusa la sorveglianza delle mura perimetrali. La vigilanza diretta dei prigionieri politici continuava a dipendere dal Servizio Penitenziario Provinciale. Mai un uomo armato aveva superato la recinzione d’ingresso a un padiglione.

    All’improvviso, un plotone, dal quale eravamo separati solo dalle pareti e dalle finestre delle nostre celle, apparve ai nostri occhi. Perché erano venuti? Impossibile saperlo, ma in quel momento pensai al peggio.

    Qualche pensiero, breve e istantaneo, mi passò rapidamente per la mente per cercare di trovare una spiegazione a quanto stavo vedendo. La fredda sensazione di morte incombente si impadronì del mio corpo, dinanzi all’inutilità delle parole. In quel momento preciso sentii un vuoto nel petto e un lieve senso d’impotenza mi prese la gola.

    – È finita… figli di puttana… si son decisi… Qualunque sia stata la frase, che non riuscii a pronunciare, essa si confuse con l’ordine ascoltato:

    – Chiudere le finestre!

    Due occhi spuntarono nella grata della nostra cella, mentre toglievo le braccia dal davanzale della finestra. Scesi dal banchetto e accostai le ante interne. Quando terminai di girare la maniglia, mi voltai. Non avevo neppure avuto il tempo di guardare il Gallego quando arrivò l’abbraccio, intenso e prolungato a cui seguì, alla fine, l’incontro deciso dei nostri sguardi…Impauriti e nervosi, ci salutammo con un mezzo sorriso di rassegnazione. Eravamo pronti a lasciare tra quelle pareti lunghi mesi di convivenza, ricchi di aneddoti e discussioni, e a conservare nel più intimo un profondo affetto fraterno.

    Ci dicemmo qualcosa del tipo nonostante tutto ne è valsa la pena mentre si cominciavano a sentire il rumore di apertura dei chiavistelli percossi dagli stivali militari e gli ordini che ci ingiungevano di uscire rapidamente dalle celle…

    Quanto tempo avrebbero impiegato per arrivare alla nostra cella? Cosa stava succedendo ai compagni che avevano già fatto uscire dalle celle?

    Erano veramente intenzionati ad ucciderci?

    I racconti del libro di Paco Urondo sul massacro della base navale Ammiraglio Zar a Trelew¹ mi assalirono assieme alle parole non può essere vero. Ricordai il momento del mio arresto: ancora una volta la vicinanza della morte intrecciata con la speranza di sopravvivere.

    I soldati non avevano la posizione sull’attenti, bensì erano pronti all’attacco.

    Perquisizione? Trasferimento? Qualcos’altro?

    Rumori, molte voci, un forte mormorio…

    Non avevamo mai visto comportarsi in quel modo i soldati armati, con un atteggiamento così aggressivo. Ognuno di fronte ad una cella, sia nel lato del campo di calcio sia nel cortile. I riflettori ruotavano sui muri e illuminavano le finestre del padiglione…

    Dopo qualche minuto entrarono i soldati gridando come se si lanciassero in un combattimento corpo a corpo. Guardia armata: quello era il suo nome e la sua funzione abituale.

    Li avevamo soprannominati i Piedi Neri, designandoli con esattezza, per i loro stivali lucidi e la loro brutalità abituale…Guardia

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