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Il guaritore di maiali: Anno domini 1589
Il guaritore di maiali: Anno domini 1589
Il guaritore di maiali: Anno domini 1589
E-book276 pagine3 ore

Il guaritore di maiali: Anno domini 1589

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Info su questo ebook

Genova 1589. In un convento avvengono strani delitti. Un assassino uccide i maiali, fonte principale di sostentamento dei monaci. Le bestie vengono ritrovate morte sull'altare. Sul petto hanno due profondi tagli che riproducono la croce cristiana. Per scoprire l'autore di queste luciferine uccisioni, il superiore del convento chiama Pimain, un ex soldato investigatore. Inoltre, l'uomo esercita un mestiere particolare: il guaritore di maiali. Conosce i porci tanto da sembrare che comunichi con loro. Giunge persino, per curarli, a tagliare loro le carni senza che si ribellino. Pimain si aggira per il convento di Sant'Anna scrutando a fondo l'intima natura degli undici monaci guidati da padre Nicolò Doria. In quegli stessi giorni, Genova vive nel terrore in cui l'ha sprofondata un assassino seriale, chiamato dal popolo l'Artiglio, che uccide una donna dopo l'altra squarciando loro la gola con un gancio. Il guaritore di maiali, suo malgrado, deve indagare anche su questo mostro. Fanno da sfondo alla storia i carruggi di Genova, i suoi mercati, il porto, la sua gente ombrosa e una ridda di personaggi storici. Pimain il guaritore, grazie a un sistema davvero particolare di condurre le indagini, cercherà di dare un volto sia all'Artiglio sia all'assassino di maiali. Ma sarà davvero la fine o solo un nuovo inizio?
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2022
ISBN9791280100344
Il guaritore di maiali: Anno domini 1589

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    Anteprima del libro

    Il guaritore di maiali - Lorenzo Beccati

    AltriTempi

    Lorenzo Beccati

    Il guaritore di maiali

    Anno Domini

    1589

    Proprietà letteraria riservata

    © 2022 Lorenzo Beccati

    Diritti gestiti tramite The Agency srl di Vicki Satlow

    ©2022 AltreVoci Edizioni srls

    ISBN: 9791280100344

    Prima edizione: 2006, Fratelli Frilli Editori

    Prima edizione digitale AltreVoci Edizioni: dicembre 2022

    Copertina realizzata da Catnip Design di ©Pamela Fattorelli |www.catnipdesign.it

    Numero deposito Patamu 191247

    Immagini su licenza Shutterstock e AdobeStock

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    Ad Antonio Ricci,

    un guaritore di maiali.

    I

    Una moltitudine di donne, uomini e bambini sta divorando una balena ancora viva. Morti di fame, affondano i denti. I più disperati riescono a strappare lembi scuri di pelle e ridono con il grasso che gli cola giù dal mento. Un uomo a torso nudo, con un’ascia, ha squarciato il ventre della balena.

    Con furia scava una nicchia e avanza verso l’interno della bestia. L’intruso è travolto dalla fuoriuscita delle viscere calde e ributtato sulla sabbia. Uno sciame di ragazzi si getta sugli intestini fumanti e si azzuffa per ogni gramo boccone.

    Le comari riempiono i grembiuli, gli uomini le camicie. Molti si portano immediatamente alla bocca le interiora conquistate e mangiano con rivoltante ingordigia.

    Una balena si è arenata sulla spiaggia, alla foce del fiume pigro che attraversa Genova e subito s’è sparsa la voce.

    Verso la testa dell’enorme mammifero, un ragazzo è riuscito, con la lama lunga di un coltello, a tagliare una striscia di carne grande quanto lui. Mette il bottino tra collo e spalla e corre per cercare di portarlo in salvo. Il pezzo di balena gli sculaccia il sedere a ogni passo.

    L’animale muove appena la coda. Osserva stupito, seguendo l’attività di quegli strani pesci che scappano via isterici con le sue membra.

    Uno sciancato raggiunge il foro sulla testa della bestia e, curioso, ci guarda dentro. Per dispetto, la balena sputa fuori un fiotto d’acqua di mare mista a sangue. È l’ultimo gioco della sua vita. Si lascia andare con un sospiro e muore adagiandosi mollemente sulla spiaggia.

    Tre persone rimangono schiacciate dal cedimento della balena.

    Nessuno li soccorre. Ognuno è impegnato a salvare se stesso, o la famiglia, dalla fame. Tre suore con le vesti lorde degli umori della balena esortano, a spintoni, una fila ordinata di orfanelli a far man bassa di quello che trovano. È manna santa che viene dal cielo. O dal mare. Da lontano, si confondono.

    Un cieco sbraita e mena il bastone per aria a pochi passi dalla balena cui dà le spalle. Impreca perché non riesce a orientarsi. Neppure la fame lo aiuta.

    Un gruppo della consorteria dei manovali fa passamano, al modo dei mattoni, con grumi di carne impilati su un carretto trainato da un cavallo secco come un remo al sole.

    La bestia da soma gira il collo cercando qualche pezzo di pelle da addentare. Quando ci arriva, una frustata gli fa capire che non è il caso, e allora si accontenta di leccare il liquido giallastro che cola incessante sulla sabbia accanto agli zoccoli.

    La carestia strazia Genova da troppi anni.

    Molti sono convinti che tutto cambierà con l’avvento dell’anno nuovo, il 1590.

    Dall’ombra dei primi alberi sul mare, Pimain osserva l’apocalittica scena. È un uomo dalla pelle ambrata, nel pieno degli anni vigorosi.

    Ha il busto muscoloso e solido. Non così le gambe, che sono magre, corte, e si staccano da un culo piccolo da bertuccia. Sembrano parti di corpo di persone differenti. Vedendolo alla finestra, dalla cintola in su, nessuno potrebbe immaginare che il resto sia tanto risicato.

    Capelli neri mossi e basette gli incorniciano il bel volto. Ha sguardo deciso, gesti sicuri, denti bianchi e un sorriso da farabutto.

    Vestito in modo modesto, non tradisce appartenenza di classe. Piace alle donne, ma non lo sa. Fa un lavoro diverso da tutti che a molti puzza di stregoneria.

    Pimain abbassa la mano che tendeva la falda del cappello di saggina per ripararsi dall’ultimo sole.

    Sistema la bisaccia che gli segna la spalla e chiama il cane battendo il palmo sulla coscia. L’animale, di media grandezza, abbaia a rimbrotti sordi e arriva a strusciare il pelo rosso sui polpacci del padrone.

    L’uomo e il cane riprendono il sentiero verso le alture.

    Già ai primi passi, una calca di miserabili sbarra loro il cammino e li urta correndo nella direzione opposta. La fame ha tanti figli, e alla tavola della balena nessuno aspetta.

    II

    Anche il porco, perché ha l’unghia spartita ma non rumina, è per voi impuro. Non dovete mangiare della loro carne, e non dovete toccare i loro corpi morti.

    Deuteronomio 14,8

    Al convento dei carmelitani scalzi di Sant’Anna, sulla prima gobba rocciosa, chiamata poggio di Bacheria, alle spalle della possente Genova, il buio si mangia in fretta le ombre.

    Per ora, della notte c’è solo il presagio.

    Gli undici monaci del convento oltrepassano il refettorio, il chiostro, le celle e si dirigono in chiesa, chinando il capo nel corridoio angusto, alle cui pareti sono appese delle reliquie di dubbia provenienza ed efficacia.

    Due frecce di san Sebastiano ‒ dicono provenienti da Costantinopoli ‒, l’omero di san Cristoforo che sostenne il piccolo Gesù per fargli attraversare il fiume, paglia della santa mangiatoia, trucioli di san Giuseppe e la reliquia più preziosa, un’ampolla che contiene gocce di latte della Madre di Cristo. Fissati a un legno tondo, alcune decine di cuori d’argento, bombati e cavi, suonano a ogni refolo d’aria.

    L’umidità e il fumo delle candele hanno ridotto le reliquie a identico colore.

    Chiude la fila dei monaci, come di consuetudine, padre Nicolò di Gesù Maria Doria, il superiore del convento.

    Quando tocca a lui abbassarsi per passare sotto la volta a botte del corridoio, benché incappucciato e di spalle, sa che chi lo precede è padre Ortolano, poiché ha lo scapolare trapuntato d’ogni sorta di spiga e di rovo.

    È compieta, e i carmelitani si dirigono all’interno della minuscola chiesa per le ultime preghiere del giorno.

    Sulla parete opposta all’ingresso c’è un crocifisso di legno imbarcato. Sotto c’è l’altare, una lastra di travertino povero sorretta da pilastri di legno intarsiati a rilievo. La chiesa è spoglia, ci sono solo una sedia di paglia e un inginocchiatoio che servono da confessionale.

    Il pavimento è fatto d’assi grezze, incrostate dal tempo e da troppe mani di pittura.

    Nell’unica nicchia c’è il quadro di una Madonna con in grembo il Bambino girato, come se volesse scendere e correre via. Dietro di loro è raffigurato un giardino rigoglioso. I rami di una pianta di limoni sfiorano il viso dell’Immacolata e lo illuminano. Il Bambino tende la mano verso un angelo che fa capolino da un rampicante punteggiato da fiori gialli.

    Appena varcata la soglia, un irrigidimento improvviso del monaco in testa alla fila fa capire agli altri che qualcosa non va.

    Rompendo l’ordine del gruppo, i carmelitani si avvicinano all’altare, ai piedi del quale giace un maiale morto, con il grifo spalancato in un orrido ghigno.

    La bestia ha la testa fracassata e sono visibili alcune ossa del cranio. Ma un particolare spaventa ancora di più i monaci: sul ventre dell’animale c’è una croce cristiana incisa con due tagli profondi.

    Molti si segnano e sputano sulla carogna. Padre Nicolò Doria scosta i confratelli per vedere meglio.

    La scena raccapricciante, immonda, gli fa sobbalzare lo stomaco.

    I padri si guardano intorno, terrorizzati dal maligno che aleggia. Senza criterio e razionalità, scrutano gli angoli più bui alla ricerca del demone. Il superiore alza lo sguardo al Cristo sul crocifisso: ha gli occhi infuocati dal riverbero delle candele. Sembra inorridito anche Lui.

    Padre Nicolò Doria dispone che si rimuova il maiale per porre fine alla profanazione dell’altare.

    Nessuno si fa avanti. Solo la paura.

    III

    Pimain, con il bastone, piega le erbacce che gli ostacolano il passo.

    Il profumo della lavanda si attacca alle narici e, prepotente, scaccia ogni altro effluvio. La primavera non ha fretta di incontrare l’estate, quest’anno.

    L’uomo deve raggiungere la casa di un contadino, ma, ben prima di arrivarci, una decina di bambini lo accoglie sul sentiero. Due treccine bionde gli offrono una ciotola d’acqua. Una testa arruffata gli chiede se davvero ci sono stati nuovi sbarchi di feroci mori saraceni a Ponente. Si dice che non abbiano pietà che per i figli maschi, che abbiano spade ricurve, che parlino come le scimmie.

    Pimain ammette che sono meglio informati di lui.

    Una manina dalle unghie nere gli porge una piccola radice dolce. Il visitatore rifiuta con un movimento armonico del bastone. Non così il cane, che addenta con un balzo il dono e lo mangia trotterellando.

    Il bambino più grande corre verso il casolare ad annunciare l’atteso arrivo.

    Pochi istanti dopo, l’uomo è accolto dal contadino con pacche sulla spalla e una bestemmia di benvenuto. La moglie sdentata, con i capelli indecorosamente scoperti, lo saluta sulla soglia di casa. Ha in braccio un neonato pallido, stretto in fasce che non ricordano più nulla dell’antico candore.

    Dall’interno si sente uno sbraitio lamentoso. Il contadino entra in casa. Torna portando una sedia su cui è seduta una vecchia minuta con la faccia da prugna e la sistema in un angolo dove c’è l’arcolaio. La donna, contenta, ora guarda e lavora.

    I bambini attorniano il cane che, d’improvviso, si è immobilizzato con una zampa davanti sollevata a puntare un cespuglio. Nulla lo distoglie dalla rigidità assoluta. Neppure il cibo. I piccoli spettatori sono incuriositi e timorosi.

    Il suo padrone rivela d’averlo trovato mentre girovagava sperso sul molo più lontano del porto di Genova. Lo ha chiamato Mat, e non ricorda più se come diminutivo di mattone, come il colore rosso del pelo, o di matto, visto il suo modo bizzarro di comportarsi.

    «Che poi tanto strano non è», assicura Pimain prendendo un sasso da terra e lanciandolo nel cespuglio puntato dal cane.

    Subito due grossi merli spiccano un balzo con un gran sbattere d’ali. I bambini salutano il volo con squittii di meraviglia e accarezzano il cane che è tornato a leccare i loro piedi scalzi.

    Ora il visitatore chiede che l’accompagnino nel recinto dei maiali. Il padrone delle bestie lo precede, girandosi di continuo per indicare la strada al guaritore.

    I due passano davanti a un capanno di legno e dal pavimento in terra battuta.

    Un maiale adulto, del peso di mezzo uomo robusto, è appeso al soffitto a muso in giù, vivo. Il manto è di colore marrone con striature nere.

    Il figlio maggiore mette un vaso sotto il muso dell’animale. Solleva la scure e l’abbatte con forza sulla testa del maiale. L’arma scivola sulle setole e spezza uno dei lunghi canini che arrivano sino davanti agli occhi del suino. C’è bisogno di un secondo e più preciso colpo. La bestia caccia un grido acuto. Il ragazzo si sbriga a sgozzare il maiale. Ha ancora molto da imparare, pensa Pimain.

    Più il porco strilla, più il sangue sarà buono, si dice. Il sangue cola in due rivoli nel vaso sottostante.

    Il ragazzo esorta il fratellino a mescolare senza fermarsi, per non farlo coagulare. Il piccolo esegue girando veloce un cucchiaio di legno.

    Intanto, il maggiore, con un coltello dal manico d’osso, taglia un pezzo d’orecchio per farlo bollire e poi gettarlo nel letamaio, un sistema sicuro per scongiurare le malattie.

    Pimain sorride conoscendo l’usanza.

    Il contadino esalta la bravura del figlio precoce e lo definisce una benedizione per la sua casa.

    Socchiude la camera della macellazione quando sente il maggiore ordinare d’accendere un fuoco per togliere le setole.

    Più lontano, i due uomini raggiungono il posto dove i maiali sono radunati: una bassa palizzata di rami intorno a una quercia. Così gli animali si cibano delle ghiande che cadono a terra. Secondo la bontà della stagione, e il morso delle carestie, a questa dieta sono aggiunte faggiole, castagne, fave.

    Il contadino indica a Pimain un verro che si contorce con furia su se stesso, sbattendo di continuo il muso contro l’albero.

    È venuto il momento per l’uomo di cominciare il suo lavoro.

    Pimain è un guaritore di maiali.

    Per prima cosa entra nel recinto, nonostante il contadino cerchi di fermarlo. Lo avvisa che il porco carica con i canini in resta chiunque si avvicini. Il guaritore ordina all’uomo di tacere e restare discosto.

    Il verro annusa l’aria. È indeciso e scava la terra con l’unghia di una zampa, ma non si muove.

    Pimain gli parla piano. L’animale scarta di lato e parte a muso basso, ingobbendosi per essere compatto e colpire più forte.

    Il guaritore resta calmo, evita la carica spostando il peso sulle gambe. Poi, prima che si rigiri, gli mette una mano in testa e subito il maiale si cheta.

    L’uomo esamina l’animale sotto le pieghe del collo. Ha già capito di cosa si tratta. Chiede al contadino del fuoco.

    Nell’attesa, continua a lisciare il verro accovacciato ai suoi piedi. La bestia lo guarda con occhi lucidi, perché si specchi nella sua sofferenza.

    Il guaritore gli tira indietro le orecchie in segno di comprensione.

    Arriva una torcia vivida insieme alla famiglia al completo.

    Pimain ordina che tutti stiano indietro, oltre lo steccato, e che nessuno intervenga qualunque cosa accada.

    Tenendo ben saldo il ramo infuocato, lo passa sempre più vicino, e sempre più a lungo, sulla gola del maiale. L’animale non fugge, rimane docile al calore devastante della fiamma. Strilla, soffia dalle narici, ma non si muove.

    Pimain ormai tiene la torcia a contatto diretto con la gola dell’animale che comincia ad annerire. Il puzzo di setole bruciate si spande intorno.

    Finalmente, sotto la pelle del porco, si vede una sacca rigonfia che si muove convulsamente. Prima una, poi due, poi altre…

    Il guaritore continua a insistere con la torcia, mentre con l’altra mano, la mancina, estrae un coltello minaccioso con il manico di corno e prende a incidere la gola del verro.

    La moglie esorta il marito, digrignando i pochi denti, a entrare nel recinto. Il guaritore è impazzito.

    La morte di quel maiale è una sciagura per la famiglia. Il contadino scongiura l’uomo di smettere.

    Pimain non dà retta e seguita a tagliare l’animale, senza dare tregua alle escrescenze che vorticano sotto la cotica.

    Insieme al sangue, escono dal collo del verro vermi lunghi tre monete e grossi una. Il guaritore, con la lama, scarnifica l’animale fino a raggiungere con due dita l’ultimo verme che continua a rintanarsi nelle carni. La caccia è finita.

    Pimain appoggia la fiamma sulla ferita per cicatrizzare il lungo squarcio. Il porco seguita a rimanere immobile e vigile. Il guaritore sente una presenza accanto a lui nel recinto. D’improvviso, si ritrova a osservare un sandalo pestare l’ultimo verme che si contorce nel fango, come la raffigurazione di Dio che schiaccia il serpente nell’Eden.

    Pimain alza lo sguardo. È un monaco. Dalle vesti sa che appartiene ai carmelitani scalzi.

    «Parlate ai maiali, tagliate loro la gola, li offendete con il fuoco, e loro vi ubbidiscono ugualmente. Basterebbe che io raccontassi quello cosa vi ho visto fare a questo maiale, animale di per sé reietto, per farvi finire sul rogo.»

    «La stregoneria non c’entra. E comunque, voi non avete l’aspetto del delatore.»

    «Già. Vedo che non conoscete solo la natura dei porci. Io sono padre Custode. Il superiore dei carmelitani scalzi, padre Nicolò Doria, ha bisogno di voi, e subito. Vi prega di seguirmi al convento di Sant’Anna.»

    Pimain sa che non può rifiutare.

    Con uno scatto, molla la presa e libera il verro che si mette a grufolare il terreno e a mangiare alcune ghiande, cosa che non faceva più da giorni.

    Il contadino e la moglie benedicono il guaritore e s’inchinano a lui.

    Più per impressione che per riconoscenza.

    Una bambina corre a baciare la mano del carmelitano che lascia fare di malavoglia per non deluderla.

    Pimain indica l’unico maialino del recinto e raccomanda al padrone di dargli al più presto dell’essenza di crotontiglio per purgarlo.

    «Deve avere mangiato delle felci o del lupino giallo. Se non li dà fuori, c’è pericolo che muoia.»

    La moglie ha un cestino con delle uova e un salame come compenso. Pimain le assicura che passerà in un altro momento. Ora deve andare.

    Padre Custode annuisce con la testa, si mette il cappuccio per ripararsi dall’ultimo raggio di sole di pianura e s’incammina.

    Il guaritore di maiali allunga il passo. Sentendo gli strilli del verro che ancora escono dal mattatoio, si precipita nel capanno. Spalanca la porta, impugna il coltello e, sotto gli sguardi allibiti dei due fratelli, infila la lama nel petto del maiale, giusto all’altezza del cuore. L’animale non emette più alcun verso.

    «Non c’è alcun bisogno di farlo soffrire. E poi, se soffre, la carne diventa cattiva, delle volte persino velenosa. Conosco tre famiglie morte così.»

    Il monaco sorride e pensa che sia uno strano modo di educare.

    Il guaritore di maiali pulisce il coltello nell’erba e prende a salire una collinetta per raggiungere il sentiero.

    Il cane, Pimain se lo ritrova poco dopo tra le gambe con il muso sporco di sangue.

    IV

    Mi muovo lento e pesante in questa piccola stanza. Celebro la mia potenza. Ogni passo vuol essere una cerimonia. Le assi del pavimento rispondono con un lamento da mea culpa.

    Ci sono strisce di luce intorno alle finestre chiuse. Ho sigillato le

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