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Eurogatti. 15 storie assortite
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E-book289 pagine4 ore

Eurogatti. 15 storie assortite

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Info su questo ebook

Eurogatti, di Piero Bini è una gatteide paneuropea nella quale si muovono felini dall’indole più varia: stravaganti e anticonformisti, sensuali e sentimentali, nostalgici e creduloni, magici e ieratici. Raccontano di storie un po’ bislacche, ma accattivanti e non prive di quel senso dello humor che le rende veramente divertenti. Gatti che giocano con il doppio senso, in cui il sottinteso si contrappone all’inteso; a volte protagonisti e narratori, altre volte rivestono ruoli marginali ma mai di poco conto: con astuzia e malizia tipicamente gattesche disvelano i risvolti occulti delle vicende, scorgendo particolari che sfuggono all’umana comprensione.
Il nostro fantastico Autore ci propone una raccolta di 15 storie della tradizione popolare europea nelle quali tratteggia egregiamente il profilo psicologico di ogni gatto soprattutto in relazione al contesto in cui vive. La musicalità del ritmo narrativo, che sembra quasi ricordare la sinuosa andatura gattesca, accompagna costantemente il lettore lungo tutta la lettura. Le note dolci e soffuse della sofisticatezza del lessico esprimono le emozioni più profonde, vanno alla ricerca del particolare, scendono negli abissi, alla scoperta dell’io: ne resta un’individualità sempre più complessa, vittima delle eterne contraddizioni umane.
Infine, strettamente collegato alla musicalità è il simbolismo che caratterizza l’intera narrazione, attraverso il quale l’Autore esplora l’ignoto per mezzo della percezione dei sensi. Favole decisamente per adulti, perché anche l’adulto deve assolutamente sognare.

L’autore scrisse queste fiabe tanti anni fa quando erano quindici le nazioni europee interessate a entrare in una federazione in nome di principi ritenuti fondamentali. Ora sono molte di più, ma è sempre opportuno rammentare un passato secolare ricco di divergenze e di rivalità: gli Eurogatti hanno questo compito.
Nato in una città padana alla fine degli anni ’30 del secolo scorso, pur amando le montagne e la vela, è sempre rimasto in quell’alveo nebbioso. Completati gli studi liceali, si è laureato in Medicina a Milano per poi specializzarsi in Pediatria a Torino, dove ha continuato a lavorare, alternando però sia parentesi di missioni all’estero, sia letterarie. Eurogatti è la sua prima opera edita, scelta fra le tante nel cassetto.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791220135283
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    Anteprima del libro

    Eurogatti. 15 storie assortite - Piero Bini

    Copertina-LQ.jpg

    Piero Bini

    Eurogatti

    15 storie assortite

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3052-3

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Eurogatti

    15 storie assortite

    Alla mia gattina bianco e nera

    ed a chi l’ha sostituita.

    Presentazione dell’opera

    Le quindici fiabe sono dedicate alle prime quindici nazioni dell’Unione europea, ora dilatatasi, dopo aver perso inopinatamente la Gran Bretagna, in attesa che torni però a farne parte. La proposta è quella di aggiungere non solo quelle ora accettate, ma addirittura le nazioni che, condividendo lo stesso spazio geografico che arriva agli Urali, si sentono di farne parte malgrado le differenze: attenendosi ai medesimi principi politici di rispetto reciproco e di tolleranza, allargando idealmente i confini per una laboriosa maturazione di una identità collettiva.

    Per questo è lecito immaginare che altre fiabe vengano scritte e, dopo essere state valutate siano raccolte (anonime, ma firmate con una zampata o con uno pseudonimo accattivante) in una prossima edizione, contribuendo così ad affinare la sensibilità di chi si sente europeo. Non solo un appuntamento letterario, ma una palestra, specchio di inaspettate ma affascinanti connessioni riflesse con grande libertà creativa nell’immaginario gattesco. Saremo lieti di raccogliere idee al proposito.

    Avvertenza dell’autore

    Le quindici favole raccolte sono dedicate ai paesi europei che hanno deciso di integrarsi qualche tempo fa, lasciando alle spalle un faticoso passato di rivalità e incomprensioni. Le storie si dipanano per più di mille anni, dall’Epoca carolingia ai nostri giorni, con una cadenza che diventa incalzante avvicinandosi all’oggi, adesso che se ne sono aggiunti degli altri e nello stesso tempo si sono affievolite le speranze di una più coraggiosa integrazione.

    In attesa di qualche gatto disposto a completare la raccolta, le fiabe possono servire come ammonimento per ricordare a loro come sia stato difficile per tutti sedersi gli uni accanto agli altri e condividere un tragico passato col proponimento di non ripetere gli stessi errori. Dunque una maggiore, dolorosa consapevolezza al posto dell’orgoglio promesso. Più esplicitamente intendono essere un monito per ricordare come le finalità della ragione siano sempre fragili, per il pericolo di essere scalzate non solo da antichi pregiudizi, ma pure da insidiose ideologie capaci di rinnovare secolari timori.

    Non ci si può meravigliare se, variando luoghi e tempi, cambiano il linguaggio e gli umori in un arco che porta dalla fede alla nevrosi. Sembra evidente che le storie, senza avanzare alcuna pretesa, abbiano il vezzo di fornire al lettore un frammento di Storia in cui specchiarsi. Per carità, minuscoli lembi di un ambito ben più vasto. In luogo di un’impossibile compiutezza, c’è la libertà dell’invenzione che mescola gli elementi di tragedie lillipuziane alla commedia.

    Per togliere un possibile equivoco, dirò che non paiono scritte per ragazzi. Vogliono anzi essere fiabe per adulti. Per restituire loro la possibilità di commuoversi con l’innocenza sopita dell’infanzia: un sorriso, una carezza, una strizzata d’occhi e qualche lacrima, come risarcimento per essere obbligati a crescere in un mondo dove la crescente capacità di manipolazione tecnica sottrae all’uomo il suo ardire immaginativo.

    Una gatteide diacronica paneuropea

    L’ho visto, visto e riconosciuto. È un grande gatto dal pelo tendente al grigio. È abitualmente silenzioso, ma scruta il mondo che lo circonda con occhio ironico. Non commenta, non sentenzia: si è assunto il ruolo impegnativo e fondamentale del testimone. Testimone delle storie e quindi della Storia. Testimone che registra a futura memoria. In ogni tempo od epoca in cui si sia trovato ad agire ha porto con apparente indifferenza la sua profonda cultura e puntuale informazione con noncuranza, come un semplice presupposto. Nel narrare si è posto talora in veste di protagonista, talora in veste di comparsa, ma sempre centrale ed essenziale per l’intelligenza della vicenda.

    State attenti a non farvi catturare dalla sua penna, quando scrive. È un grande gatto dal pelo tendente al grigio che scrive racconti accattivanti, teneri e crudeli, dolenti del dolore di vivere.

    È un grande gatto che scrive, scrive ed usa uno pseudonimo…

    Pangur Bán

    Scél cechtar nathar fria saindán – Ciascuno ha il suo talento: traduzione di Melita Cataldi.

    Molti e molti anni fa, prima di Brian Boru, di Malachia e della guerra con Olaf Guran, addirittura prima che i Vichinghi risalissero il Liffey e lo Shannon, le valli d’Eren erano già verdi e le donne avevano chiome rosse come bacche d’inverno.

    In uno di quegli anni viveva, nel monastero di Glendalough, un giovane monaco di nome Fiakra.

    Era di umore scontroso e infelice perché non sapeva cantare. Quando apriva bocca il pomo d’Adamo gli andava su e giù, la lingua gli si incollava al palato e la bocca diventava arida come il forno in cui fratel Padráig cuoceva il pane. Tutte le mattine si alzava prima dell’alba, quando la notte inizia ad impallidire e le stelle si spengono una ad una, accendeva una lucerna e ci provava.

    I confratelli avevano pena di lui, sapevano del suo imbarazzo, ed avrebbero voluto che la sua voce intonasse le lodi al Creatore. Gli avrebbero persino prestato le loro, se avessero potuto. Ma questo non era possibile e, non sapendo cosa fare, si grattavano le barbe pensierosi.

    Uno, più focoso degli altri, finì di parlarne all’Abate: «Non trovi indecente che Fiakra tutte le mattine, malgrado il decotto di ortiche col quale si schiarisce la gola, mandi dei ragli da far rivoltare i maiali nella fossa e stordire le trote nei torrenti?».

    L’Abate era un uomo saggio e di grande reputazione. Da novizio aveva accompagnato il suo predecessore fino a Roma. Aveva visto la tomba di Pietro, l’arco di Tito e si era fermato a meditare sulle grandi rovine. Conosceva perciò il mondo e sospirò: «Hai ben ragione. Dio non ci ha fatto tutti uguali. Se non l’ha fornito di una bella voce, vuol dire che si aspetta altro da lui. Lo manderò nella foresta di Tethradorcha come eremita. Là potrà pregare Dio, senza infastidire i maiali».

    Dopo l’ora Terza chiamò dunque Fiakra che uscì timoroso dalla cella: «Fiakra, ti ordino di andare nel bosco della nostra paruchia¹. Cerca la parte più oscura e solitaria, costruisci il tuo rifugio e cerca di vivere come ti ho insegnato».

    «Diletto Padre, mi mandi da solo nella parte più oscura del bosco, come potrò da solo testimoniare la misericordia e l’umiltà? A chi laverò i piedi? A chi farò atto di obbedienza?».

    «Il silenzio sia la tua umiltà e la tua misericordia. Quanto all’obbedienza, va dove ti comando».

    «Diletto Padre, mi mandi nella parte più oscura del bosco, dove persino gli animali hanno paura. Cosa ho fatto per meritare questo privilegio? Sono forse uno dei guerrieri Fianna, per non avere timore?».

    «Porta con te chi vuoi, se hai paura».

    Fiakra chiese in giro: «Vuoi venire con me nella foresta di Tethradorcha? Costruiremo una cappella e pregheremo il Signore».

    Nessuno volle accompagnarlo. Tutti avevano paura e temevano che la voce di Fiakra avrebbe disturbato i folletti e risvegliato i demoni che dormivano all’ombra delle querce.

    Fiakra tornò umiliato dall’Abate: «Tu hai fiducia in me. Mi dai il privilegio di abitare nel profondo della foresta dove nessuno ha pregato il Signore. Ma non trovo chi vuole seguirmi, al di fuori di Pangur Bán, che è sordo e non teme la mia voce».

    «Porta con te Pangur Bán, allora, e Dio ti benedica».

    Poi ebbe pena di lui e gli affidò una cassetta. Dentro c’erano codici antichi, pergamene, tavolette per scrivere ed uno stilo appuntito: «Prendili: là avrai il tempo di farne delle copie, come fa Fratel Brandon. I colori li fabbricherai da te, con le bacche del bosco. Torna l’anno prossimo per Cétamon e vedrò cosa sei riuscito a combinare».

    Pangur Bán era un gatto con una grande testa piatta, il pelo bianco, gli occhi più grandi che si possano immaginare, un olfatto finissimo, ma sordo da non sentire neppure il tuono quando scoppiava d’estate. Aveva la voce fessa come quella del giovane monaco e non riusciva a miagolare alla luna come i suoi simili. In compenso acchiappava i topi con grande abilità ed era generoso di cuore al contrario degli altri gatti che di solito fanno i fatti loro e basta. Fiakra lo chiamò e gli chiese di andare con lui. Il gatto non rispose né sì, né no; gli leccò la mano e fece le fusa. Da questo Fiakra arguì che non era maldisposto.

    Si avviarono insieme. Dopo un giorno si fermarono. Fiakra eresse un riparo con le frasche raccolte. Al mattino, quando le stelle iniziavano ad impallidire, cantò il mattutino. Il giorno seguente arrivò un servo: «Tieni – gli disse – queste sono le trote che abbiamo trovato stordite nella vasca, per non parlare dei maiali che sono fuggiti. L’Abate ti comanda di fare ancora un giorno di viaggio, prima di costruire la tua capanna».

    Fiakra allora riprese Pangur Bán in braccio, si mise la cassetta sulle spalle, ci legò le trote avvolte in foglie di ontano e proseguì.

    Dopo tre giorni arrivò dove il bosco era così fitto che gli uccelli non potevano penetrarvi. Davvero in quel luogo nessuno aveva pregato dalla notte dei tempi. Capì di essere arrivato: posò la cassetta e il gatto sull’erba, si prosternò e ringraziò il Signore. Tuttavia, per timore che l’Abate mandasse qualcuno a scacciarlo, aspettò altri tre giorni in silenziosa preghiera.

    Se non sapeva cantare, aveva imparato da fratel Ronan a scavare, a spaccare le pietre col picco e squadrarle con la mazza ferrata. Nessuno altro al convento ci sapeva fare come lui e, al termine della giornata, avrebbe potuto pensare:

    "Abito in una capanna della foresta,

    non la conosce alcuno, se non Dio, il mio Signore".

    Passò un anno ed il giorno di Cétamon Fiakra tornò al monastero.

    «Allora, fammi vedere cosa hai combinato» disse l’Abate.

    «Per sei mesi ho spaccato le pietre, ho tagliato gli alberi per costruire un tetto alla capanna e per mettere al riparo la cassetta che mi hai dato».

    «Bene e poi?».

    «È arrivato l’inverno, con le pietre mi sono fatto un focolare e per riscaldarmi ho bruciato il tetto. Per mangiare mi sono accontentato di bacche e dei topi che acchiappava Pangur Bán».

    «E i codici e le pergamene?».

    «Sono rimasti all’asciutto in una nicchia del muro».

    «Fiakra, ho avuto pazienza con te. Ti aspettavo con i codici freschi d’inchiostro e sei tornato a mani vuote. Torna nella foresta: per il prossimo Cétamon voglio un lavoro ben fatto».

    Fiakra tornò nella foresta. Quando venne l’estate riparò il tetto con uno strato di paglia e tagliò la legna per il camino. Poi si costruì una panca e posò sulla tavola la cassetta dell’Abate. Dovette tagliare il bosco intorno. Di questo chiese perdono al Creatore che mandò gli uccelli a cantare per lui: c’erano merli dal becco giallo e pettirossi, fringuelli ed allodole e di notte persino un gufo che si sforzava d’essere allegro.

    Tornò l’inverno. Pangur Bán acchiappava i topi e divideva le prede con il monaco. In cambio stavano insieme accanto al fuoco.

    Quando giunse il giorno di Cétamon i monaci lo videro arrivare.

    «Cosa hai portato?» l’interrogò l’Abate.

    «Ho portato i fiori dei prati ed il miele del bosco».

    «E i codici e le miniature?».

    «Al mattino pregavo il Signore. A mezzogiorno raccoglievo le bacche e cucinavo topi. Poi veniva la sera: d’inverno il sole si rannicchia presto dietro la cima degli alberi».

    «Ho resistito al desiderio di punirti per la tua ignavia, e tu non hai portato nulla di quello che ti avevo chiesto!».

    «Dammi qualche capra per nutrirmi di latte: avrò tempo per raccogliere cera degli alveari per farne candele, resina dagli alberi per fabbricare torce e così abbreviare la notte».

    «Torna la prossima primavera e fa che non abbia a pentirmi di averti mandato nel bosco». Era irritato, ma diede ordine al cellario di dargli quello di cui aveva bisogno.

    Passò un anno e Fiakra rifece lo stesso cammino. I fratelli lo videro arrivare senza i codici:

    «L’Abate è occupato a redigere i conti. Meglio così perché ti farebbe frustare. Non farti più vedere senza le copie che ti ha ordinato».

    Eppure Fiakra aveva lavorato tutto l’inverno, aguzzando gli occhi alla luce tremolante delle candele e soffiando sulle mani quando faceva troppo freddo. Pangur Bán gli portava i topi del bosco e i pesci dei torrenti. Lui faceva focacce di orzo selvatico e bevevano insieme il latte delle capre.

    Si era detto: "Prima di vergare una sola lettera sulle pergamene arrotolate, dovrò conoscere le sante parole che riposano nei pallidi solchi dei libri. Perciò passò l’inverno a srotolare le pagine accartocciate. Si stupì della sapienza che vi era contenuta. Consumò gli occhi a sillabare faticosamente ogni parola per farla penetrare nel suo cuore.

    Mentre leggeva, sentiva il fruscio della pioggia, il vento dell’oceano piegare le cime degli alberi, i lupi ululare e grattare l’uscio. Fiakra sentì la stanchezza intorpidirgli le braccia e la paura agghiacciargli l’anima. Solo il maligno poteva correre per le brughiere nelle gelide notti invernali per lanciare al cielo la sua sfida, pensò.

    Ma Pangur Bán non sentì i gemiti dei rami, né lo scroscio della pioggia, né l’ululato del lupo. Rimase accoccolato sulla cassetta dell’Abate a guardarlo coi grandi occhi grigi.

    Allora Fiakra, tranquillizzato, tornò a chinare il capo sulle sante parole per continuare la lettura.

    Pian piano l’ululato dei lupi, il cigolio dei rami ed il ticchettio della pioggia divennero preghiera e canto per il Creatore. Ecco – si disse – se il fragore dell’uragano è un cantico che sale al cielo, il Signore accoglierà anche la mia voce senza lamentarsi come fanno i maiali nei recinti e le trote della peschiera. Passò la notte in meditazione ed alla prima luce del giorno si prosternò al suolo e cantò il mattutino.

    Smise la pioggia di cadere, il vento cessò di soffiare e i lupi si accucciarono brontolando. Così Fiakra si persuase che la sua preghiera era stata accettata.

    Il gatto allora scese dalla cassetta e gli leccò la mano. Si ricordò Fiakra dell’Abate e gioì al pensiero che l’avrebbe fatto felice moltiplicando le parole imparate dalle pergamene, come gli era stato richiesto.

    Ma la primavera sgelò l’acqua dei ruscelli e fu troppo tardi per iniziare. Si accontentò di raccogliere le bacche e le terre con le quali preparò i colori del creato.

    Poi lasciò Pangur Bán a fare la guardia ed andò al convento per Cétamon.

    Al ritorno, come sappiamo, aveva il viso rigato dalle lacrime: nessuno aveva voluto udire la sua storia, né credere che le parole sarebbero uscite una ad una dalla punta dello stilo.

    Il gatto però gli saltò in braccio e strofinò il muso per ringraziarlo d’essere tornato. Fiakra rifletté e cominciò a pensare che l’Abate avrebbe dovuto ben comprendere ciò che persino un gatto sordo mostrava di capire. Non era stato a Roma, non aveva visto la tomba di Pietro, né l’arco di Tito, ma sapeva che il cuore dell’uomo può contenere le bellezze del mondo e tutte le sue imperfezioni.

    Perciò si consolò, sospirò come avrebbe fatto l’Abate, ed intinse nel calamaio lo stilo appuntito per aprirlo alle parole chiuse nel cuore.

    Scrisse e scrisse per quattro primavere colme di zufoli di uccelli, quattro estati piene del ronzio d’insetti, quattro autunni carichi dei colori accesi del bosco, quattro inverni addormentati sotto la neve.

    Pangur Bán lo guardava scrivere. Gli piacevano soprattutto gli incipit con foglie brillanti e grappoli rossi; gli piacevano le grandi lettere infuocate che si torcevano a spirale e le teste dei serpenti con la lingua biforcuta; gli piacevano i mostri alati che spiccavano il volo e i contadini gibbuti chini a zappare la terra. Fiakra miniò anche lui, al posto di un lupo con le fauci spalancate e mise i quattro evangelisti a guardia del suo lavoro: Matteo con le ali d’angelo, Marco con la criniera di leone, Luca con le corna di toro e Giovanni con le penne d’aquila.

    Lavorò e lavorò, i capelli gli crebbero come la foresta intorno, la barba gli scese fino al petto e gli occhi divennero rossi come quelli dei lupi che ululavano nella notte.

    Quando gli tremava la mano, Pangur Bán scendeva dalla cassetta e se ne prendeva cura: la leccava con la lingua rasposa e la scaldava con la sua pelliccia.

    Allora Fiakra intenerito gli cantava dei versi:

    "Tre candele illuminano la notte: una brucia la cera, due sono luci fredde, ma scaldano l’anima.

    Tre i tepori del mondo: il ventre di una madre, la pelliccia di un animale, l’affetto di un amico.

    Tre le felicità: quelle del ventre, della mente e dell’anima…".

    Pangur Bán fingeva di ascoltare, poi si appostava negli angoli a cercare le prede. Fiakra lo guardava con ammirazione e si chiedeva se fosse abile a interpretare le scritture come il gatto nel suo lavoro. E continuava a copiare fino al mattino.

    Passarono quattro anni. Nessuno al monastero si ricordava di loro. Quattro lunghi anni, prima che il lavoro fosse terminato. Lo stilo era consunto, i colori erano secchi, ma i codici nuovi riempivano la cassetta dell’Abate fino all’orlo. Allora Fiakra se la legò sul dorso, prese il gatto in braccio, chiuse l’uscio e se ne venne via, seguito dal gregge.

    Il cammino, dopo tanto tempo, era ingombro di rami. Ginestre e rovi chiudevano il sentiero. Le felci si arrotolarono ai piedi come i tralci dipinti sui libri, le radici dell’erica fermarono i suoi passi. Tre giorni non gli bastarono e perse il cammino.

    Ogni tanto, spossati, sostavano. Fiakra succhiava il latte dalla mammella di una capra e ne metteva un poco nel cavo della mano per Pangur Bán.

    Un giorno arrivarono ad una radura. Sul limitare della radura c’era una capanna. Sulla soglia della capanna, due bambini ricoperti di stracci giocavano con bastoncini e pietruzze. Lo videro e scapparono gridando. Venne fuori una donna e dietro di lei il marito, magri e stenti come fossero stati crocifissi.

    «Abbi pietà di noi» gli dissero.

    «Non abbiate paura, quello che vedete è un povero monaco in abito silvano perché romito da tanti anni».

    Non gli credettero. Allora Fiakra posò la cassetta e il gatto. Si prosternò e cantò le lodi del Creatore. Non c’erano maiali che si spaventassero e il torrente con le trote era lontano. Tutti si segnarono devotamente e resero grazie al Signore.

    Lo condussero nella capanna e gli dissero: «Vennero gli uomini del nord, rubarono gli armenti e uccisero quelli che incontrarono».

    Fiakra non aveva mai sentito parlare degli uomini del nord e apprese che avevano barche veloci, scudi rotondi e lame taglienti. E non avevano pietà neppure per i servi di Dio.

    «Forse è arrivata la fine del mondo e io ero così occupato da non sentire le trombe dell’annunzio». E se ne dispiacque per non aver consegnato i libri all’Abate per tempo.

    «No – gli dissero – l’Abate e la sua gente non ci sono più: non per l’angelo del Signore, ma per la lama tagliente di quegli uomini crudeli».

    Lasciò loro le capre per nutrirsi e andò al monastero con un peso sul cuore. Da lontano sentì il gracchiare dei corvi, vide le nere travi dei tetti sprofondati, le mura crollate: si gettò a terra e pianse.

    Raccolse le spoglie dei fratelli, le ricoprì pietosamente con le pietre perché non fossero cibo per lupi e la carne fosse conservata per la Resurrezione.

    Chiese perdono all’Abate per aver così tardato e rimpianse di non essere con loro che già erano al cospetto di Dio.

    La gola era arsa, ma il dolore gli diede forza ed intonò un canto di pace. Non c’erano maiali, né trote nelle vasche. Vennero invece i contadini fuggiti nei boschi e piansero con lui.

    «Rimani con noi» lo pregarono. Ma Fiakra doveva mettere in salvo i codici preziosi. Prese la cassetta e Pangur Bán e si avviò verso il mare interno.

    Decise di attraversarlo per portare fino a Roma la cattiva novella. Arrivato alla riva chiese a Pangur Bán: «Vuoi venire con me?». Il gatto non capì, ma gli leccò la mano e Fiakra lo prese con sé, anche se aveva paura delle onde.

    Andarono e andarono, come girovaghi, ma timorosi di chiedere l’elemosina e mangiando le erbe dei prati. Si fermarono ad ogni monastero e raccontarono la loro storia. I monaci piangevano con loro e sotterravano le reliquie per paura degli uomini del nord.

    Fiakra era molto stanco, le cinghie della cassetta gli avevano solcato la pelle, ma Pangur Bán gli leccava la mano e le spalle e gli ricordava di proseguire.

    Andarono e andarono. Giunsero dove la piana si innalza e monti altissimi chiudono il cammino. I pastori gli indicarono la strada. Fiakra gemette al pensiero di salire sopra le nuvole. Pangur Bán gli leccò la mano, e lui non sentì più la stanchezza.

    Forse Roma è dietro quei monti – pensò. –Vedrò la tomba di Pietro, l’arco di Tito e dirò al Papa di non fidarsi degli uomini del nord.

    Andò e andò finché giunse alle porte di un monastero e chiese del Papa di Roma. «Non è qui, dissero, ma ti puoi fermare lo stesso, se sei stanco. Ti daremo un giaciglio, del latte fresco ed un pane di segale.

    Quando videro le piaghe dei piedi pensarono che fosse un santo. Chiamarono l’Abate.

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