I mercanti dell'universo
Di Ünver Alibey
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I mercanti dell'universo - Ünver Alibey
Introduzione
Il dottor Roh si rilassò sulla poltrona, i piedi appoggiati su uno sgabello. Era di buon umore.
Intorno a lui, a mezz’aria, erano aperte diverse finestre internet. Si concentrò su un sito in particolare, controllò il grafico della chiusura del mercato azionario e si congratulò con se stesso: gli affari che aveva avviato nelle Terre Orientali si stavano rivelando fruttuosi. Seguendo il consiglio di un amico, aveva investito tutti i suoi risparmi nelle miniere di Ariq. La previsione del suo amico era che l’Ariq avrebbe presto sostituito l’energia nucleare. Si trattava di un cristallo che veniva estratto esclusivamente in un’area alquanto ristretta delle Terre Orientali e fino ad allora era stato usato solo per creare piccoli oggetti decorativi. Era facile da lavorare ed emetteva una luce morbida e piacevole quando i raggi del sole lo colpivano. L’ipotesi era che avrebbe sostituito tutte le altre fonti di energia: per prima cosa, era ecologico – sebbene, certo, l’ambiente non avesse poi così tanta importanza, dopo quello che era successo al pianeta. Tuttavia, era necessario proteggere ciò che ne rimaneva. Il nucleo del cristallo di Ariq era in grado di immagazzinare energia solare, che avrebbe potuto essere utilizzata all’infinito, o almeno, finché il sole non si fosse trasformato in una supernova, il che sarebbe accaduto non prima di qualche milione di anni. Il dottor Roh chiuse il sito con un gesto della mano, facendo svanire la proiezione. Immerse i piedi palmati nello strato poco profondo di acqua calda che ricopriva il pavimento e si alzò, poi andò alla finestra schizzando in giro. Era appena passata la mezzanotte; all’interno della cupola trasparente che ricopriva la città, una luce rossastra e diffusa creava un’atmosfera cupa nelle strade deserte. Le case di periferia sorgevano nell’acqua bassa della palude e i loro tetti sfioravano la cupola, che copriva un’area di venti chilometri quadrati. Le abitazioni, circolari e a due piani, sembravano un po’ sue copie in miniatura. Più le case erano lontane dal bordo della Cupola, più avevano valore. Nei quartieri centrali, più vivaci e fiorenti, c’erano alberi di Sab sparsi qua e là, piante nere dal tronco a botte che non avevano bisogno di ossigeno e che crescevano lentamente, allungandosi di soli due centimetri ogni dieci anni. Facevano pensare a strane statue, con rami articolati e foglie aghiformi che si spingevano verso il cielo. Inoltre, nelle strade si trovavano fontane che pompavano ossigeno a ciclo continuo, così che si poteva uscire senza respiratore e ammirare anche gli alberi di Roabab che fiancheggiavano i viali, ombreggiandoli con fronde verdi. Sotto la cupola si poteva essere felici solo quando si riusciva a dimenticare il costo dell’ossigeno necessario a sopravvivere, e nei quartieri periferici ciò risultava difficile, soprattutto a causa delle occasionali esplosioni che avvenivano all’esterno, impossibili da ignorare, tanto erano abbaglianti. No, non era facile dimenticare la realtà. Inoltre, di tanto in tanto c’era anche il rischio di avvistare un Reflectoniano che appoggiava il naso semi-fluido sul vetro per ispezionare le creature all’interno con il suo unico occhio sporgente.
Il dottor Roh rabbrividì, pensando ai Reflectoniani e alla loro vita fuori dalla Cupola. Erano arrivati dopo la Grande Caduta e si erano stabiliti sul pianeta senza chiedere il permesso. A chi avrebbero dovuto chiederlo, tra l’altro? E perché? Tanto, nessuno che avesse bisogno di respirare ossigeno avrebbe comunque più potuto vivere all’esterno della cupola.
Provò una gioia improvvisa: se tutto fosse andato bene, come stava andando in quel momento, e il valore delle sue azioni fosse aumentato ancora, presto, forse addirittura entro poche settimane, avrebbero potuto trasferirsi in un quartiere migliore. La sua bella moglie, Rebla, ne sarebbe stata molto felice.
Decise di andare a letto, ma era troppo elettrizzato per riuscire ad addormentarsi. Ci avrebbe provato comunque: l’indomani doveva alzarsi presto per andare al lavoro. Quando finalmente fosse arrivato il frutto dei suoi investimenti, non avrebbe più dovuto lavorare al Centro della Salute di quel quartiere di periferia. Magari avrebbe continuato a praticare ancora un po’, facendosi ogni giorno il tragitto dal centro fino a lì. Solo immaginare il viaggio, però, lo fece sentire stanco. Tutto sommato, forse si sarebbe licenziato nel momento stesso in cui fosse diventato ricco. Salì al piano superiore, dove c’erano un bagno, una camera da letto e una cameretta. Senza fare rumore, entrò nella cameretta e si avvicinò alla culla acquatica. Il piccolo Garth dormiva profondamente, tenendo in bocca il pollice della sua manina appena sviluppata. Il dottor Roh lo osservò per un po’ con espressione amorevole, aprendo e chiudendo le branchie sotto le orecchie come due ventagli. Negli Urganiani adulti, le branchie servivano a esprimere le emozioni, ma fino alla pubertà mantenevano la loro funzione principale. Il dottor Roh immerse una mano nella culla per controllare la temperatura dell’acqua, poi toccò i pulsanti sul pannello per aumentarla di un grado. Soddisfatto, guardò suo figlio un’ultima volta e andò in camera da letto. C’era ancora una cosa da fare prima di coricarsi accanto a Rebla, che si era già addormentata, stanca per essersi occupata del loro bambino per tutto il giorno. Controllò il pannello sulla parete che mostrava la percentuale di ossigeno pompata nella camera da letto: segnava 25%. Perfetto per una buona notte di sonno. Toccò un pulsante per interrompere la somministrazione di ossigeno in soggiorno. Non vedeva l’ora che arrivasse il giorno in cui sarebbe stato tanto benestante da non doversi preoccupare di sprecare ossigeno. Si sdraiò infine nell’acqua calda del letto, che ricordava una vasca da bagno mezza piena, accanto alla moglie. Proprio in quel momento, a migliaia di chilometri di distanza, un’esplosione nelle Terre Orientali fece crollare la miniera di Ariq. Centinaia di minatori rimasero sepolti vivi e le azioni del prezioso cristallo crollarono a zero. Il dottor Roh non seppe mai di quel disastro, a causa del quale aveva perso tutto: niente denaro significava niente ossigeno. E senza ossigeno, non si svegliò mai dal sonno a cui si era faticosamente abbandonato. Non seppe mai che, contrariamente a quanto sostenuto dai media, l’opinione pubblica riteneva che l’incidente alla miniera fosse stato causato da un sabotaggio.
Parte prima
Capitolo 1
Sdraiato sulla schiena, il dottor Leonid Poritkovski fissava il soffitto. Era notte fonda, ma lui era sveglio. Prese in mano l’orologio: le 03:12… Era la prima volta che si ritrovava sveglio nel cuore della notte. In qualche modo, da quando era iniziata la sua nuova vita
sotto la Cupola di Marte, si era addormentato ogni sera alle 23:30, appena appoggiava la testa sul cuscino, e aveva dormito come un bebè, senza interruzioni, senza mai ridestarsi prima che la sveglia suonasse la mattina dopo, alle 7:30. Aveva ipotizzato che la causa fosse il fischio del vento, che lo cullava come una ninna nanna, o magari la stanchezza eccessiva dopo aver trascorso molte ore al lavoro in laboratorio. Dopo un po’, però, si era abituato al ritmo e aveva smesso di porsi domande.
Ripensò agli ultimi due mesi. Era arrivato lì in fretta e furia per addestrare i volontari in preparazione del loro viaggio su Marte. Da Istanbul era giunto all’aeroporto di Heathrow, a Londra; da lì, dopo essersi unito ad altri due scienziati, aveva viaggiato fino a New York a bordo di un jet privato della NASA. A New York si erano incontrati con gli altri membri della squadra scientifica e, dopo una serie di riunioni, seminari e conferenze, si erano imbarcati su un altro aereo per l’Arizona. Infine, avevano affrontato l’ultima parte del viaggio sistemati nel retro di un camion convertito in casa mobile, che li aveva accompagnati fino al cancello d’ingresso della Cupola di Marte. A quel punto erano stati presi in consegna
dal personale della base.
Certo che è proprio strano, pensò. Non vedo la luce del giorno da quando ho lasciato Istanbul. Tutti i miei voli erano notturni, e anche il viaggio in macchina. Se penso che non la rivedrò per almeno altri sei mesi…
Aveva ragione. La Cupola di Marte era fatta di un cristallo speciale che lasciava filtrare solo la frequenza del colore rosso. Era fondamentale che i volontari si abituassero alla luce del giorno marziano, oltre a vivere in un ambiente privo di ossigeno. Ecco perché avrebbe dovuto aspettare ancora a lungo, prima di rivedere il cielo azzurro fuori dalla cupola. Improvvisamente si sentì triste. Tutti i volontari erano giovani; faticava a credere che a nessuno di loro importasse lasciare la Terra e non vedere mai più i suoi cieli azzurri.
Il personale della Cupola aveva provveduto a disinfettare gli scienziati e a consegnare loro delle tute spaziali dotate di casco prima di ammetterli all’interno. Una volta dentro, avevano sperimentato per la prima volta l’atmosfera di Marte. Saliti a bordo delle Marsmobili, avevano quindi proseguito il viaggio: tre Marsmobili, cinque scienziati e i loro bagagli. Anche gli autisti appartenevano alla squadra dei volontari. La base Marte 9 si trovava proprio al centro della Cupola di Marte. Dopo un’ora di viaggio sul terreno accidentato, accompagnati dal vento generato da giganteschi propulsori, avevano raggiunto la loro nuova casa. Si era trattato dell’ennesimo percorso notturno, considerò il dottor Leonid. Anche in quell’occasione non era riuscito a vedere i dintorni. Se non altro, quella volta il viaggio era stato movimentato: la Marsmobile deviava di continuo, saliva e scendeva, li sballottava. Lì sotto, proprio come su Marte, non c’erano autostrade.
Da allora, i giorni avevano seguito una routine estremamente noiosa; tuttavia, c’era qualcosa che preoccupava il dottor Leonid, una sensazione che non riusciva a definire, una voce nella testa che gli sussurrava che qualcosa non era come avrebbe dovuto essere. Ma cosa? Non riusciva a trovare una risposta.
Dopo una tipica, faticosa giornata di lavoro, trascorsa tra la serra e il laboratorio, si addormentava regolarmente non appena si infilava a letto, senza avere il tempo di pensare e di individuare gli eventuali problemi. Il cervello si spegneva e lui cadeva in un sonno profondo e senza sogni.
E allora, come mai quella notte si era svegliato?
Sentì dei colpi sordi provenienti dal corridoio. Era forse questo che aveva disturbato il suo sonno? Oppure era il contrario, e sentiva il rumore solo perché era già sveglio? Magari succedeva ogni notte, ma siccome lui dormiva come un sasso non lo aveva mai sentito. Aguzzò le orecchie: solo rumori ordinari: il picchiettio, il ticchettio e lo sferragliare della base Marte 9… Ora i colpi avevano lasciato il