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Sulle tracce dei criminali nazisti
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Sulle tracce dei criminali nazisti
E-book538 pagine18 ore

Sulle tracce dei criminali nazisti

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Info su questo ebook

Da Eichmann a Mengele, la storia vera dei nazisti sfuggiti alla giustizia e di chi ha dato loro la caccia 

Che fine hanno fatto i nazisti sfuggiti alla cattura e al processo di Norimberga?
Andrew Nagorski – giornalista pluripremiato e grande esperto della seconda guerra mondiale, già autore di Hitler. L’ascesa al potere – ha ricostruito i casi dei gerarchi e dei gregari che riuscirono in un primo momento a evitare la condanna rifugiandosi all’estero. E, al contempo, racconta le esperienze degli uomini e delle donne che si misero sulle loro tracce e spesso scovarono questi criminali, riconsegnandoli finalmente alla giustizia internazionale. Alcuni “cacciatori di nazisti” divennero famosi, come Simon Wiesenthal ed Eli Rosenbaum, mentre altri operarono nell’ombra, riuscendo a trovare i ricercati solo molti anni dopo, al termine della loro vita. Sulle tracce dei criminali nazisti è un libro unico per chi ama la storia, forte di un’accurata ricerca e di documenti esclusivi, la cronaca di una vicenda rimasta a lungo avvolta dal mistero.

«Una ricerca incessante di giustizia che ha avuto inizio nel 1945.»
The Washington Post

«Un libro coinvolgente e ricco di dettagli.»
Wall Street Journal

«Abbiamo bisogno di affrontare questioni così dure e controverse.»
Jerusalem Post

«Più appassionante di qualunque film hollywoodiano.»
City Journal
Andrew Nagorski
Giornalista pluripremiato, attualmente è vicepresidente e direttore della sezione politiche pubbliche dell’EastWest Institute, un think tank con sede a New York. Nella sua lunga carriera giornalistica, ha lavorato per anni a «Newsweek», guidando le redazioni estere di Hong Kong, Mosca, Roma, Bonn, Varsavia e Berlino. È autore di diversi libri, tra cui The Greatest Battle. Con Newton Compton ha pubblicato Hitler. L’ascesa al potere e Sulle tracce dei criminali nazisti.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2017
ISBN9788822704849
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    Anteprima del libro

    Sulle tracce dei criminali nazisti - Andrew Nagorski

    Capitolo 1

    Il lavoro del boia

    Mio marito è stato per tutta la vita un militare ed è morto da soldato. È lui che l’ha chiesto. Ho cercato soltanto di fargli avere una morte onorevole.

    La vedova di un generale tedesco impiccato a un giudice americano del processo di Norimberga, dalla pièce di Abby Mann Vincitori e vinti, andata in scena a Broadway nel 2011

    Il 16 ottobre 1946, dieci dei dodici gerarchi nazisti che il Tribunale militare internazionale aveva condannato a morte per impiccagione furono condotti al patibolo frettolosamente eretto nella palestra dove soltanto tre giorni prima i soldati americani avevano giocato una partita di basket¹.

    Martin Bormann, il braccio destro di Hitler fuggito dal suo bunker a Berlino negli ultimi giorni di guerra e apparentemente scomparso, fu l’unico dei dodici imputati a essere condannato in absentia.

    In virtù del suo grado più alto, Hermann Göring – che aveva servito Hitler in varie funzioni, da presidente del Reichstag a comandante in capo delle forze aeree, e che aspirava a succedere al Führer – doveva essere impiccato per primo. Il verdetto della corte precisava inequivocabilmente il suo ruolo: «Non vi sono attenuanti o giustificazioni di sorta. Göring è stato spesso, anzi quasi sempre, la forza motrice, secondo soltanto al suo Führer. Fu il principale artefice della guerra d’aggressione sia come capo politico che militare; fu il direttore del programma di lavori forzati, l’ideatore del progetto di soppressione degli ebrei e altre razze in patria e all’estero. Tutti delitti di cui si è riconosciuto colpevole»².

    Ma Göring si sottrasse al boia inghiottendo una capsula di cianuro poco prima che iniziassero le esecuzioni. Due settimane addietro, dopo la lettura dei verdetti, era rientrato nella sua cella «pallido e distaccato, con gli occhi fuori dalle orbite», secondo G.M. Gilbert, lo psichiatra che seguiva i condannati a morte. «A dispetto dell’apparente distacco, le sue mani tremavano», riferì Gilbert. «Aveva gli occhi lucidi e ansimava, lottando contro un crollo emotivo»³.

    Ciò che indignava in modo particolare Göring e alcuni degli altri era il metodo di esecuzione. Il caporalmaggiore Harold Burson, un ventiquattrenne di Memphis che seguì il processo come corrispondente della rete radiotelevisiva Armed Forces Network, dichiarò che «l’unica cosa che Göring voleva proteggere sopra tutto il resto era il suo onore militare. Più di una volta aveva detto che se l’avessero fatto uscire dalla cella e fucilato, concedendogli una morte da soldato, per lui non sarebbe stato un problema. Ma l’impiccagione era la cosa peggiore che potevano fare a un militare»⁴.

    Fritz Sauckel, ideatore del sistema di lavoro coatto, la pensava allo stesso modo. «La morte per impiccagione… quella, almeno, non me la merito» protestò. «La condanna a morte, d’accordo… Ma non così»⁵.

    Il feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il suo vice, il generale Alfred Jodl, chiesero che fosse loro risparmiato il cappio e venissero fucilati, «una morte concessa in tutti gli eserciti del mondo ai soldati sottoposti alla pena capitale» secondo le parole di Keitel. L’ammiraglio Erich Raeder era stato condannato all’ergastolo, ma chiese alla Commissione alleata di controllo «la clemenza di commutare la sentenza in una condanna a morte per fucilazione»⁶. Emily Göring dichiarò in seguito che il marito aveva intenzione di ingoiare la capsula di cianuro soltanto se «la sua richiesta di essere fucilato non fosse stata accolta»⁷.

    Restavano così dieci uomini a dover affrontare il boia, il sergente americano John C. Woods. Herman Obermayer un giovane soldato americano di origini ebree che aveva lavorato con Woods alla fine della guerra, fornendogli materiali di base come assi e corde per le prime impiccagioni, ricordava che il robusto trentacinquenne del Kansas «sfidava tutte le regole, non si lucidava le scarpe, non si faceva la barba»⁸.

    Non c’era nulla di casuale nell’aspetto di Woods. «La sua divisa era sempre trasandata» aggiunse Obermayer. «I pantaloni sporchi e mai stirati, la giacca stropicciata come se l’avesse indossata notte e giorno da settimane, le mostrine di sergente maggiore cucite sulla manica con un unico punto di filo giallo a ogni angolo, e il cappello sgualcito indossato sempre di sbieco».

    Unico boia americano in Europa, Woods dichiarava di aver giustiziato 347 persone⁹ durante i suoi quindici anni di carriera; tra le sue prime vittime in Europa c’erano numerosi militari americani accusati di omicidio o stupro e tedeschi che avevano ucciso piloti di aerei alleati abbattuti o commesso altri crimini di guerra. Questo «alcolista, ex barbone» con «i denti gialli e storti, il fiato marcio e il collo sporco», come lo descrisse Obermayer, sapeva di potersi concedere quell’aspetto trasandato perché i superiori avevano bisogno dei suoi servizi.

    E più che mai a Norimberga, dove Woods fu all’improvviso «uno degli uomini più importanti del mondo» osservò Obermayer, senza tuttavia tradire alcun nervosismo nell’espletamento del suo compito.

    Tre palchi di legno tinteggiati di nero furono montati nella palestra. L’idea era di usarne due alternativamente, tenendo il terzo di riserva nel caso qualcosa andasse storto con i primi due. Ogni palco aveva tredici scalini e le corde erano appese alle travi del soffitto. La corda veniva cambiata dopo ogni impiccagione. Come scrisse Kingsbury Smith, il giornalista che assistette alle esecuzioni, «quando la corda si tendeva la vittima scompariva alla vista all’interno del palco, il cui fondo era rivestito di legno su tre lati e da una tenda scura sul quarto, così nessuno poteva vedere l’agonia degli uomini che penzolavano con il collo spezzato».

    All’1.11 Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri di Hitler, fu il primo ad arrivare alla palestra. Il piano originale prevedeva che le guardie scortassero i prigionieri dalle loro celle senza manette, ma dopo il suicidio di Göring le regole furono cambiate. Quando entrò, Ribbentrop aveva le mani legate, e poi le manette furono sostituite da un laccio di cuoio.

    Dopo essere salito sul palco, «l’ex mago della diplomazia nazista», come scrisse maliziosamente Smith, proclamò ai presenti: «Dio protegga la Germania». Quando gli fu concesso di fare un’altra breve dichiarazione, l’uomo che aveva svolto un ruolo decisivo negli attacchi lanciati dalla Germania contro gli altri Paesi concluse: «Il mio ultimo desiderio è che la Germania comprenda la propria entità e che si raggiunga una comprensione tra l’Est e l’Ovest. Auguro al mondo la pace».

    Woods gli infilò quindi il cappuccio nero, aggiustò il cappio e tirò la leva che apriva la botola.

    Due minuti più tardi entrò nella palestra il feldmaresciallo Keitel. Simith osservò acutamente che «era il primo capo militare a essere giustiziato sulla base del nuovo concetto di diritto internazionale, il principio secondo cui i soldati professionisti non possono sottrarsi alla giustizia per aver intrapreso guerre di aggressione e compiuto crimini contro l’umanità sotto il pretesto di avere soltanto eseguito gli ordini dei superiori».

    Keitel mantenne fino all’ultimo il suo contegno militare. Guardando giù dal palco, prima che Woods gli infilasse il cappio al collo, dichiarò a voce alta e chiara, senza tradire alcuna emozione: «Chiedo a Dio onnipotente di avere pietà per il popolo tedesco. Due milioni di soldati tedeschi sono morti per la nostra patria prima di me. Seguo ora i miei figli… tutti per la Germania».

    Mentre Ribbentrop e Keitel stavano ancora penzolando dalle loro corde, ci fu una pausa nelle esecuzioni. Un generale americano che rappresentava la Commissione alleata di controllo concesse alla trentina di persone presenti nella palestra di fumare e quasi tutti accesero subito una sigaretta.

    Un medico americano e uno russo, muniti di stetoscopi, si infilarono dietro le tende per confermare la morte dei due condannati. Quando uscirono, Woods salì di nuovo sul primo palco, impugnò un coltello che teneva allacciato al fianco e tagliò la corda. Il corpo di Ribbentrop, con la testa ancora coperta dal cappuccio nero, fu caricato su una barella e portato in un angolo della palestra delimitato da teli neri. La stessa procedura sarebbe stata seguita con tutti gli altri corpi.

    «Spegnete le sigarette, signori» ordinò un colonnello americano alla fine della pausa.

    All’1.36 fu la volta di Ernst Kaltenbrunner, il leader austriaco delle SS che dopo l’assassinio di Reinhard Heydrich era assurto al vertice dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), l’agenzia che controllava lo sterminio di massa, i campi di concentramento e tutti gli apparati di persecuzione nazista. Sotto di lui c’erano uomini come Adolf Eichmann, capo del Dipartimento degli affari ebraici del RSHA, responsabile dell’attuazione della Soluzione finale, e Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz.

    A differenza di Kaltenbrunner, che gli americani avevano rintracciato nel suo nascondiglio sulle Alpi austriache alla fine della guerra, l’ubicazione di Eichmann era ancora ignota. Höss, che era stato catturato dagli inglesi nella Germania settentrionale, testimoniò al processo di Norimberga, ma sarebbe stato impiccato più tardi da un altro boia.

    Dal palco Kaltenbrunner continuò a insistere, come aveva già fatto prima con lo psichiatra americano Gilbert, di non sapere nulla dei crimini di cui era accusato. «Ho amato il popolo tedesco e la mia terra con tutto il cuore. Ho fatto il mio dovere secondo le leggi del mio popolo e mi rincresce che questa volta il mio popolo sia stato guidato da uomini che non erano soldati e che siano stati commessi crimini di cui non ero a conoscenza»¹⁰.

    Mentre Woods si accingeva a infilargli il cappuccio nero, Kaltenbrunner aggiunse: «Buona fortuna, Germania».

    Alfred Rosenberg, uno dei primi membri del Partito nazista e dei massimi esponenti dell’ideologia razzista, fu il più rapido. Quando gli chiesero se aveva qualche ultima dichiarazione, non rispose. Benché si professasse ateo, era accompagnato da un cappellano protestante che pregò al suo fianco mentre Woods abbassava la leva.

    Dopo un’altra breve pausa fu fatto entrare Hans Frank, governatore generale della Polonia occupata. A differenza degli altri, quando era stata annunciata la sua condanna a morte aveva detto a Gilbert: «Me lo meritavo e me l’aspettavo»¹¹. Durante la prigionia si era convertito al cattolicesimo. Fu l’unico dei dieci a entrare nella palestra con il sorriso sulle labbra. Tradì il suo nervosismo deglutendo frequentemente, ma come scrisse Smith, «sembrava sollevato dalla prospettiva di espiare il male che aveva fatto».

    Le ultime parole di Frank lo confermarono: «Vi sono grato per il gentile trattamento durante la prigionia e chiedo a Dio di accogliermi con misericordia».

    Poi fu la volta di Wilhelm Frick, il ministro degli Interni di Hitler, che si limitò a dire: «Lunga vita eterna Germania».

    Alle 2.12 Smith vide l’«orrendo e nanesco» Julius Streicher, direttore del feroce giornale nazista «Der Stürmer», salire sul palco con il volto visibilmente contratto. Quando gli chiesero di identificarsi, urlò: «Heil Hitler!».

    In una rara allusione alle proprie emozioni, Smith confessò: «Quell’urlo mi fece correre un brivido lungo la schiena».

    Mentre veniva spinto sugli ultimi scalini per essere consegnato a Woods, Streicher fissò i testimoni e urlò: «Purim Fest, 1946». Il riferimento era alla festa ebraica che commemora l’esecuzione di Haman, il quale, secondo l’Antico Testamento, progettava di uccidere tutti gli ebrei dell’impero persiano.

    Quando gli fu chiesto se voleva fare un’ultima dichiarazione, Streicher urlò: «Un giorno i bolscevichi vi impiccheranno».

    Mentre Woods gli infilava il cappuccio nero, Streicher disse: «Adele, mia cara moglie».

    Ma il dramma era ben lungi dall’essersi consumato. La botola si aprì e Streicher si mise a scalciare mentre precipitava. Quando la corda si tese, cominciò a oscillare avanti e indietro e i testimoni lo udirono gemere. Woods si infilò sotto il palco e scomparve dietro la tenda nera che nascondeva il condannato morente. All’improvviso i gemiti cessarono e la corda smise di muoversi. Smith e gli altri testimoni erano convinti che Woods avesse afferrato Streicher, trascinandolo giù per strangolarlo.

    Qualcosa era andato storto, oppure non era stato un semplice incidente? Il tenente Stanley Tilles, incaricato di coordinare le impiccagioni dei criminali di guerra, sostenne in seguito che Woods aveva deliberatamente allentato il cappio di Streicher in modo che non gli avrebbe spezzato il collo, ma sarebbe stato lui a strangolarlo. «Tutti i testimoni avevano guardato Streicher e non si erano accorti del sorriso compiaciuto del boia. Woods odiava i tedeschi e il suo intento era chiaro…»¹² scrisse Smith.

    La processione degli irriducibili continuò, costellata da altri piccoli incidenti. Sauckel, l’uomo che era stato a capo del vasto impero nazista del lavoro forzato, urlò con aria di sfida: «Muoio innocente. La sentenza è sbagliata. Che Dio protegga la Germania e le restituisca la sua grandezza. Lunga vita alla Germania! Che Dio protegga la mia famiglia». Anche lui gemette rumorosamente quando sparì alla vista nella botola.

    Con il bavero del cappotto della Wehrmacht sollevato, Alfred Jodl pronunciò le sue ultime parole: «Ti saluto, mia Germania».

    L’ultimo dei dieci fu Arthur Seyss-Inquart, che aveva aperto le frontiere dell’Austria alle truppe tedesche e successivamente era stato commissario del Reich nei Paesi Bassi. Dopo essere salito zoppicando sul palco con il piede talo, anche lui, come Ribbentrop, si dichiarò un uomo di pace. «Spero che questa esecuzione sia l’ultimo atto della tragedia della seconda guerra mondiale e che la lezione di questo conflitto porterà la pace e la comprensione tra i popoli» disse. «Io credo nella Germania».

    Alle 2.45 anche lui era morto. Woods calcolò che tra la prima e l’ultima impiccagione erano trascorsi 103 minuti. «Fu un lavoro veloce»¹³ dichiarò in seguito.

    Mentre i corpi degli ultimi due condannati stavano ancora penzolando dai cappi, le guardie portarono nella palestra una barella con un altro corpo sotto una coperta dell’esercito americano da cui spuntavano due grandi piedi nudi e un braccio con un pigiama di seta nera.

    Un colonnello ordinò di togliere la coperta per sciogliere ogni dubbio sulla sua identità. Il volto di Hermann Göring era «ancora contratto dagli spasmi dell’agonia del suo ultimo gesto di sfida» scrisse Smith. «Lo ricoprirono prontamente e questo signore nazista della guerra, che come un personaggio dei Borgia si era crogiolato nel sangue e nella bellezza, passò attraverso una tenda nelle pagine nere della storia».

    In un’intervista concessa a «Stars and Stripes» dopo le impiccagioni¹⁴, Woods sostenne che le operazioni si erano svolte esattamente come aveva previsto: «Ho impiccato quei dieci nazisti a Norimberga e sono fiero di averlo fatto. È stato un buon lavoro. È andato tutto liscio. Nessuna esecuzione mi è mai riuscita meglio. Mi dispiace soltanto che quel Göring mi sia sfuggito; per lui avrei dato il meglio di me. No, non ero nervoso. Nel mio mestiere non posso permettermi di esserlo. Volevo essere io a fare quel lavoro a Norimberga. Lo volevo così tanto che sono rimasto lì un po’ più a lungo anche se sarei potuto tornare a casa prima».

    Ma le dichiarazioni di Woods furono violentemente contestate. Il resoconto di Smith non lasciava dubbi sul fatto che qualcosa era andato storto nell’esecuzione di Streicher, e probabilmente anche in quella di Sauckel. Un articolo del quotidiano londinese «The Star» sosteneva che la caduta era troppo corta, i condannati non erano legati nel modo giusto e avevano sbattuto la testa passando attraverso la botola, morendo «strangolati lentamente»¹⁵. Nelle sue memorie il generale Telford Taylor, che aveva partecipato all’istituzione del Tribunale militare internazionale contro i capi nazisti e divenne in seguito capo procuratore nei dodici processi di Norimberga, osservò che le fotografie dei corpi allineati nella palestra, alcuni dei quali avevano il volto insanguinato, sembravano confermare i sospetti.

    Questo indusse molti a pensare che Woods avesse sbagliato qualcosa. Albert Pierrepoint, il famoso boia dell’esercito inglese, non voleva criticare direttamente il collega americano, ma dichiarò ai giornali che aveva notato «segni di sciatteria… dalla caduta inalterabile di un metro e mezzo al nodo scorsoio vecchio stile»¹⁶. Nel suo resoconto del processo di Norimberga lo storico tedesco Werner Maser sostenne che l’agonia di Jodl era durata diciotto minuti e quella di Keitel «addirittura ventiquattro minuti»¹⁷.

    La sua versione non coincideva con quella di Smith, e alcune descrizioni successive delle esecuzioni possono avere esagerato deliberatamente l’accaduto. Quello che è certo è che non andò tutto liscio come sostenne Woods. Il sergente americano cercò di respingere le critiche destate dalla pubblicazione delle fotografie dicendo che a volte le vittime si mordevano la lingua ed era per questo che avevano i volti insanguinati¹⁸.

    Il dibattito sull’operato di Woods sottolinea una questione sollevata da molti condannati: perché il cappio era stato preferito al plotone di esecuzione? Woods era genuinamente convinto dei pregi della sua specialità. Obermayer, il giovane soldato che l’aveva assistito nelle prime esecuzioni, ricorda che una volta, quando il boia era «più o meno ubriaco»¹⁹, un soldato gli chiese se gli sarebbe piaciuto morire appeso a una corda o in qualche altro modo. «Quella per impiccagione è una gran bella morte. Probabilmente la sceglierei anch’io» rispose Woods.

    «Per Dio, rispondi seriamente, non c’è nulla da scherzare» intervenne un altro soldato.

    Woods non scherzava. «Sono dannatamente serio» ribadì. «È una morte pulita, indolore e tradizionale» aggiunse. «Quando diventano vecchi, è tradizione che i boia si impicchino».

    Obermayer non era convinto dei vantaggi dell’impiccagione rispetto ad altre forme di esecuzione. «È un’esperienza umiliante» dichiarò ricordando i tempi in cui aveva fatto l’assistente di Woods». Quando muori tutti gli sfinteri perdono l’elasticità e ti caghi addosso». Secondo lui era perfettamente normale che i nazisti condannati a Norimberga avessero chiesto di morire fucilati.

    Ma Obermayer era convinto che Woods fosse sincero quando sosteneva di svolgere un lavoro che richiedeva la massima efficienza e decenza. Il suo collega inglese Pierrepoint, il cui padre e zio avevano fatto lo stesso mestiere, alla fine della sua carriera fece una dichiarazione simile: «Ho agito nell’interesse dello Stato e sono convinto che fosse il metodo più umano e dignitoso per mettere fine alla vita di un delinquente» scrisse²⁰. Tra le vittime di Pierrepoint durante il suo tour in Germania ci furono anche le «Bestie di Belsen», compreso l’ex comandante di Bergen-Belsen Josef Kramer e la sadica guardiana Irma Grese, che aveva solo ventun anni quando salì al patibolo.

    A differenza di Woods, Pierrepoint visse fino a tarda età e alla fine si schierò contro la pena di morte. «La punizione capitale a mio parere non serve a nulla. È solo vendetta» concluse.

    Obermayer, che era rientrato negli Stati Uniti prima delle impiccagioni di Norimberga, rimase convinto che Woods avesse svolto tutti i suoi incarichi, incluso il più famoso, con distacco professionale. «Per lui era soltanto un altro lavoro» scrisse. «Sono sicuro che il suo approccio fosse più simile a quello dell’addetto alla macellazione in una fabbrica di carne in scatola di Kansas City che a quello del fanatico francese che ghigliottinò Maria Antonietta in Place de la Concorde».

    Ma negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto e dell’Olocausto i confini tra vendetta e giustizia erano molto labili, quali che fossero le motivazioni di chi aveva eseguito le condanne a morte.

    Quanto a Woods, le predizioni sulla sua morte si rivelarono sbagliate. Nel 1950 morì folgorato mentre stava riparando una linea elettrica nelle isole Marshall.

    Capitolo 2

    Occhio per occhio

    Se questa faccenda ebraica sarà mai vendicata, abbiate pietà per noi tedeschi¹.

    Maggiore Wilhelm Trapp, comandante del 101° battaglione riservista della polizia nella Polonia occupata

    Non era soltanto «questa faccenda ebraica» a rivendicare vendetta quando le truppe alleate varcarono i confini della Germania, anche se la maniacale e metodica attuazione della Soluzione finale contro un’intera razza era un caso senza precedenti. Ogni Paese invaso dalle armate hitleriane – i cui cittadini erano stati terrorizzati e uccisi e le città rase al suolo – aveva buoni motivi per farsi ripagare. In particolare, il trattamento riservato dai nazisti agli Untermenschen, i subumani di razza slava che furono ridotti in schiavitù e costretti ai lavori forzati, scatenò la rabbia dell’Armata rossa sovietica.

    Gli omicidi di massa ordinati da Hitler nei territori conquistati e le brutali torture inflitte ai prigionieri di guerra sovietici, la cui cattura implicava una morte quasi certa, costituivano un generoso regalo agli sforzi della propaganda staliniana per incitare all’odio contro gli invasori.

    Nell’agosto 1942 Il’ja Ehrenburg, corrispondente di guerra del giornale dell’Armata rossa «Krasnaya Zvezda», scrisse la famosa frase: «Adesso lo sappiamo. I tedeschi non sono esseri umani. Da oggi in poi, la parola tedesco sarà la più orribile delle maledizioni. Da oggi in poi la parola tedesco sarà per noi una ferita nella carne viva. Noi non abbiamo niente da discutere. Noi non proveremo alcuna emozione. Noi uccideremo. Se non ucciderete il tedesco, lui ucciderà voi […] Se avete già ucciso un tedesco, uccidetene un altro. Non c’è niente di più divertente per noi di un cumulo di cadaveri tedeschi»².

    Prima che fosse coniata l’espressione cacciatori di nazisti, c’era già chi dava la caccia ai seguaci di Hitler, o più precisamente ai tedeschi. Non c’era tempo o voglia di fare distinzioni tra i soldati e i civili e i loro leader militari e politici. Il motivo era semplice: la vittoria e la vendetta. Ma mentre le armate di Hitler incontravano una crescente resistenza e la loro sconfitta finale appariva sempre più probabile, i leader alleati cominciarono a chiedersi fino a che punto potevano spingersi con la dottrina della riparazione, quanti avrebbero dovuto pagare il prezzo finale per i crimini del loro Paese.

    Quando i ministri degli Esteri delle tre grandi potenze si incontrarono a Mosca nell’ottobre 1943, concordarono di processare insieme i maggiori criminali di guerra tedeschi, mentre gli altri, responsabili di atrocità geograficamente più circoscritte sarebbero stati «rispediti nei paesi dove avevano compiuto le loro azioni abominevoli»³. Benché la Dichiarazione di Mosca avesse gettato le basi per i futuri processi, il segretario di stato Cordell Hull considerò ogni procedimento giudiziario contro i maggiori leader politici una mera formalità. «Se fosse dipeso da me, avrei preso Hitler, Mussolini, Tojo e i loro principali complici e li avrei condotti di fronte a una corte marziale» dichiarò per la gioia dei suoi ospiti sovietici. «E all’alba del giorno dopo ci sarebbe stato un incidente storico!».

    Alla conferenza di Teheran, sei settimane più tardi, Stalin sostenne che Winston Churchill, che aveva formulato i punti chiave della Dichiarazione di Mosca, era stato troppo indulgente con i tedeschi. Come alternativa, proponeva il tipo di soluzione che aveva così liberamente adottato nel suo Paese. «Almeno cinquantamila – e forse anche centomila – ufficiali di comando tedeschi devono essere liquidati fisicamente» dichiarò⁴. «Propongo un brindisi a una giustizia più rapida possibile contro tutti i criminali di guerra tedeschi – Giustizia di fronte a un plotone di esecuzione! Bevo alla nostra decisione comune di ucciderli appena li cattureremo. Tutti!».

    Churchill espresse immediatamente il proprio sdegno. «Non parteciperò a nessun massacro a sangue freddo» disse. Proseguì distinguendo tra i criminali di guerra che «devono pagare» e quelli che avevano semplicemente combattuto per il loro Paese. Aggiunse che avrebbe preferito essere fucilato lui stesso «piuttosto che macchiare l’onore del mio Paese con una simile infamia». Il presidente Franklin D. Roosevelt cercò di allentare la tensione con una battuta. Propose ai due leader di giungere a un ragionevole compromesso sul numero di tedeschi da uccidere: «Diciamo quarantanovemila e cinquecento».

    Quando i leader delle tre potenze si ritrovarono a Jalta nel febbraio 1945, le posizioni di Churchill e Stalin sul trattamento da riservare ai criminali di guerra nazisti erano molte cambiate. Guy Liddell, capo del controspionaggio all’MI5, aveva tenuto dei diari che furono resi pubblici soltanto nel 2012. Secondo i suoi appunti⁵, Churchill appoggiò il piano proposto da alcuni dei suoi ufficiali in base al quale «certe persone dovevano essere eliminate» mentre altre potevano essere imprigionate senza ricorrere ai processi di Norimberga. Dove con «certe persone» si intendeva la leadership nazista. Riassumendo i vantaggi di questa soluzione, Liddell scrisse: «Sarebbe una proposta molto più chiara e non getterebbe discredito sulla legge».

    Come risulta dai diari di Liddell, la proposta produsse uno strano riallineamento delle tre grandi potenze. «Churchill l’aveva presentata a Jalta, ma Roosevelt ribadì che gli americani volevano un processo» scrisse pochi mesi dopo il summit. «Joe sosteneva Roosevelt per il semplice motivo che ai russi piacevano i processi pubblici a scopo di propaganda. Sembra vogliano imporci una parodia della giustizia come quella che impera da vent’anni nell’Unione Sovietica».

    In altre parole, Stalin vide nei processi richiesti da Roosevelt un’opportunità per replicare i processi spettacolo sovietici degli anni Trenta, che era esattamente quello che Churchill voleva evitare, anche a costo di autorizzare le esecuzioni sommarie dei vertici nazisti senza alcun procedimento legale. Nonostante alla fine gli americani avessero prevalso, preparando il terreno per Norimberga, i semi del dubbio su quei processi erano già stati seminati.

    Nella fase finale della guerra molti membri dell’Armata rossa diedero libero sfogo alla loro rabbia. Avevano combattuto per quasi quattro anni sul suolo sovietico, subendo ingenti perdite e assistendo alle devastazioni degli invasori tedeschi. Poi, mentre avanzavano verso Berlino, il nemico si era rifiutato di arrendersi all’inevitabile. Le truppe tedesche furono decimate: nel solo mese di gennaio 1945, quando l’Unione Sovietica lanciò la sua maggiore offensiva, più di 450.000 soldati tedeschi persero la vita⁶. Una perdita superiore a quella subita su tutti i fronti dagli Stati Uniti durante l’intera guerra.

    I leader nazisti avevano costretto i loro uomini a obbedire all’ordine di Hitler di resistere fino alla fine. Le nuove «Corti marziali volanti del Führer»⁷ giustiziavano sommariamente i soldati sospettati di diserzione o disfattismo come deterrente per i loro commilitoni. Sembrava quasi una replica dell’ordine dato da Stalin di fucilare sul campo gli ufficiali e i soldati che si rifiutavano di seguire le sue direttive durante l’offensiva tedesca. Nonostante la loro inferiorità numerica e la scarsità di munizioni, le unità tedesche inflissero pesanti perdite agli aggressori.

    Questo scatenò un’orgia di violenza, tollerata dalla leadership sovietica. Nei suoi ordini per il primo fronte bielorusso prima dell’offensiva del gennaio 1945 in Polonia e poi in Germania, il maresciallo Georgij Žukov dichiarò: «Maledetta sia la terra tedesca e i suoi assassini. Prenderemo la nostra terribile vendetta per tutto»⁸.

    Ancora prima di raggiungere il cuore della terra tedesca i soldati dell’Armata rossa erano diventati tristemente famosi per le loro violenze sulle donne in Ungheria, Romania e poi in Slesia, dove non si faceva molta distinzione tra le donne tedesche e quelle polacche, intrappolate su un confine storicamente disputato dai due Paesi. Quando l’offensiva sovietica si spinse più a fondo nel territorio tedesco, le donne furono sistematicamente stuprate in quasi tutte le città e i villaggi attraversati dall’Armata rossa. Vasilij Grossman, romanziere e corrispondente di guerra russo scrisse: «Cose orribili stanno accadendo alle donne tedesche. Un tedesco istruito sta spiegando in uno stentato russo che oggi sua moglie è già stata stuprata da dieci uomini»⁹.

    Naturalmente questi resoconti non apparivano nei dispacci ufficiali di Grossman. In alcuni casi gli ufficiali superiori frenarono le violenze e un relativo ordine fu gradualmente ristabilito pochi mesi prima della resa della Germania l’8 maggio, ma gli stupri continuarono. Si stima che circa 1,9 milioni di donne tedesche furono violentate dai soldati sovietici nell’ultimo periodo della guerra e nei mesi successivi; ci fu anche un considerevole aumento dei suicidi tra le donne che erano state stuprate, spesso ripetutamente¹⁰.

    Il 6 e 7 novembre, anniversario della rivoluzione bolscevica, Hermann Matzkowski, un comunista tedesco nominato sindaco di un distretto di Königsberg dalle nuove autorità sovietiche, notava che le forze di occupazione che si macchiavano di questi crimini venivano ufficialmente sanzionate. «Gli uomini furono picchiati, la maggior parte delle donne stuprate, compresa mia madre di settantun anni che morì prima di Natale» scrisse. Gli unici tedeschi ben nutriti in città, aggiunse, «sono le donne ingravidate dai soldati russi»¹¹.

    I russi non furono gli unici a violentare donne tedesche. Secondo un’inglese sposata con un tedesco in un villaggio della Foresta nera, le truppe franco-marocchine «arrivarono di notte e circondarono tutte le case del villaggio, stuprando ogni donna dai dodici agli ottant’anni»¹². Anche i soldati americani compirono stupri, ma furono episodi isolati che non potevano essere paragonati a quanto stava succedendo nel territorio conquistato dall’Armata rossa. E, almeno in alcuni casi, i colpevoli furono puniti. John C. Woods, il boia dell’esercito americano, giustiziò assassini e stupratori americani prima di assurgere alla celebrità a Norimberga.

    La rappresaglia consistette anche nell’espulsione di massa di tedeschi etnici dalle regioni del Reich che sarebbero state assegnate alla Polonia, alla Cecoslovacchia e all’Unione Sovietica (come Königsberg, ribattezzata Kaliningrad) in base alla nuova mappa della regione disegnata dai vincitori. Milioni di tedeschi avevano già cominciato a fuggire precipitosamente da quei territori con l’avanzata dell’Armata rossa. Alcuni, soltanto sei anni prima, avevano seguito le armate di Hitler a est, partecipando alle brutali violenze contro la popolazione locale che adesso sarebbe tornata a perseguitarli.

    Secondo l’accordo di Potsdam siglato il 1° agosto 1945 da Stalin, dal nuovo presidente americano Harry Truman e dal nuovo primo ministro britannico Clement Attlee, i trasferimenti della popolazione dopo la guerra dovevano svolgersi «in modo umano e regolato»¹³. Ma la realtà era ben diversa dalla rassicurante retorica ufficiale. Oltre a morire di fame e di freddo nella loro disperata fuga verso ovest, gli espulsi venivano spesso attaccati dai loro ex sudditi, compresi lavoratori forzati e prigionieri dei campi di concentramento che erano riusciti a sopravvivere alle marce della morte e alle esecuzioni dei loro aguzzini nazisti fino agli ultimi giorni della guerra.

    Un membro della milizia cecoslovacca ricordò il destino di una vittima. «In una città un gruppo di civili trascinò un tedesco in mezzo a un incrocio e gli diede fuoco […] Non potevo fare nulla, se avessi detto qualcosa avrebbero aggredito anche me»¹⁴. Alla fine un soldato dell’Armata rossa sparò al tedesco per finirlo. Il numero delle persone di etnia tedesca espulse dall’Europa centro-orientale nei tardi anni Quaranta è solitamente stimato intorno ai dodici milioni, e la percentuale delle vittime varia considerevolmente¹⁵. Negli anni Cinquanta il governo della Germania dell’Ovest dichiarò che i morti erano stati più di un milione; stime più recenti li riducono a 500.000. Qualunque sia il numero esatto, i vincitori dell’Est non si preoccuparono troppo del destino di quei tedeschi. Stavano onorando la promessa di «una terribile vendetta» del maresciallo Žukov.

    Il 29 aprile 1945 la 42a divisione di fanteria dell’esercito americano, nota come Rainbow Division (Divisione Arcobaleno) perché inizialmente composta da unità della Guardia nazionale di ventisei stati e Washington D.C. entrò a Dachau e liberò circa 32.000 sopravvissuti nel campo principale¹⁶. Benché tecnicamente non fosse un campo di sterminio e l’unico forno crematorio non fosse mai stato usato, il campo principale e la rete di strutture annesse avevano affamato e torturato a morte migliaia di prigionieri. Primo campo di concentramento dell’era nazista, Dachau era stato designato soprattutto per i prigionieri politici, ma negli anni della guerra la proporzione dei detenuti ebrei crebbe vertiginosamente¹⁷.

    Le truppe americane si trovarono di fronte a scene di orrore che non avrebbero mai potuto immaginare. Nel suo rapporto ufficiale, il generale Henning Linden, assistente comandante di divisione, descrisse quello che videro i suoi occhi:

    Sulla linea ferroviaria a nord del campo c’era un treno di 30-50 vagoni, per passeggeri e per merci, tutti stipati di prigionieri morti – 20-30 per vagone. C’erano corpi anche lungo i binari, Molti avevano segni di percosse o ferite da armi da fuoco ed erano tutti spaventosamente denutriti.¹⁸

    In una lettera ai genitori, il tenente William J. Cowling, aiutante di Linden, descrisse la scena in un linguaggio più vivido: «I vagoni traboccavano di cadaveri. La maggior parte nudi e tutti pelle e ossa. Gambe e braccia scheletriche con le anche sporgenti. Molti avevano fori di proiettile nella nuca. Quella vista ci fece venire la nausea e stringemmo i pugni per la rabbia. Non riuscivamo nemmeno a parlare»¹⁹.

    Linden fu accolto da un ufficiale delle SS che sventolava la bandiera bianca e da un rappresentante della Croce rossa svizzera. Mentre gli stava spiegando che erano venuti per liberare i prigionieri e prendere in consegna le guardie, gli americani udirono degli spari all’interno del campo. Linden mandò Cowling a vedere cosa succedeva. Il tenente salì su una jeep con alcuni reporter americani, superò il cancello e vide un cubo di cemento che sembrava deserto.

    «Poi all’improvviso delle persone (anche se era difficile considerarle tali) arrivarono da tutte le direzioni» continuò Cowling nella sua lettera. «Erano sporchi, denutriti con i vestiti a brandelli, urlavano e piangevano. Ci corsero incontro ci abbracciarono, baciandoci le mani e i piedi, cercando di toccarci. Poi ci afferrarono e ci lanciarono in aria urlando a pieni polmoni».

    Linden e altri americani arrivarono sulla scena e quando i prigionieri si precipitarono ad abbracciarli, alcuni di loro rimasero fulminati dal filo spinato elettrico.

    Mentre gli americani si addentravano nel campo, superando altri raccapriccianti mucchi di corpi nudi, sopravvissuti affamati e in molti casi affetti dal tifo, alcune guardie si arresero prontamente, ma altre aprirono il fuoco contro i prigionieri o cercarono di fuggire attraverso il cancello; alcuni cercarono persino di attaccare i soldati americani all’ingresso del campo. In questi casi, la rappresaglia fu immediata.

    «Le SS tentarono di spararci» riferì il tenente colonnello Walter J. Fellenz, «ma ogni volta che cercarono di farlo li freddammo. Uccidemmo tutte le diciassette SS»²⁰.

    Altri soldati testimoniarono di avere visto i prigionieri inseguire le guardie e di aver preferito non intervenire. Il caporale Robert W. Flora dichiarò che le guardie catturate erano state fortunate: «Quelle che non furono uccise o prese in consegna da noi vennero picchiate a morte dai prigionieri liberati. Vidi un ex detenuto schiacciare con i piedi la faccia di una Waffen SS. Non ne rimase molto»²¹.

    Flora disse al prigioniero furente che doveva avere molto odio dentro di sé. Lui capì e annuì.

    «Non ti biasimo» concluse Flora.

    Un altro liberatore, il tenente George A. Jackson vide un gruppo di circa duecento prigionieri circondare un soldato tedesco che aveva tentato la fuga. Il tedesco indossava uno zaino da campo e imbracciava un fucile, ma non poteva fare granché contro duecento scheletrici prigionieri che cercavano di catturarlo. «C’era un silenzio totale» osservò Jackson. «Sembrava un rituale, e in realtà lo era»²².

    Alla fine un prigioniero, che Jackson stimò non dovesse pesare più di trenta chili, lo afferrò per le falde del cappotto. Il tedesco brandì il fucile e lo colpì alla nuca. «A quel punto mi resi conto che se fossi intervenuto, come forse era mio dovere, avrei interferito con il rituale» ricordò Jackson. Il tenente volse le spalle e si allontanò. Quindici minuti più tardi «quando ritornai, gli avevano sfondato il cranio». La folla di prigionieri era scomparsa; restava soltanto il corpo a testimoniare il dramma che si era appena svolto lì fuori.

    Dopo quello che vide durante la liberazione di Dachau il tenente Cowling decise che con i tedeschi non avrebbe più rispettato le regole. «Non prenderò mai più un altro prigioniero tedesco, né armato né disarmato»²³ promise nella lettera che scrisse ai genitori due giorni dopo quella drammatica esperienza. «Come possono aspettarsi di farla franca dopo quello che hanno fatto. Non meritano di vivere».

    Mentre l’Armata rossa continuava ad avanzare, Tuvia Friedman, un giovane ebreo della città polacca di Radom, progettava non solo di fuggire dal campo dove era stato condannato ai lavori forzati, ma anche di vendicare la perdita della maggior parte della sua famiglia nell’Olocausto. «Pensavo sempre di più alla vendetta, al giorno in cui gli ebrei avrebbero ripagato i nazisti occhio per occhio»²⁴ ricordò.

    Quando ormai le truppe tedesche si stavano preparando all’evacuazione, Friedman e altri due compagni fuggirono attraverso il condotto delle fogne di una fabbrica. Strisciando nel sudiciume, emersero nel bosco dall’altra parte del filo spinato del campo. Si lavarono in un ruscello, poi ognuno prese la sua strada. «Eravamo spaventati, ma liberi» disse in seguito Friedman, ricordando l’euforia di quel momento.

    Varie unità partigiane polacche stavano già operando nell’area, combattendo contro i tedeschi e anche tra di loro. C’era in ballo il futuro della Polonia dopo la fine dell’occupazione tedesca. Il più grande e il più efficiente movimento di resistenza nell’Europa occupata fu l’Esercito nazionale polacco (AK), risolutamente anticomunista e fedele al governo polacco in esilio a Londra²⁵. L’Esercito popolare (AL), molto meno numeroso, era invece controllato dal Partito comunista e doveva aprire la strada all’annessione sovietica del Paese.

    Friedman, che usava il nome Tadek Jasinski per celare la propria identità ebraica non solo ai nazisti ma anche agli antisemiti locali, si arruolò in un’unità di partigiani comunisti comandata dal tenente Adamski. La loro missione era quella di «mettere fine alle azioni anarchiche» dell’Esercito nazionale e «stanare e arrestare i tedeschi, polacchi e ucraini che durante la guerra avevano svolto attività dannose per gli interessi della Polonia e del suo popolo».

    «Mi impegnai a fondo nel mio compito» scrisse Friedman. «A capo di un gruppo di miliziani, arrestai un nazista dopo l’altro».

    Friedman e i suoi compagni stanarono alcuni autentici criminali di guerra. Trovarono un caposquadra ucraino di nome Šronski «che aveva picchiato più ebrei di quanti riuscisse a ricordarne» e che a sua volta li aveva fatti risalire a un altro ucraino che in seguito era stato impiccato. Ma la definizione di attività dannose per gli interessi della Polonia significava spesso arrestare chiunque non vedesse di buon occhio la dominazione sovietica dopo la fine della guerra, compresi alcuni dei più coraggiosi combattenti della resistenza polacca durante l’occupazione tedesca.

    Mentre il suo esercito continuava a scontrarsi con i tedeschi in ritirata, il Cremlino arrestò a Varsavia sedici leader dell’Esercito nazionale e li fece rinchiudere nell’infame prigione della Lubjanka a Mosca. Torturati dai liberatori della Polonia, furono sottoposti a un processo farsa in giugno, poco dopo la cessazione ufficiale delle ostilità in Europa. Il loro premio per sei anni di lotta contro gli invasori nazisti fu il carcere per «attività eversive ai danni dello stato sovietico»²⁶.

    Per Friedman queste distinzioni erano irrilevanti. Aveva avuto più volte occasione di sperimentare sulla propria pelle l’antisemitismo

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