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Il Bacio
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E-book317 pagine4 ore

Il Bacio

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Info su questo ebook

Brandauer è un grigio impiegato statale nella Berlino dei giorni nostri, la sua esistenza triste e solitaria cambia improvvisamente quando, durante una visita alla tomba dei genitori, incontra Sibylle, una ragazza bellissima e inquietante. L'incontro legherà le loro vite in maniera inaspettata, trascinando Brandauer in una spirale di orrore e paura, e piazzandolo nel bel mezzo dell'eterna battaglia tra il bene e il male, nella quale i confini tra i due schieramenti risulteranno tutt'altro che definiti, ma anche dove, allo stesso tempo, lui e Sibylle troveranno ciò che hanno cercato per tutta la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2023
ISBN9791221468434
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    Anteprima del libro

    Il Bacio - Marco Tamburini

    1

    Mehmet vide i primi fiocchi di neve scendere dal cielo quando reclinò la testa per bere dalla bottiglia di vodka da quattro soldi che stava condividendo con Uwe. Il liquore di bassa qualità bruciò in gola al quattordicenne studente di Weissensee, quartiere popolare del distretto di Pankow, nella parte nord-est di Berlino, ma portò con sé anche una gradita sensazione di calore. Anche quel giorno, dopo che la debole luce grigia e sporca del pomeriggio aveva lasciato spazio alle ombre della sera, il silenzio ovattato dell’ennesima nevicata cominciava ad avvolgere nel suo candido abbraccio il cimitero municipale di Murnau, un’enorme distesa di verde pubblico nel distretto di Lichtenberg disseminata da migliaia di tombe, lapidi, sepolcri e mausolei di ogni forma e tipo. La vicinanza con il parco omonimo faceva della necropoli la più grande di tutta la città e una delle maggiori dell’intero continente. Innumerevoli sentieri e viottoli davano accesso all’area e l’assenza di recinzioni e lo scarso numero di custodi deputati a occuparsi della zona ne facevano una delle mete preferite da balordi, drogati, prostitute e da chiunque altro desiderasse appartarsi lontano da occhi indiscreti.

    I genitori di Mehmet avrebbero sicuramente disapprovato la sua presenza in quel luogo, così come disapprovavano la sua amicizia con Uwe, di due anni più grande e con un carattere ribelle forgiato dapprima nell’orfanotrofio dove era cresciuto giù al sud, in Baviera, e poi affinato da un paio di visite al carcere minorile. Da qualche anno, l’esistenza da vagabondo lo aveva portato a vivere a Marzhan, poco distante da lì, in un alloggio occupato abusivamente.

    Uwe era diventato l’eroe di Mehmet quando, nel breve periodo trascorso nella stessa scuola dell’amico (prima di essere cacciato), lo aveva difeso in una rissa. Da allora, per il quattordicenne di Weissensee, quel ragazzo bruno dallo sguardo strafottente e dall’aria da duro era divenuto il modello da seguire. Anche per mancanza di alternative, visti il padre alcolista e manesco e la madre troppo impegnata a schivare i colpi del marito e a riversare sul proprio figlio le frustrazioni di un matrimonio fallito ancor prima di iniziare. Con Uwe, Mehmet si sentiva al sicuro, autorizzato a immaginare un futuro diverso dal suo presente arido e opprimente.

    Uwe in Mehmet rivedeva se stesso qualche anno prima – un ragazzo troppo giovane per ritrovarsi già in mano un biglietto di sola andata per una vita da passare tra i tentacoli dell’infelicità – ed era convinto che, con gli stimoli giusti, anche lui avrebbe trovato la forza di ribellarsi a quel destino cinico che aveva deciso il suo futuro senza nemmeno chiedere la sua opinione.

    Uwe aveva offerto all’amico di andare a vivere con lui, nell’appartamento che occupava a Marzhan. Mehmet stava seriamente considerando di accettare la proposta e aveva già iniziato a compilare una lista mentale delle cose da portare con sé, oltre ai suoi sogni, per iniziare la sua nuova vita.

    «Ehi, te la vuoi bere tutta tu?» fece Uwe a Mehmet, accennando alla bottiglia di vodka. «Guarda che poi diventi un ubriacone come tuo padre.»

    «Col cazzo! Non sarò mai come lui. E comunque l’abbiamo appena iniziata, ce n’è abbastanza per tutti e due. Tieni, bevi.»

    Uwe ingollò una generosa razione di vodka, poi si accese una sigaretta mezza storta che estrasse da un pacchetto spiegazzato di Chesterfield, quindi lo porse all’altro.

    «No, grazie. Non mi va.»

    «Hai di nuovo paura che i tuoi sentano l’odore di tabacco quando torni a casa? Piantala con queste bambinate e vieni a stare da me. Lì potrai fumare tutte le sigarette che vorrai, ubriacarti quando ti pare e guardare la televisione fino a tardi.»

    «Ci sto lavorando, lo sai. Tra poco prendo e li pianto in asso, mi ci vuole solo un po’ di tempo per organizzarmi.»

    «Datti una mossa, allora. C’è un tizio che ci può procurare qualche lavoretto per tirare su un po’ di grana. Niente di impegnativo, ma abbastanza per divertirci. Te l’ho già detto che al piano di sopra c’è una che fa le marchette? Se ti avvicini alla sua porta e stai in silenzio, la senti mentre scopa. Quando avremo abbastanza denaro ci faremo un giro da lei. »

    «Sul serio? Cioè, credi che non si farà problemi per via dell’età e roba del genere?»

    «Scherzi? Quella se la paghi si fa scopare anche da un neonato!» Uwe emise una risata roca e si toccò la patta dei pantaloni, mimando un amplesso.

    «Non vedo l’ora...»

    «Continui a dire così, ma sei sempre a casa dei tuoi. Quanto cazzo ti ci vuole ad andartene via da lì?»

    «Non è così semplice, mi devo organizzare. Ma ti giuro che lo faccio.»

    «Sei sicuro di non essere troppo piccolo per una cosa del genere? Non sei troppo attaccato alla mammina?» Uwe pronunziò l’ultima frase con voce volutamente stridula ed effeminata.

    «Non mi prendere in giro, non sono una femminuccia.»

    «Mi chiamo Mehmet e mi manca tanto la mia mammina! Oddio, oddio!» lo derise Uwe.

    «Che cazzo, ti ho detto di smetterla.»

    «Ok, ok, stai tranquillo... Però deciditi, intesi?»

    Mehmet prese la bottiglia e, forse per fare dispetto a Uwe, diede una sorsata ancora più lunga della prima, aspettandosi il richiamo dell’altro. Il richiamo però non arrivò, perché l’attenzione di Uwe era concentrata su qualcosa alle spalle di Mehmet.

    E qualunque cosa fosse, l’espressione sul volto del sedicenne, con la bocca spalancata e gli occhi fissi, indicava sicuramente qualcosa di insolito, come lo stesso Mehmet ebbe modo di constatare quando si voltò.

    La ragazza non doveva avere più di diciotto o diciannove anni, ed era bellissima. I lunghi capelli biondi le scendevano fin oltre le spalle, il viso delicato e perfetto aveva un non so che di aristocratico e persino nella semioscurità serale l’azzurro cristallino dei suoi occhi brillava distintamente.

    Un incontro del genere in un luogo isolato e pericoloso come il cimitero di Murnau dopo il tramonto era già di per sé un evento sorprendente — Mehmet ricordava di aver sentito di alcuni delitti avvenuti proprio da quelle parti negli ultimi giorni, ma non ci aveva fatto caso, perché sapeva che insieme a Uwe nessuno gli avrebbe fatto del male —, ma era l’abbigliamento della ragazzina a lasciare interdetti i due amici. La temperatura era decisamente sotto lo zero e le abbondanti nevicate di quei giorni avevano ricoperto ogni cosa con una profonda coltre bianca e ghiacciata. Lei indossava solo una specie di camicia da notte, sudicia e malconcia, e camminava in mezzo alla neve a piedi nudi. Nonostante ciò, la nuova arrivata non dava alcun segno di patire il gelo e sorrideva mentre andava incontro ai due.

    «Questa è fuori di testa, dev’essere il nostro giorno fortunato» fece Uwe a Mehmet, prima di rivolgersi alla ragazza. «Ehi, tesoro, che ci fai da queste parti tutta sola? Ti serve qualcosa?»

    «Sì!» replicò lei «Ho bisogno del vostro aiuto.»

    «Capiti a proposito, bellezza» ribatté ancora Uwe, portando di nuovo la mano all’altezza dell’inguine e afferrandosi le parti intime. «Io e il mio amico, qua, non vediamo l’ora di aiutarti. Come ti chiami?»

    «Sibylle» rispose lei, sorridente.

    «Che nome del cavolo! Ma non ti preoccupare, mi piaci lo stesso. E vedrai che io ti piacerò ancora di più.»

    La ragazza arrivò davanti a Uwe e, continuando e sorridere, gli mise le mani sulle guance, accarezzandolo dolcemente, poi le abbassò fino a cingergli il collo. Mehmet assistette alla scena, mandò giù un altro sorso di liquore, immaginando che forse anche lei avrebbe gradito un po’ di vodka per riscaldarsi, e iniziò a pensare a una scusa da usare nel caso fosse arrivato a casa tardi per cena.

    Lo schiocco secco e improvviso lacerò il silenzio come una frustata. Mehmet si chiese che cosa potesse averlo prodotto. Quando vide il corpo ormai senza vita di Uwe abbattersi silenziosamente a terra, capì che lei gli aveva spezzato il collo di netto. E ora si dirigeva decisa verso di lui.

    La ragazza non aveva smesso di sorridere, ma la bellezza di quel viso angelico era solo un ricordo. L’azzurro degli occhi aveva lasciato il posto a un giallo maligno e dal labbro superiore spuntava una fila di lunghi denti, aguzzi e minacciosi.

    Mehmet era paralizzato dal terrore. Non si accorse nemmeno che la bottiglia di vodka gli era scivolata di mano, cadendo a terra, e che un fiotto caldo di urina aveva iniziato a bagnargli i pantaloni. Voleva scappare da lì, fuggire. Tornare a casa e scusarsi per essere arrivato di nuovo in ritardo per la cena. Voleva sentire il palmo ruvido della mano di suo padre che lo colpiva al volto per punirlo e la familiare cantilena di rimproveri di sua madre che sarebbe seguita.

    L’ultima cosa che Mehmet sentì, invece, furono le labbra ghiacciate di Sibylle sul collo, prima che lei gli squarciasse la carne e bevesse fino all’ultima goccia del suo sangue.

    La neve aveva preso a cadere fitta sul cimitero di Murnau e le orme leggere di piccoli piedi femminili presto sarebbero state cancellate per sempre, come se la creatura che aveva appena ucciso a sangue freddo Mehmet e Uwe non fosse stata altro che un’apparizione incorporea fatta di odio e paura.

    2

    Tra un colpo di tosse e l’altro, Brandauer, aspirando avidamente dalla Morley appena accesa, si disse per la milionesima volta che avrebbe dovuto smettere di fumare, ben conscio del fatto che la poca convinzione che accompagnava tale proposito sarebbe prontamente svanita la prossima volta che la voglia di accendere una sigaretta avesse fatto sentire la sua fastidiosa presenza.

    Comunque, in fin dei conti, fumare era l’unico vero vizio che egli avesse mai avuto e qualcuno aveva sicuramente detto che l’uomo deve avere almeno un vizio, anche se Brandauer non ricordava chi fosse stato. A meno che abitudini quali l’essere un perdente e un mediocre non fossero catalogabili come vizi, nel qual caso, Brandauer sarebbe stato il re della perdizione.

    Ma forse, un vizio vero e proprio, per quanto insalubre, è qualcosa che si sceglie di avere, e l’impiegato dell’Anagrafe Centrale di Berlino non aveva certo deciso di trascorrere i suoi trentasei anni di vita dalla parte sbagliata nell’eterno confronto tra vincitori e vinti.

    Perché Brandauer, con l’approssimarsi della mezza età, di una cosa poteva essere sicuro al di là di qualsiasi ragionevole dubbio: la sua vita era stata un susseguirsi infinito di sonore e rovinose sconfitte. Era così fin dai tempi delle elementari, quando tutti i suoi compagni non facevano altro che tormentare quel bambino gracile, basso e sgraziato che si abbandonava a sonori piagnistei con la stessa facilità con la quale finiva dolorosamente a gambe all’aria durante ogni tipo di attività fisica. Brandauer era sempre stato l’ultimo degli ultimi, il compagno di banco che nessuno voleva, l’adolescente che persino le più repellenti esponenti del gentil sesso non degnavano del benché minimo sguardo, il collega che nessuno invitava a bere una birra o a mangiare una pizza. Per poi ritrovarsi in un batter d’occhio adulto, dolorosamente solo e perennemente amareggiato.

    Anche i genitori non avevano certo sprecato sentimenti come amore, affetto o comprensione nei confronti di quell’unico figlio che il destino sembrava aver loro inflitto come una punizione piuttosto che una benedizione. Brandauer sospettava che la scelta di non avere altri figli fosse derivata dal terrore che i due avevano di mettere al mondo un altro come lui. Persino la loro prematura dipartita – causata da complicazioni cardiache per la madre e da polmonite per il padre, entrambi prima che il ragazzo compisse i trent’anni e a distanza di un paio di mesi l’una dall’altro – sembrava suggerire la voglia di togliersi di dosso quell’imbarazzante incombenza rappresentata dal doversi prendere cura di lui.

    All’epoca della morte della madre, Brandauer aveva da poco trovato lavoro presso l’Ufficio Centrale dell’Anagrafe, assicurandosi uno stipendio fisso che gli garantisse l’autosufficienza. Il padre, prima di raggiungere la consorte all’altro mondo, aveva fatto in tempo a lasciargli in eredità il piccolo appartamento dove avevano sempre abitato, che conservava nelle sue tre anguste stanze l’eco miserabile dell’infelicità che aveva accompagnato la vita del ragazzo. Brandauer si era ritrovato così ancora più solo al mondo di quanto non fosse già stato fino ad allora.

    La sala fumatori del quarto piano dell’Ufficio Anagrafe era un incrocio tra uno sgabuzzino in disuso e la camera a gas di un penitenziario americano. I pochi occupanti aspiravano dalle sigarette in maniera frettolosa, dando sfogo ai pensieri muti che invadevano le loro menti alla stessa velocità con la quale spargevano nicotina nel loro organismo. La signorina Gitte Haller, una delle addette alle pubbliche relazioni, con i suoi ventotto anni e le sue forme provocanti, fece il proprio ingresso nella sala dedicata ai tabagisti, attirando l’attenzione dei presenti. Brandauer accennò un saluto con il capo, apprestandosi a offrire l’accendino Bic alla ragazza; lei passò oltre senza degnarlo del benché minimo sguardo e andò a piazzarsi vicino a Bert Schneider, l’aitante vicedirettore delle Risorse Umane, che aveva già estratto dalla tasca interna del completo Armani uno scintillante Zippo, pronto ad accendere la sottile sigaretta al mentolo della Haller.

    Non che Brandauer sperasse di attaccare bottone con una come Gitte Haller, ma non era legittimo aspettarsi almeno una risposta all’educato saluto? Anche un frettoloso cenno con il capo, uno sguardo di sfuggita, un qualsiasi segno da parte di lei che riconoscesse la sua mera presenza in una stanza dalle dimensioni di poco superiori a un ripostiglio. Era forse invisibile? Brandauer ricordava di aver letto il libro di H.G. Wells, dove un uomo di nome Griffin inventava e sperimentava su di sé il siero dell’invisibilità, e rammentava i disagi e le disavventure alle quali andava incontro l’incauto scienziato, fino a perdere il senno e a trovare la morte.

    Anche in quel caso, le azioni dell’Uomo Invisibile del racconto non venivano assolutamente ignorate, ma provocavano reazioni tra le persone coinvolte. Brandauer non sembrava nemmeno in grado di far notare la propria esistenza. Più che invisibile, dunque, quello doveva essere ciò che si provava a essere un fantasma, un’ombra intangibile e irreale.

    Ormai, dopo tutti quegli anni, l’impiegato dell’Anagrafe avrebbe dovuto essere abituato a questo tipo di sensazioni, ma il dolore – si sa – in qualche modo riesce sempre a far sentire la propria odiosa presenza e, per quanto ci avesse fatto il callo, neppure Brandauer sfuggiva a questa impietosa consuetudine. Specialmente con l’approssimarsi della data che odiava di più nell’intero calendario: l’anniversario della morte della madre. Ogni anno, in quel giorno, ubbidendo a un riflesso condizionato che sentiva di dover assecondare – anche se avrebbe preferito finire sotto un treno –, Brandauer si recava sulla tomba dei genitori per una breve visita.

    Come ogni volta, avrebbe indossato il completo grigio scuro che riservava solo ed esclusivamente a quella giornata, avrebbe chiesto e ottenuto un’ora di permesso per uscire prima dal lavoro, avrebbe preso la linea U5 della U-Bahn, la metropolitana cittadina, sarebbe sceso alla fermata di Friedrichsfelde poco prima del tramonto e si sarebbe incamminato mesto verso il cimitero di Murnau.

    3

    Schmidt era stufo. Stufo di doversi prendere i rimproveri dei superiori per le stupidaggini che i suoi operai continuavano a fare ogni volta che affidava loro un compito appena più complesso del solito. Manco fosse stato lui a selezionarli e ad assumerli uno per uno. Lui era soltanto un comune caposquadra e gli operai erano stati scelti e assunti proprio da quelle teste d’uovo che sedevano comode nei loro uffici riscaldati, senza avere la più pallida idea di cosa significasse coordinare una dozzina di squadre diverse, dovendo fare continuamente attenzione a ogni minimo dettaglio perché i deficienti reclutati non erano capaci di fare un bel niente.

    Nonostante ciò, quando si presentava un problema o un errore di chi era la colpa? Sua, naturalmente.

    Ma come poteva Schmidt essere in più posti allo stesso tempo? Non aveva il dono dell’ubiquità, né la palla di cristallo per prevedere il futuro. Non aveva modo di sapere in anticipo chi o che cosa avrebbe causato un contrattempo.

    Per esempio, lui come avrebbe potuto prevedere che i due idioti a cui aveva affidato il compito di aprire un passaggio attraverso i ruderi del magazzino abbandonato nel settore C25 della mappa dei lavori, nella zona di Murnau, avrebbero trascritto male il numero, per poi ritrovarsi nel settore sbagliato, il C26?

    Come se non bastasse, la coppia di operai aveva persino danneggiato un sito storico protetto nientemeno che dal Ministero delle Belle Arti, scambiandolo per il vecchio magazzino.

    Meno male che Schmidt se n’era accorto, anche se ormai erano già passati quasi una decina di giorni; così, una volta sfogata la propria ira sui due malcapitati, aveva ordinato loro di rimettere a posto alla bell’e meglio la vegetazione rimossa, così da provare perlomeno a nascondere il danno procurato all’antico edificio. Schmidt si fece coraggio con il pensiero che, per fortuna, la costruzione, risalente a qualche secolo prima, era già di per sé in cattivo stato e probabilmente nessuno avrebbe fatto caso alla breccia aperta nella parete dalla piccola scavatrice.

    Utilizzando una torcia, il caposquadra stava dando un’occhiata attraverso l’apertura. Si intravedeva una specie di corridoio che portava chissà dove. Le grandi macchie di muffa sulle pareti dovevano essere la ragione del tanfo di marcio che aveva assalito le narici di Schmidt e dei due operai appena si erano avvicinati alla spaccatura, larga abbastanza per consentire il passaggio di una persona. A nessuno dei tre passò però per la mente di esplorare quell’antro fetido, dove l’aria stantia agitava appena i grumi di ragnatele che pendevano dal soffitto, illuminati dal raggio di luce della torcia di Schmidt, e che sembravano la biancheria polverosa di una famiglia di spettri, stesa ad asciugare tra le tenebre.

    «Potremmo rimetterla a posto con un po’ di cemento a presa rapida» considerò il più basso dei due operai, un ragazzo sulla ventina, magro, con l’accento di Amburgo e un’eruzione cutanea sulla guancia destra. «Non ci vorrà molto.»

    «Sicuro. Poi lo spieghi tu a quelli delle Belle Arti che cazzo ci fa una riparazione col cemento a presa rapida sulla parete di un rudere di trecento anni?» ribatté Schmidt in malo modo, azzittendo il ragazzo.

    «Si sa almeno che cos’era in origine?» chiese il secondo operaio, un berlinese di nome Andreas, biondo e barbuto, che era stato assunto da poco, dopo che la fabbrica di calcestruzzo dove aveva lavorato per i precedenti sedici anni aveva trasferito armi e bagagli alle Filippine, riducendo impietosamente costi di produzione e personale in un colpo solo.

    «Non so, credo che risalga al periodo in cui hanno iniziato a seppellire i morti in questa zona, che all’epoca non faceva ancora parte dell’area metropolitana di Berlino ed era governata dalla famiglia che ha dato il nome al cimitero e all’intero parco.»

    «Però non sembrano i resti di un palazzo nobiliare, ma di una specie di cripta...»

    «Ti dirò cosa sembrano a me: un’altra rottura di coglioni che, per causa vostra, rischia di farmi beccare una bella lavata di testa dai capi. Quindi adesso ci togliamo di qui e voi due vi scordate anche solo di esserci stati, intesi?»

    L’ultima perentoria replica di Schmidt chiuse la discussione e i tre si allontanarono dalla cripta, non prima che Andreas facesse in tempo a notare una scritta incisa sulla parete che lui e l’altro operaio avevano aperto per errore: Amor servabit te.

    4

    Anno Domini 1764

    Quell’anno pareva che l’autunno fosse giunto all’improvviso. Anziché iniziare per gradi a spargere le sue pennellate dorate sul verde estivo e rigoglioso dei campi e dei boschi che circondavano il castello di Murnau e l’omonimo villaggio – che si irradiava attorno alla fortezza come un insieme di raggi disordinati con un Sole di pietra al centro –, la stagione che precedeva l’arrivo del rigido inverno prussiano si era manifestata repentinamente: le foglie morte che ricoprivano i terreni parevano essere cadute tutte insieme dalla sera al mattino, i rami spogli degli alberi ricordavano scheletri appena scarnificati dal rapido passaggio di un enorme branco di famelici avvoltoi e i fili d’erba ingiallita assomigliavano a sottili dita di cadaveri che tentavano invano di tornare in superficie per sfuggire al regno dei morti.

    Anche la temperatura dell’aria era cambiata bruscamente e la brezza fresca che rallegrava l’afa estiva si era trasformata istantaneamente in un alito gelido e penetrante che riduceva il calore del Sole, celato ormai da una coltre grigia e inclemente, a un pallido ricordo.

    Nel petto della duchessina Sibylle Cristyna von Sachsen-Murnau, una fredda stretta di ghiaccio aveva rimpiazzato il calore provato fino al giorno prima attorno al cuore.

    Quella appena trascorsa era stata l’estate più bella della sua giovane vita. Mai, nei suoi diciotto anni di esistenza, aveva assaporato il dolce frutto dell’amore come nei mesi appena passati: sensazioni sconosciute e inebrianti le avevano percorso l’esile corpo in lungo e in largo, nella mente aveva sentito una leggerezza degna di una farfalla svolazzante tra i campi in fiore, un brivido gravido di felicità la possedeva ogni volta che apriva gli occhi al mattino. Il centro di quell’universo che aveva travolto Sibylle come il più piacevole degli uragani aveva il volto del suo amato Goteleib, il soldato della guardia personale addetta alla sicurezza dei membri della famiglia von Sachsen-Murnau. Goteleib era stato assegnato al dettaglio della duchessina la scorsa primavera, forte dei suoi vent’anni e del suo stato di servizio impeccabile tra i militari a disposizione del duca Adalberht Rainard, padre di Sibylle e governatore di quella zona rurale del paese.

    Il giovane soldato aveva fatto girare la testa a Sibylle fin dal primo momento in cui la ragazza aveva posato lo sguardo su quegli occhi neri e penetranti. Da allora, lei non aveva fatto altro che sognare di accarezzare i lunghi capelli castani del soldato, di farsi cingere dalle sue braccia possenti e di regalarsi anima e corpo a lui per passare insieme il resto degli anni che il Signore misericordioso aveva in mente di concedere loro.

    Sibylle aveva rivissuto innumerevoli volte dentro di sé la notte nella quale i suoi sogni erano divenuti realtà, quando Goteleib l’aveva baciata. Ricordava benissimo il misto di trepidazione e paura che entrambi avevano provato, rammentava alla perfezione il tentennamento del quale erano stati preda – frutto del timore che i genitori di lei li scoprissero – e di come il fuoco della loro passione aveva incenerito ogni dubbio quando lei si era gettata tra le sue braccia, promettendogli un sogno d’amore dal quale niente e nessuno avrebbe mai avuto il potere di risvegliarli.

    Da allora, niente era stato più come prima e i mesi estivi erano arsi di un calore sconosciuto ai cuori dei due giovani amanti.

    Essi sapevano benissimo che il duca non avrebbe mai concesso la mano della sua unica figlia a un plebeo come Goteleib, ma Sibylle era pronta a rinunciare ai suoi privilegi, alla sua ricchezza e persino al titolo. Nulla di ciò era lontanamente comparabile alla felicità che provava in compagnia del suo amato soldato: tutto l’oro e i denari del mondo erano ciarpame inutile, i titoli nobiliari parole vuote e senza senso, il castello nel quale era nata e aveva sempre vissuto un guscio morto e vetusto.

    Sibylle sognava una piccola fattoria, sperduta da qualche parte sulle colline, dove lei e Goteleib avrebbero vissuto lontano dagli obblighi di corte, dai giochi di potere e dallo sguardo freddo e severo di suo padre. Un mucchio di

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