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Il regolo incantatore
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E-book120 pagine1 ora

Il regolo incantatore

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Info su questo ebook

Qui si narra la leggenda del Regolo, un immenso serpente, quindici metri di lunghezza, una tonnellata di peso, un millennio e oltre di vita, avvistato in Umbria durante la Seconda guerra mondiale. La leggenda è strettamente legata alla vita di Adelmo, un partigiano della Quarta Brigata Garibaldi operante in Umbria, tra Valtopina e la valle del Chienti. Il romanzo trae spunto dal suo diario e dalle inspiegabili morti e sparizioni di individui in fuga dal mondo. Sarà Dario Morganti, venditore ambulante di libri e di stampe antiche ai mercatini dell’antiquariato, a svelare il mistero. Il Regolo, «piccolo re», a quanto narra la leggenda, è in grado d’incantare le persone e di far rinsavire i pazzi, operando una sorta di separazione tra il corpo e la mente. Un simile rettile è presente da secoli nella tradizione popolare cinese.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2021
ISBN9788892966277
Il regolo incantatore

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    Anteprima del libro

    Il regolo incantatore - Rolando Zucchini

    I

    Il diario di Adelmo

    Il volto apparve riflesso più volte dagli specchi nel negozio del barbiere. Era il volto scarno e patito di un uomo basso e smilzo, con la barba incolta nera pezzata qua e là da qualche chiazza bianca. I capelli erano color castano scuro, crespi voluminosi unti. Indossava un pesante giaccone di felpa di cotone verde con il bavero rialzato e la chiusura lampo aperta fino al petto, sotto teneva una camicia di fustagno a quadri. Avrà avuto pressappoco cinquant’anni e l’aspetto dignitoso di colui che svolgeva un lavoro duro faticoso onesto. Dava l’idea di un contadino che vendeva in proprio ortaggi e frutta nella piazza del mercato trasportandoli su un carretto trascinato a mano. Un colono in qualche azienda agricola di allevamento di mucche o di maiali. Un operaio metallurgico in una fabbrica in una zona industriale sperduta nelle campagne attorno alla città. Un manovale in una ditta artigianale di vasi in terracotta, ceramiche, piastrelle decorate per i bagni. Di certo era uno abituato a faticare sodo, senza ambizioni né illusioni né capricci in testa.

    Quel giorno, pur essendo la mattinata fredda, Dario Morganti scelse di scendere in città con lo scooter Geo. Da una settimana rinviava l’incombenza, ma era giunto il tempo di occuparsene prima che gli uffici chiudessero per le vacanze natalizie. Doveva pagare bollette, passare in banca, comprare un paio di regali, fare rifornimento di viveri e bevande. Con il motorino poteva spostarsi in fretta e non avrebbe avuto problemi di parcheggio, pensò. Lassù, nella casa dei suoi avi, alle falde del monte Cologna, in cima al paese di Scandolaro, nella quale abitava dal mese di maggio dell’anno in corso 1994, c’era un pallido sole che brillava in un cielo bigio con qualche nube nivea fissa sparsa, mentre la valle umbra sud era sommersa da una nebbia compatta, bassa e densa. Indossò il giubbotto di shearling abbottonato stretto, la sciarpa e lo zuccotto. Si rinsaccò il casco e andò. Lungo la discesa che si snoda tra le piantagioni di ulivi entrò nella nebbia. L’umidità e il freddo gli ferirono le ossa. Arrivato a Sant’Eraclio bevve un caffè al bar del Castello e si recò all’ufficio postale. Lì c’era una lunga fila agli sportelli e le tre addette avevano un gran daffare per smaltirla. Erano giovani, belle, eleganti, con il viso truccato, le mani curate, le unghie laccate. Portavano collane al collo, bracciali ai polsi, anelli alle dita affusolate. Si davano arie di gran dame sedute dietro alle loro postazioni d’impiegate. Intanto che maneggiavano al computer, parlavano tra loro raccontandosi d’inviti per le feste che stavano arrivando, di viaggi, d’incontri, di sorprese, delle scelte impegnative dei regali. Alcuni borbottavano irritati da quel modo giocondo, irriguardoso, di svolgere il lavoro. Tutti se ne stavano in piedi in attesa con le bollette in mano, e loro discutevano di balli, di cenoni, di amici da incontrare, vestiti d’acquistare. Dario si godeva il caldo, osservando le facce variegate di persone sconosciute, accalcate, strette, ognuna con i suoi pensieri, le sue storie. Arrivò il suo turno. Andò davanti all’impiegata e le porse le bollette da pagare; mentre le infilava nella macchinetta per la registrazione e la stampigliatura, le disse: «Non è facile fare regali al giorno d’oggi. Si rischia che non siano graditi».

    «È vero sa!» gli rispose. «Io non so cosa regalare a una persona cara.»

    In uno scaffale sopra al banco c’erano posati vari libri di autori più o meno conosciuti. Per grossezza s’imponeva il volume di un famoso conduttore televisivo, che, ogni anno prima di Natale, sfornava un testo di attualità politica. La sua faccia sorridente era in bella vista sulla copertina. Il titolo recitava: Il duello: chi vincerà nello scontro finale? Un libro stampato in centinaia di migliaia di copie, che in tanti acquistavano ma in pochi leggevano. Lo prese in mano e glielo mostrò.

    «Regali questo. L’ho visto pubblicizzato in televisione. È sempre un bel pensiero per Natale.»

    «Per carità» gli rispose d’istinto, alzando le mani in un gesto spontaneo. «L’anno scorso ne avrà letto dieci pagine soltanto. L’ha buttato nel contenitore della nettezza urbana per la raccolta differenziata della carta.»

    Dario ripose quel librone che non serviva a niente. Pagò le bollette e la salutò facendole gli auguri.

    Uscì dall’ufficio postale. Salì sul Geo e con cautela guidò nella fitta nebbia. Arrivato a Foligno raggiunse piazza San Domenico. Infreddolito, la faccia gelata, le mani intirizzite nonostante i guanti di lana. Parcheggiò lo scooter sul marciapiede dell’aiuola al centro della piazza, sotto agli alti pini storti che si alzavano spettrali verso il cielo. Mise il casco nel bauletto e s’avviò per recarsi al negozio del barbiere. Da anni si affidava ai suoi servizi per radersi la barba e i capelli che crescevano sulla nuca, ai bordi delle orecchie e i pochi peli che spuntavano sul cranio. S’era abituato alla calvizie, si piaceva, ci stava bene, in pace con se stesso. Dopo tanti tentativi di contrastarla con lozioni reclamizzate come miracolose per bloccare la caduta e favorire la ricrescita, si arrese. Non ne poteva più di spendere soldi per acquistare prodotti che non davano i risultati promessi. Non ne poteva più di sottoporsi a frizioni giornaliere sul cuoio capelluto. Così andò dal parrucchiere e gli ordinò di raderlo completamente a zero. Finito l’intervento si guardò allo specchio, e si vide avvenente con il cranio lucido sul quale si riflettevano le luci del negozio. Gli parve di avere una bella testa, modellata, proporzionata, e si sentiva ripulito, fresco. Anziché avvertire complessi d’inferiorità, gli sembrò di aver acquistato un certo fascino, un certo non so che di misterioso, d’imperscrutabile e nascosto. Uscì dalla bottega del barbiere e passeggiò per le vie della città a rendersi conto dell’effetto che faceva senza alcun capello in testa. Ebbe l’impressione che nessuno lo guardasse in malo modo, nessuno che ridesse. Anzi, avvertiva la sensazione di essere osservato con considerazione, con un celato senso di rispetto. Si convinse definitivamente di aver fatto la scelta giusta a radersi del tutto. Così un paio di volte al mese andava dal solito barbiere a ripulirsi il viso e il cranio.

    L’uomo stava ritto dietro alla poltroncina girevole. Guardava la mia faccia riflessa sullo specchio. Sembrava affascinato dal mio aspetto. Mi scrutava ondeggiando il busto, toccandosi la fronte con le dita della mano destra. Non riuscivo a capire perché mai mi contemplasse, cosa avessi di tanto interessante per essere fissato intensamente. Liberai una mano da sotto il panno che mi copriva il petto, e gli feci un cenno, come a dire: «Che vuoi?… Che guardi?».

    Lui, sorpreso dalla mia reazione, si scostò, e, dalla vetrata dell’ingresso della parrucchiera, si mise a osservare le auto che scorrevano nella via che collega largo Frezzi a piazza San Domenico. Ma dopo poco tornò, e domandò: «Sei Dario Morganti?».

    «Sì. Perché?… Mi conosci?» risposi un po’ seccato.

    «Non personalmente. Mi hanno riferito che sei tornato a vivere nella casa dei tuoi nonni. Io sono Vittorio, il figlio di Emma, la sorella di Adelmo. Lo ricordi? Abitava su in paese. Mia madre lo trovò morto…»

    La morte di Adelmo sollevò un grande scalpore. Nessuno si aspettava che accadesse un tale evento. Il suo cadavere fu rinvenuto in camera disteso sul letto da sua sorella Emma. Lei andava da lui una volta alla settimana, a fare pulizie, a lavare i panni sporchi, a stirare camicie e pantaloni, a preparare il ragù per condire la pasta. Arrivava in paese con il bus della mattina e tornava in città prima di pranzo. Adelmo era un uomo di statura media, magro, con la faccia scarnita, i capelli bruni lisci lunghi, un po’ impedito nei movimenti a causa di un’operazione a un ginocchio risalente a quand’era ragazzino. Abitava in una casa ai margini del paese, più avanti di circa venti metri dall’incrocio della strada sterrata che sale a Roviglieto, in un vicolo stretto, cieco, che sbuca in una chiusa. Viveva facendo lavori saltuari d’imbianchino, e, nei mesi estivi, l’operaio durante la campagna dello zuccherificio giù a Foligno. Aveva frequentato la scuola elementare fino in quinta e sapeva leggere e scrivere. Più di una volta alla settimana scendeva a piedi a Sant’Eraclio a fare spese e a comprare l’Unità. Per tanti anni era stato segretario della sezione del Partito. Quando discuteva di politica si esprimeva con arguti

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