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Miti Nordici: Dèi e tradizioni dell'Europa Settentrinale
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E-book553 pagine7 ore

Miti Nordici: Dèi e tradizioni dell'Europa Settentrinale

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Il volume fornisce una prospettiva esaustiva sui temi principali della tradizione mitica delle popolazioni norrene. L’obiettivo che Marco Maculotti e gli altri autori si sono posti, infatti, è quello di offrire una panoramica complessa sulla religione nordica originaria, proponendo dove possibile parallelismi in un’ottica comparativa con la più vasta tradizione sacra indoeuropea. Sono analizzati il corpus mitico, la cosmogonia e l’ordinamento cosmico, i reami ultraterreni, il tema della sapienza occulta e il Ragnarök, ovvero il “Crepuscolo degli dèi”. Di pari passo è approfondito il pantheon nordico, dalle divinità celesti (Óðinn, Þórr, Baldr, Heimdallr, Loki) alle potenze garanti della fertilità e della fecondità (Freyr, Freyja, Njorðr-Nerthus), senza dimenticare le eterogenee entità sovrannaturali conosciute dalla tradizione norrena, dagli spiriti custodi alle Norne intimamente connesse alla tematica del destino, passando per i giganti. In appendice, infine, sono affrontate questioni particolari del mito e della tradizione nordica, anche in ottica archeologica.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita8 mag 2023
ISBN9788836163007
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    Anteprima del libro

    Miti Nordici - Marco Maculotti

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    MITI NORDICI

    Dèi e tradizioni dell’Europa settentrionale

    a cura di Marco Maculotti

    Introduzione

    di Marco Maculotti

    Nell’alveo delle tradizioni indoeuropee, quella norrena si presenta senza ombra di dubbio come la più difficile da ricostruire ed esporre. La ragione è strettamente connessa alla mancanza di fonti scritte riguardanti il periodo arcaico, che invece sono copiose per quanto riguarda l’ambito mediterraneo greco-romano, quello indiano-vedico e quello iranico-persiano.

    Da questo punto di vista, il parallelismo più consono si può trovare in relazione alla religione celtica, che d’altronde nei secoli precedenti la nostra era ebbe diversi contatti con quella norrena: così come le tradizioni celtiche furono inglobate nella letteratura medievale irlandese in seguito all’avvento del cristianesimo, analogamente quelle nordiche ci sono giunte principalmente grazie ai testi scritti in Islanda dopo l’anno Mille, che segna l’arrivo dei predicatori cristiani e l’acquisizione della lingua latina nel Settentrione, e anzi più precisamente a partire dal XII secolo.

    Così, si può affermare che come l’Irlanda fu depositaria della tradizione celtica, allo stesso modo l’Islanda lo fu di quella norrena; e ciò significa che tali tradizioni sopravvissero più a lungo nei luoghi periferici del rispettivo ecumene geografico. Gli islandesi cominciarono a mettere per iscritto sia le proprie tradizioni che quelle degli altri popoli scandinavi a partire dalla prima metà del XII secolo: senza il loro apporto la nostra conoscenza attuale della religione e della mitologia nordica sarebbe alquanto frammentaria, e un’opera come quella che ci accingiamo a presentare in questa sede sarebbe stata pressoché impossibile da realizzare.

    Già Jacob Grimm e altri studiosi della sua epoca sono rimasti colpiti se non addirittura sconcertati da alcune somiglianze e parallelismi tra i miti del mondo indoeuropeo dell’India e quelli della tradizione nordica europea. La prossimità delle credenze e delle pratiche religiose ha portato molti a ritenere che queste non potessero essere puramente fortuite, ipotizzando dunque un originario sostrato indoeuropeo comune a entrambe, come tenteremo di mettere in luce via via in questa nostra opera.

    Profilo storico-antropologico della Scandinavia

    Analogamente a quanto si può affermare per le tradizioni greco-romana e indo-iranica, anche la tradizione sacra nordica si può ricostruire tenendo conto delle diverse epoche e dei vari tipi di religiosità che l’hanno caratterizzata.

    Una prima fase, anteriore al 3000 a.C., dovette essere contraddistinta dalla caccia e dall’adorazione delle forze della natura. Con tutta probabilità risalgono a questa epoca antichissima le tradizioni religiose ascrivibili al culto degli antenati, e quindi alle dísir e agli álfar, di cui si dirà ampiamente in uno dei capitoli del libro. Possiamo ipotizzare che, dal punto di vista etnico, le popolazioni risiedenti al tempo nella penisola scandinava e nei suoi dintorni baltici fossero gli antenati dei Finni/Sami attuali, la cui visione sacra del mondo è inquadrabile in termini sciamanici e animistici.

    Non può sorprenderci allora il fatto che credenze e pratiche sacrali analoghe si trovino diffuse, fin dalla più remota antichità conosciuta, nell’intero arco geografico sub-artico, dall’America all’estremo Oriente, passando ovviamente per l’Europa. È significativo nondimeno che la pratica magica detta Seiðr, la quale presenta innegabili parallelismi con lo sciamanesimo ugro-finnico, venga miticamente associata agli dèi Vani, che come diremo a breve sono usualmente menzionati in relazione alla seconda epoca culturale della storia antica scandinava.

    Luoghi di culto di questa prima fase furono boschi sacri, radure, alture, fonti, cascate, boschetti e cumuli di pietra, designati in antico nordico col termine hörgr, connessi alla sepoltura degli antenati e al recinto di pietra in cui si svolgeva l’assemblea tribale. Erano reputate sacre anche rocce e pietre dalle forme particolari o abnormi, nelle quali si riteneva dimorassero gli spiriti della natura e degli antenati clanici.

    Una seconda fase ebbe inizio intorno all’anno 3000 prima della nostra era, allorché si verificò la graduale introduzione dell’agricoltura, probabilmente in seguito alle invasioni di nuove genti provenienti da Oriente. Fu allora che gli dèi della caccia dovettero lasciare posto agli dèi del suolo, i Vani, divinità della fertilità e dell’abbondanza, che assicuravano la fecondità dei terreni e delle donne delle tribù, nonché la ricchezza dei nuovi clan che si vennero a formare onda migratoria dopo onda migratoria.

    Le tombe megalitiche che appaiono a partire dal III millennio a.C. implicano probabilmente importanti cambiamenti nella visione della vita ultraterrena, sebbene non si possa escludere che la cultura dei nuovi invasori e quella delle popolazioni già ubicate sul territorio si fosse fusa e intersecata in nuove forme, come d’altronde sappiamo essere avvenuto anche in area celtico-gaelica, nell’Europa continentale e nelle isole britanniche.

    Analogamente a quest’ultima, anche nell’area scandinava interi nuclei familiari iniziarono a essere sepolti insieme, generazione dopo generazione. Alcuni studiosi ascrivono questa seconda fase a una sorta di matriarcato, tuttavia con tutta probabilità una forma di quest’ultimo è più facilmente ascrivibile alla prima epoca, quella precedente al 3000 a.C., e questa seconda fase si caratterizzerebbe come un graduale passaggio a forme sociali diverse che in una certa misura anticipano quelle della terza fase.

    Per quanto riguarda il profilo etnico dei nuovi arrivati in questa seconda fase, infatti, sembra ormai certo che si dovette trattare già di popoli indoeuropei, o quantomeno proto-indoeuropei. Nonostante i dubbi che molti hanno avanzato, appare ormai certo che un popolo indoeuropeo invase la Scandinavia già in tempi preistorici. A riguardo, si rimanda all’esauriente contributo di Alessandro Bonfanti incentrato sulla dicotomia Asi-Vani e sul probabile inquadramento etnico-genetico dei rispettivi adepti.

    L’adorazione degli Asi, divinità celesti e cosmiche, si fa risalire alla terza epoca dell’antichità nordica, che ebbe inizio a partire dal II millennio prima della nostra era. Fu allora che si verificarono le prime invasioni da Sud-Est del cosiddetto popolo dell’ascia di battaglia, chiamato così in virtù della sua caratteristica arma, destinata a rivoluzionare la civiltà della Scandinavia e i rapporti di forza tra le diverse tribù, vecchie e nuove. Assistiamo ancora una volta ad alcuni cambiamenti nelle usanze funerarie, con l’introduzione di tombe megalitiche singole, destinate ad accogliere un solo defunto, il cui spirito avrebbe potuto essere invocato in loco con le dovute pratiche magiche.

    A ogni modo gli invasori, di ceppo indubbiamente indoeuropeo, si fusero con le popolazioni già ubicate nella penisola scandinava dando vita a una cultura unificata sotto tutti i punti di vista. Da qui probabilmente – quantomeno da una prospettiva almeno parzialmente storicista, senza per questo cadere nell’errore dell’evemerismo – derivano in parte i miti della guerra sacra tra le due fazioni divine di Asi e Vani, i primi venerati dagli invasori, i secondi dalle popolazioni già residenti precedentemente in Scandinavia.

    La regione nordica non conobbe in seguito nessuna ulteriore invasione di rilievo storico e conseguentemente si può supporre che da allora ci sia stata una certa continuità culturale, benché i viaggi di esplorazione per mare e i commerci aprissero la strada in una determinata misura a influenze straniere, soprattutto celtiche. Con queste influenze giungiamo alla cosiddetta età del Bronzo che, in tale area geografica, copre il periodo che va grossomodo dal 1500 al 500 prima della nostra era.

    L’uso del ferro ebbe inizio solo nel V secolo a.C. e segnò per i popoli scandinavi l’inizio di un periodo di povertà causato anche con tutta probabilità dal cambiamento climatico; alcune regioni arrivarono a spopolarsi quasi del tutto e i siti sacri e funerari vennero abbandonati all’incuria. Si ritiene che una delle cause del declino delle popolazioni nordiche fu l’assunzione completa del controllo delle vie di commercio dell’Europa centrale da parte dei Celti, che così facendo isolarono la Scandinavia dalle principali rotte commerciali e dai più ricchi mercati del Mediterraneo e dell’Eurasia. Un riassestamento economico si ebbe solo, con una certa fatica, intorno all’ultimo secolo prima della nostra era.

    Dopo l’epoca delle grandi conquiste talassiche vichinghe, durata dalla fine dell’VIII secolo alla metà del XI, si assiste a una cristianizzazione della Scandinavia che inizia con l’arrivo dei clerici dalla terraferma e giunge infine alla conversione dei clan tribali attraverso quella dei rispettivi sovrani. A riguardo, commenta Giorgio Dolfini nel suo saggio introduttivo all’edizione italiana Adelphi dell’Edda in prosa di Snorri:

    Quando si afferma che il cristianesimo nel Nord fu imposto dai sovrani o accolto per contrastata decisione politica, si ribadisce implicitamente […] che il dio cristiano fu inizialmente recepito nelle coordinate di una chiara concezione politeista. Già nel tardo paganesimo nordico s’era sviluppata una forma di rapporto preferenziale fra l’individuo e il dio ch’egli riteneva il proprio protettore e difensore eletto: il cosiddetto rapporto di fulltrúi (il canoteismo […]), di cui abbiamo eloquenti testimonianze. Così Thórólfr Mostrarskeggr considerava il dio Thórr come il proprio amico fidato, e lo scaldo Thórrhall poteva esclamare rivolto ai cristiani: Il dio dalla barba rossa non si è forse dimostrato più fidato del vostro Cristo?, ritenendo di aver ottenuto con un suo inno al dio il mezzo per salvare la comunità dalla carestia, proprio da Thórr, il dio che mi protegge e combatte per me. In questo sistema di culti individuali e, si potrebbe dire, di patti personali fra l’individuo e il dio […] si inserisce indubbiamente il primo vero e autentico rapporto individuale con il dio cristiano, concepito negli stessi termini di concorrenza nel riguardo degli altri dèi, non perciò affatto negati, ma solo subordinati. Significativo a questo proposito anche il fenomeno della convergenza, ancora nel mondo pagano, fra pratiche magiche e nuova fede cristiana.¹

    Così, come hanno dimostrato innumerevoli studiosi, la nuova fede non poté mai sostituirsi in toto a quella arcaica, sostenuta da una letteratura di indiscusso valore e da una tradizione autoctona condivisa. Come detto, soprattutto nell’animo del singolo restò viva la venerazione agli antichi dèi. Le cronache islandesi dimostrano come più di un convertito al cristianesimo, in seguito all’inserimento nella società islandese, ritornò alla fede pagana dei padri, e lo stesso fecero il più delle volte i discendenti. Così, la nuova religione, «introdotta più spesso per opportunità politica che per reale convinzione, avrebbe dovuto convivere a lungo con pratiche e credenze pagane assai radicate, al punto che si può affermare che l’onda lunga del paganesimo nordico si protrasse addirittura oltre la Riforma protestante», secondo il parere autorevole della professoressa Gianna Chiesa Isnardi².

    Snorri Sturluson e l’Edda in prosa

    Questa idiosincrasia tra l’antica fede pagana e la nuova cristiana, ancora fortissima durante il periodo medievale in cui sono state trascritte la maggior parte delle fonti mitiche norrene, è palese anche nell’opera di Snorri Sturluson, che degli autori nordici si presenta indubbiamente come il più letto e studiato ancora oggi. Di educazione e cultura anche cristiana, egli appare – come rileva Dolfini³ – «certamente prigioniero delle aporie del pensiero religioso sincretistico e certamente vive nella propria coscienza di uomo di studio e d’azione il dubbio e l’irresolutezza di una fede divisa fra le suggestioni e le sollecitazioni» delle due tradizioni. Sua è la cosiddetta Edda in prosa, redatta intorno al 1220 in Islanda, anche chiamata Edda minore, Edda breve o Edda recente per distinguerla dall’Edda poetica.

    Essa è composta di tre parti alle quali si aggiunge all’inizio un prologo di carattere evemeristico e fortemente influenzato dalla tradizione veterotestamentaria e classica, ragion per cui si distanzia nettamente dal resto dell’opera – al punto che molti studiosi ritengono che l’autore non sia nemmeno Snorri – quasi che il redattore, chiunque egli fosse, abbia tentato di rileggere l’intera tradizione mitica nordica alla luce delle più recenti e razionalistiche teorie evemeristiche, prendendo a piene mani dalla tradizione giudaica (Adamo ed Eva, il diluvio universale che conduce la stirpe dei giganti all’estinzione quasi definitiva, eccetera) e da quella greco-romana (gli dèi Asi visti come eroi mitici giunti in Scandinavia dalla Troia omerica, in seguito alla conclusione della guerra tra Achei e Troiani). Proprio per la sua provenienza spuria non terremo particolarmente conto di questa parte dell’opera di Snorri, se non brevemente nel capitolo a cura di Alessandro Bonfanti su Asi e Vani, per metterne in rilievo gli aspetti critici se considerati nell’alveo delle altre fonti nordiche, di carattere assai più tradizionale e rapportabile al vasto ambito indoeuropeo.

    Al prologo intitolato Fyrirsögn ok Formáli (che significa per l’appunto Intestazione e prologo) seguono le tre parti dell’opera maggiormente fedeli alla mitologia pagana, che Snorri deve aver attinto da una lunga tradizione letteraria a lui precedente e sicuramente diffusa, prima che in Islanda, anche e soprattutto nella penisola scandinava.

    La prima parte, intitolata Gylfaginning (L’Inganno di Gylfi), è la più nota e la più utile ai fini del nostro lavoro di ricostruzione dell’antica tradizione mitica precristiana dell’Europa settentrionale, che in questa sede ci prefiggiamo. Si tratta di un dialogo mediante cui vengono narrate le fasi della cosmogonia nordica e descritti i principali dèi del pantheon nelle loro caratteristiche peculiari e nelle rispettive avventure contro giganti e altre entità del caos.

    La seconda parte, che ha nome Skáldskaparmál (Dialogo sull’arte poetica), è la più lunga e in essa Snorri passa in rassegna le kenningar (perifrasi o metafore; singolare kenning) con cui gli scaldi erano soliti riferirsi alle diverse divinità.

    La terza parte, nominata Háttatal (Trattato di metrica) consente a Snorri di esaminare i diversi tipi di strofa e i ritmi dell’arte scaldica.

    L’Edda di Snorri ci è stata tramandata in sette manoscritti scritti indicativamente tra il XIV e il XVII secolo, quattro dei quali ci sono giunti in forma più o meno integrale: essi sono il Codex Regius (risalente al 1325, conservato nella biblioteca dell’Istituto Árni Magnússon di Reykjavík in Islanda), il Codex Wormianus (redatto verso la metà del XIV secolo, conservato nella biblioteca della Collezione arnamagnæana a Copenaghen in Danimarca), il Codex Trajectinus (composto in Islanda all’incirca nel 1600, conservato nella biblioteca di Utrecht nei Paesi Bassi) e il Codex Uppsaliensis (redatto nel 1300, conservato nella biblioteca dell’Università di Uppsala in Svezia).

    Snorri fu anche l’autore della Ynglingasaga (Saga degli Ynglinga) la quale, sebbene in misura minore e soprattutto da una prospettiva diversa rispetto al prologo dell’Edda in prosa, tradisce nuovamente un’interpretazione evemeristica. Sulla paternità di quest’opera, a differenza del summenzionato prologo, non sussistono dubbi. È stato fatto a ogni modo notare come l’evemerismo dell’Ynglingasaga non vada letto appaiato a quello molto più netto e completamente avulso dalla tradizione precristiana del Nord Europa del suddetto prologo, in quanto «sì, gli dèi sono visti come eroi mitici, non già tuttavia per fondare storicamente e limitare o addirittura degradare la loro divinità successiva, bensì per divinizzare la genealogia delle famiglie reali e regnanti», un’operazione dunque «del tutto opposta a quella evemeristica»⁴. Di ciò avremo modo di parlare nel capitolo a cura dello scrivente dedicato agli dèi Vani, e segnatamente nel sotto-capitolo incentrato su Freyr.

    L’Edda poetica

    Considerata più antica dell’Edda in prosa nonché, a differenza dell’opera di Snorri, immune da influenze giudaico-cristiane, classiche ed evemeristiche, l’Edda poetica (Eddukvæði) – nota anche come Edda in poesia, Edda maggiore, Edda antica o Canzoniere eddico – si presenta come una raccolta di poemi in antico norreno, estrapolati dal già menzionato manoscritto medioevale islandese Codex Regius, redatto nel XIII secolo.

    Questo manoscritto fu scoperto nel 1643 da Brynjólfur Sveinsson, vescovo di Skálholt, insediamento ubicato nella parte sud-occidentale dell’Islanda. Brynjólfur ritenne di aver rinvenuto la raccolta che doveva aver fornito a Sturluson le innumerevoli citazioni esemplificative della sua opera, e conseguentemente decise di chiamare la raccolta Edda. Il vescovo attribuì il manoscritto al noto prelato conosciuto col nome di Sæmundr Sigfússon (1056-1133), conosciuto dalla tradizione insulare come un grande sapiente, e ordinò di redigerlo in una copia su cui incise personalmente l’enfatica epigrafe Edda Sæmundi Multiscii. Brynjólfur lo donò infine al re danese – da cui il titolo di Codex Regius in seguito assegnato al manoscritto – e venne conservato per secoli presso la Biblioteca reale di Copenaghen, per essere restituito all’Islanda solo nel 1971.

    Il manoscritto si compone di ventinove canti dedicati alle figure divine del pantheon norreno e agli eroi, redatti su un totale di quarantacinque fogli; il testo presenta tuttavia una consistente lacuna di sedici pagine dopo le prime trentadue, dunque dovette originariamente essere formato da sessantuno fogli. I ventinove canti, di diversa epoca e provenienza all’interno del mondo nordico altomedievale, si possono dividere in due categorie distinte: i primi dieci, di tematica mitico-sapienziale, sono incentrati sulle imprese degli dèi, mentre i restanti diciannove sono dedicati a quelle degli eroi, principalmente sulle gesta degli eroi dei Völsunghi, tra cui spiccano Helgi e Sigurðr (fa eccezione solo il primo canto eroico, il Carme di Völundr).

    I titoli dei dieci canti di argomento divino e sapienziale sono: la Völuspá (Profezia della veggente), citata a più riprese anche da Snorri nel suo Gylfaginning, un dialogo tra Óðinn e la völva del titolo in cui, quest’ultima, racconta al primo la cosmogenesi e la futura fine apocalittica del cosmo; l’Hávamál (Discorso dall’alto), in cui viene descritta l’autoimmolazione iniziatica di Óðinn sull’Yggdrasill e la sua scoperta delle rune e dei canti magici; il Vafþrúðnismál (Discorso di Vafþrúðnir), un poema gnomico-sapienzale in cui, mediante la disputa di sapienza tra Óðinn e l’omonimo gigante, viene ricapitolata la sapienza delle origini della tradizione nordica; il Grímnismál (Discorso di Grímnir), un altro poema gnomico ma sotto forma di un monologo con cui Óðinn, occultato sotto il nome di Grímnir, rivela a re Geirrøðr i misteri del mondo divino; lo Skírnismál (Discorso di Skírnir), un poema in forma dialogica incentrato sull’innamoramento del dio Freyr nei confronti della gigantessa Gerðr e sul periglioso viaggio del suo servitore Skírnir; l’Hárbarðzljóð (Canto magico di Hárbarðr), che vede protagonisti Þórr e Óðinn sotto le mentite spoglie dell’omonimo traghettatore; l’Hymiskviða (Carme di Hymir), che narra le avventure di Þórr in coppia col gigante omonimo; la Lokasenna (Invettiva di Loki) in cui Loki, durante un banchetto organizzato dal dio Ægir, accusa tutti gli altri dèi di pratiche sessuali disdicevoli e di comportamenti disonorevoli; il Þrymskviða (Carme di Þrymr), che narra il furto del poderoso martello Mjöllnir da parte del gigante Þrymr e il suo recupero ad opera di Þórr e Loki; l’Alvíssmál (Discorso di Alvís), una conversazione mitico-sapienziale tra Þórr e il nano omonimo; infine, il Völundarkviða (Carme di Völundr), incentrato sulla rivalità tra il fabbro Völundr e il malvagio sovrano Níðuðr.

    Altri otto canti di tema mitico-sapienziale e di diversa provenienza sono talvolta aggiunti all’opera col titolo collettano di Edda minore, titolo problematico in quanto si sovrappone a una delle denominazioni dell’Edda in prosa di Snorri. Questi canti sono: i Baldrs draumar (Sogni di Baldr), in cui il dio omonimo ha sogni preveggenti sul suo sventurato destino; il Rígsþula (Catalogo di Rígr); l’Hyndluljóð (Canto magico di Hyndla), in cui si trova interpolata la Völuspá in skamma (Piccola profezia della veggente); lo Svipdagsmál (discorso di Svipdag), a sua volta composto dal Gróagaldr (Incantesimo di Gróa) e dal Fjölsvinnsmál (Discorso di Fjölsviðr); il Gróttasöngr (Canto del mulino Grótti), che citeremo ampiamente nel capitolo dello scrivente dedicato alle Norne e alle gigantesse; il Darraðarljóð (Canto magico dello stendardo); l’Hrafnagaldur Óðins (Incantesimo dei corvi di Odino); per finire, l’Hlöðskviða (carme di Hlöðr), che tuttavia si distingue dai precedenti essendo a tema storico, incentrato sulla battaglia che vide opposti i Goti e gli Unni.

    I miti nordici

    L’opera che presentiamo al lettore, sebbene costituita da contributi di diversi autori, è articolata secondo una struttura pensata per analizzare nel dettaglio le divinità più importanti del pantheon e i principali temi della tradizione nordica, allo scopo di fornire al lettore un panorama il più possibile completo della visione del mondo sacrale degli antichi norreni.

    Nonostante le fonti che ci sono giunte e che utilizzeremo per il nostro fine risalgano, come detto, ai primi secoli dell’era cristiana, la prospettiva adottata nei vari capitoli – sia dallo scrivente che dagli altri autori – mira a ricostruire, per quanto possibile, l’originaria tradizione arcaica dei popoli germanico-scandinavi, tenendo conto della complessità e della stratificazione cultuale, nonché dei temi mitici e dei simboli ricorrenti in tutta l’area europea estremo-settentrionale.

    Mossi da questo obiettivo, abbiamo cercato di mettere in risalto l’appartenenza della tradizione mitico-religiosa nordica nel più vasto alveo di quella indoeuropea, non mancando di segnalare e sottolineare, laddove necessario, i parallelismi e le corrispondenze con le altre tradizioni appartenenti al suddetto macrogruppo, in particolar modo quella greco-romana, quella celtica e quella induista.

    L’opera si apre con l’unico contributo di Fabrizio Bandini – fondatore della casa editrice Mitgard, per la quale ha pubblicato i saggi brevi Saghe del tempo antico (2019), Tre saggi sulla tradizione nordica (2021) – che mira a dare una visione d’insieme relativamente alla cosmogonia norrena e al mito di antropogenesi, soffermandosi sull’Albero cosmico Yggdrasill, sulla venuta ad esistenza dei Nove Mondi e sul mito del sacrificio primordiale del macrantropo Ymir.

    Subito dopo questo capitolo introduttivo entriamo immediatamente nel cuore del pantheon nordico con la sezione più corposa dell’opera, dedicata all’analisi delle più importanti divinità venerate dagli antichi norreni.

    Al capitolo generale sulla distinzione di Asi e Vani a cura di Alessandro Bonfanti ne seguono due sulla figura di Óðinn: il primo, firmato da Andrea Anselmo, incentrato sulle caratteristiche terrifiche e su quelle guerresche, dunque sulla cosiddetta seconda funzione duméziliana; il secondo, firmato dal sottoscritto, incentrato sul rapporto del dio con la Sapienza sacra, e quindi con le rune, i canti magici e l’idromele, oltre che con il gigante primordiale Mímir e con la fonte sacra di cui egli è custode – in altre parole, su Óðinn come dio della prima funzione.

    Seguono i capitoli dedicati agli altri Asi primari: quello su Þórr redatto dal Bonfanti, quelli su Heimdallr, Baldr e Loki ad opera dello scrivente.

    A mia firma è anche la sezione successiva, interamente incentrata agli dèi Vani e alla terza funzione, suddivisa in sottocapitoli dedicati alla coppia Njorðr-Nerthus, a Freyr e a Freyja, con un focus conclusivo su due casi esemplari di ieros gamos tra Vani e gigantesse (Skaði e Gerðr).

    Successivamente, nella quarta sezione dell’opera, è ancora il sottoscritto a indagare le diverse categorie di entità sovrannaturali non ascrivibili al pantheon divino vero e proprio, dedicando un capitolo agli spiriti custodi dei clan e dei luoghi naturali (disír, fylgjur, álfar, landvaettir e dvergar) e uno a quelli connessi al destino (norne, gigantesse, valchirie ed einherjar), in cui si tratterà anche del mito sul Mulino Grötti. Ad essi si aggiunge il breve contributo del Bonfanti sugli Jotnar, ovvero i giganti, soprattutto considerati nel loro rapporto avversativo con Þórr.

    La quinta sezione dell’opera, anch’essa largamente a cura dello scrivente, è dedicata al Ragnarök, cioè al Crepuscolo degli dèi e alla tematica escatologica – comune all’intero alveo tradizionale indoeuropeo – del ciclo cosmico, con un particolare focus sulla legatura di Fenrir e degli altri figli di Loki, sulla dea Hel e l’omonimo regno di cui essa governa e sul gigante primordiale Surtr, che detiene un ruolo assolutamente centrale nell’Apocalisse norrena. A chiudere questa macrosezione si aggiungono i contributi di Anselmo e Bonfanti, rispettivamente incentrati sul ruolo nel Ragnarök di Óðinn e Þórr.

    Sebbene la suddetta sezione sia pensata come conclusiva nell’economia dell’opera che in questa sede presentiamo al lettore, l’indice non è ancora completo. In appendice, infatti, a chiusura dell’opera abbiamo aggiunto altri saggi e articoli di approfondimento pensati per indagare alcuni temi centrali nel quadro mitico-simbolico nordico.

    I primi due, a firma di Anselmo, vertono rispettivamente sul furor odinico e sui miti concernenti la schiera selvaggia e le männerbūnde germaniche il primo, e sulla pratiche dei sacrifici umani e animali il secondo.

    Segue un vasto studio di Alberto Brandi sul cavallo solare, che si riallaccia ai precedenti due indagandone il legame simbolico con la schiera degli einherjar odinici e fornendo informazioni sulla pratica tipicamente indoeuropea del sacrificio equino; quindi, un altro breve contributo di Alessandro Bonfanti dedicato al Mjöllnir di Þórr e alla spiritualità indoeuropea e segnatamente alla loro storia archeologica in tutta l’area europea estremo-settentrionale.

    Prima di augurare al lettore una buona lettura, un ultimo appunto: vista la complessità dell’opera che in questa sede viene presentata non si devono considerare esaustivi i singoli capitoli su determinate divinità o tematiche.

    Per esempio, sebbene la figura di Óðinn venga sviscerata nei due articoli principali nella seconda sezione dell’opera, ovviamente il lettore ne troverà altre menzioni in svariati capitoli, come quello sulla cosmogonia e l’antropogenesi, quello sul Ragnarök e diversi appendici. La figura di Þórr verrà indagata, oltre che nel capitolo principale a essa dedicata, anche in tutti gli altri a cura del Bonfanti; quella di Freyr, oltre che nel capitolo apposito nella sezione sui Vani, anche in quello incentrato sul fato e sul mito del Mulino cosmico; quella di Loki, anche nel capitolo su Baldr e nella sezione dedicata al Ragnarök; e via dicendo.

    Egualmente l’indagine sui giganti, come abbiamo già accennato, non si limiterà al contributo della quarta sezione a essi dedicata, ma si estenderà ad altre parti dell’opera (Mímir nella seconda, Skaði e Gerðr nella terza, Surtr nella quinta); parimenti, l’esposizione dei diversi mondi ultraterreni sarà trattata in diversi capitoli dell’opera. Segnatamente, il regno di Hel nel capitolo sul Ragnarök; la Valhalla soprattutto nel sottocapitolo dedicato alle valchirie e agli einherjar all’interno della quarta sezione, ma anche nella quinta e, ovviamente, nei contributi dedicati alla figura di Óðinn; di Gimlé e degli altri mondi che sopravviveranno al Crepuscolo degli dèi si parlerà, com’è naturale che sia, alla conclusione della quinta sezione.

    Per quanto riguarda i Mondi conosciuti dall’antica tradizione nordica come sede di entità sovrannaturali e primordiali, si consultino i capitoli incentrati sulle rispettive entità – per esempio Jǫtunheimr → Jǫtnar; Muspelheimr → Surtr; Mímisbrunnr → Mímir; Urdharbrunnr → Norne (+Cosmogonia); Álfheimr → Spiriti custodi: Àlfar (+Freyr); Svartálfaheimr → Spiriti custodi: Dvergar (+Loki); e così via.

    Analogamente, delle divinità secondarie del pantheon norreno alle quali non avrebbe avuto senso dedicare uno studio specifico – avendo impostato i capitoli di questa raccolta collettanea, nella maggior parte dei casi, alla stregua di saggi tematici volti a sviscerare, oltre che le caratteristiche peculiari delle varie divinità, anche alcuni specifici pattern mitici e mitologemi ricorrenti che emergono dai miti che le riguardano – il lettore troverà menzione qua e là nel corso dell’opera: per esempio, a Bragi si accennerà nel capitolo su Óðinn e la Sapienza sacra; a Iðunn e Sif in quello dedicato a Loki; con riguardo a Týr, verranno proposti dei confronti con le altre divinità uraniche più note nel capitolo su Óðinn a cura di Anselmo e in quelli del Bonfanti sulla distinzione tra Asi e Vani e sul dio Þórr; e via discorrendo.

    Rimandi ai vari capitoli e sottocapitoli, in ogni caso, verranno segnalati nelle note laddove necessario, allo scopo di fornire al lettore una prospettiva dell’opera volta a sottolineare l’interconnessione tra le diverse sezioni che la compongono e tra i vari autori che vi hanno contributo; nonché, conseguentemente, allo scopo di favorire una fruizione il più possibile fruttuosa e agile, pur tenendo conto della notevole complessità dei temi che ci siamo prefissi di indagare.

    Fatte le dovute presentazioni e specificazioni, non ci rimane altro, a questo punto, che augurare al lettore una proficua immersione nella visione del mondo mitico-religiosa degli antichi nordici.

    La tradizione nordica

    Cosmogonia e antropogenesi

    di Fabrizio Bandini

    Le fonti principali che ci narrano la cosmogonia nordica sono alcuni poemi della Ljóða Edda, fra cui la Völuspá, il celebre poema sapienziale, e alcuni capitoli della Snorra Edda.

    Snorri così racconta⁵:

    Gangleri disse: «Come fu il principio? Che cosa avvenne e cosa c’era prima?»

    Hár rispose: «Così come è detto nella Völuspá:

    Al principio era il tempo,

    quando nulla esisteva.

    Non c’era sabbia né mare

    né gelide onde.

    Non c’era terra

    né cielo in alto:

    un vuoto si spalancava

    ma nulla cresceva».

    Allora disse Jafnhár: «Erano quei tempi antichi, prima che la terra venisse foggiata, quando venne fatto il Niflheimr, al cui centro stava la sorgente chiamata Hvergelmir; da là sgorgavano i fiumi che così si chiamano: Svǫl, Gunnþrá, Fjǫrm, Fimbulþul, Slíðr e Hríð, Sylgr e Ylgr, Víð, Leiptr e Gjǫll, che è il più prossimo ai cancelli di Hel».

    Allora disse Þriði: «Ma prima di ogni cosa vi fu quel mondo, a sud, chiamato Múspell. È luminoso e caldo, questo paese che arde e divampa, impervio agli stranieri e a coloro che non vi sono nati».

    Questo passo descrive la situazione dell’universo ancora in uno stato caotico, non formato.

    In quel tempo primordiale esisteva solo il Ginnungagap, ovvero l’abisso spalancato. Come scrive Mario Polia: «Ginnunga significa spalancato, immenso, forse genitivo singolare da ginnungi. È l’abisso primordiale, il Ginnungagap. È il caos primordiale: ginnunga può riconnettersi a gína, spalancare la bocca, sbadigliare e, quindi al greco cháinein, stare aperto (da cui chaos⁶.

    Gianna Chiesa Isnardi lo descrive così: «L’abisso rappresenta nel mondo nordico la realtà precedente alla creazione e nella quale l’esistente è contenuto in uno stato informe e potenziale: il baratro primordiale è detto Ginnungagap, forse spazio cosmico colmo di forze magiche» ⁷.

    Il Ginnungagap è quindi l’abisso primordiale da cui sorgeranno successivamente tutti i mondi e gli esseri del cosmo formato. Esso è un vero e proprio topos di numerose cosmogonie indoeuropee, che caratterizza la sapienza arcaica. Basti ricordare la Teogonia di Esiodo, che mette come principio primo proprio il Caos.

    Seguendo il racconto di Snorri, dal Ginnungagap scaturiscono per primi due mondi contrapposti: il Niflheimr, a Nord, il mondo del freddo, il Múspell, a Sud, il mondo del caldo.

    Sono due polarità opposte ma complementari dell’universo.

    Snorri così prosegue il racconto della cosmogonia⁸:

    Gangleri disse: «Che cosa avvenne prima che si formassero le varie stirpi e che il genere umano prosperasse?»

    Allora parlò Hár: «Accadde che quei fiumi che sono chiamati Élivágar arrivarono così lontano dalla loro sorgente che la schiuma velenosa da loro recata s’indurì come la scoria che scappa dal fuoco, divenendo ghiaccio. E là dove quel ghiaccio si arrestò e non andò oltre, i vapori levatisi dal veleno gelarono in brina, e la brina si stese sopra ogni altra cosa nel Ginnungagap».

    Allora disse Jafnhár: «Ginnungagap, nella parte che volge verso il nord, si ricoprì di strati di ghiaccio e di brina, e da esso si levavano bruma e vento, mentre la parte a sud del Ginnungagap ne fu preservata dalla lava e dalle scintille che scaturivano da Múspellsheimr».

    Allora disse Þriði: «Così come il freddo proveniva da Niflheimr insieme a tutto ciò che è temibile, quanto si volgeva verso Múspell era caldo e luminoso e Ginnungagap era mite come aria priva di vento. Quando la brina fu investita dal vento caldo, si sciolse e gocciolò, e in quelle gocce, grazie alla forza di colui che aveva mandato il calore, nacque la vita ed essa assunse forma d’uomo. Costui fu detto Ymir, ma i hrímþursar lo chiamano Aurgelmir ed è da lui che discende la loro stirpe di giganti, come dice la Völuspá inni skǫmmu:

    Le veggenti tutte

    da Viðolfr,

    i maghi tutti

    da Vilmeiðr,

    gli stregoni

    da Svarthǫfði,

    gli jǫtnar tutti

    da Ymir discendono».

    E qui dice così il gigante Vafþrúðnir:

    Da dove Aurgelmir venne

    tra i figli degli jǫtnar

    per primo, il sapiente gigante?

    Dagli Élivágar

    scaturì in gocce il veleno

    e crebbe finché nacque un gigante.

    Da là le nostre stirpi

    vennero tutte insieme,

    per cui sempre feroci saranno».

    Dall’unione della brina proveniente da Nord con il vento caldo proveniente da Sud, si forma quindi il primo essere: il gigante Ymir. La terza stanza della Völuspá fotografa la situazione dell’universo in questo preciso momento⁹:

    Al principio era il tempo:

    Ymir vi dimorava;

    non c’era sabbia né mare

    né gelide onde;

    terra non si distingueva

    né cielo in alto:

    il baratro era spalancato

    e in nessun luogo erba.

    All’abisso primordiale si è aggiunta la figura del gigante Ymir. Fra le varie interpretazioni del suo nome segnaliamo quella legata al termine ymja, che significa gridare, e quella riferita a ymr, mormorio, lo sgocciolare del ghiaccio primordiale¹⁰.

    Da Ymir discenderà quindi tutta la stirpe dei giganti (hrímþursar), come affermano i testi eddici, e la loro particolare ferocia sembra essere connessa al fatto che il loro stesso progenitore era stato formato, fra le altre cose, con le gocce di veleno che erano schizzate dagli Èlivágar, i fiumi primordiali.

    La Snorra Edda introduce subito dopo una seconda figura: la vacca cosmica Auðhumla¹¹:

    Allora disse Gangleri: «Dove dimorava Ymir? Di che cosa viveva?»

    Hár rispose: «Non appena la brina si sciolse, da essa prese forma una vacca, chiamata Auðhumla; quattro fiumi di latte sgorgavano dalle sue mammelle e in questo modo essa nutrì Ymir».

    La vacca primordiale avrà poi un ruolo chiave nella nascita nella generazione degli dèi. Così narra Snorri¹²:

    Allora disse Gangleri: «Di che cosa si nutriva la vacca?»

    Hár rispose: «Leccava le rocce brinate, che erano salate, e nel primo giorno in cui essa le leccò, da quelle pietre spuntarono a sera i capelli di un uomo, il giorno dopo la testa e il terzo giorno vi fu l’uomo intero. Il suo nome era Búri. Era di bell’aspetto, grande e possente. Generò un figlio chiamato Borr; questi prese in moglie quella donna che si chiamava Bestla, figlia del gigante Bǫlþorn ed ebbero tre figli. Il primo si chiamava Óðinn, il secondo Vili, il terzo Vé, e io so per verità, che Óðinn e i suoi fratelli saranno i signori del cielo e della terra. Noi questo crediamo, che così debba chiamarsi colui che sappiamo essere il maggiore e il supremo, e anche voi potete chiamarlo così».

    La figura della vacca cosmica e primordiale è un tratto comune fra l’altro anche di altre mitologie indoeuropee, come quella iranica e indiana, come aveva già segnalato Viktor Rydberg nel corso dell’Ottocento.

    La prima fase della formazione dell’universo ha così fine. Da qui in poi inizia la seconda fase della cosmogonia, della formazione del cosmo (dal greco antico κόσμος = ordine), di un universo ordinato.

    Seguiamo ancora il racconto della Snorra Edda, che ci narra questo dramma primordiale¹³:

    Allora disse Gangleri: «Ci fu un patto fra loro? Quali furono i più potenti?»

    Hár rispose: «I figli di Borr uccisero il gigante Ymir, ma quando egli cadde dalle sue ferite uscì tanto sangue, che in esso affogarono tutta la stirpe dei hrímþursar, tranne uno che fuggì con la sua famiglia. Costui gli jǫtnar lo chiamano Bergelmir. Si arrampicò sul suo mulino, sua moglie con lui, e così si salvarono. Da loro sono discese le stirpi dei hrímþursar come così è detto:

    Innumerevoli inverni,

    prima che la terra avesse forma,

    Bergelmir era già nato.

    Questo per primo ricordo:

    vidi quel saggio jǫtunn

    ch’era steso su un mulino».

    Quindi disse Gangleri: «Cosa fecero dunque i figli di Borr, se tu credi che siano dèi?»

    Hár disse: «Su questo non c’è poco da raccontare. Essi presero Ymir e lo posero nel mezzo del Ginnungagap e da lui trassero la terra, dal suo sangue il mare e le acque. La terra era fatta della sua carne, le rocce delle sue ossa. I sassi e le pietre le crearono dai suoi denti, dai molari, e dalle ossa che erano spezzate».

    Quindi parlò Jafnhár: «Dal sangue che, corso dalle sue ferite, sgorgava fuori, essi fecero il mare. E quando ebbero formato e saldato insieme la terra, vi disposero intorno il mare come un anello; ed esso sembrerà impossibile da attraversare alla maggior parte degli uomini».

    Quindi parlò Þriði: «Presero anche il suo cranio, ne fecero il cielo e lo posero sopra la terra con quattro angoli, e sotto ciascun angolo posero un nano. I nani si chiamano così: Austri, Vestri, Norðri, Suðri. Poi presero le scintille e le fiammelle che correvano libere, spruzzate fuori dal Múspellsheimr, e le posero nel mezzo del Ginnungahiminn, sia in alto che in basso, affinché illuminassero cielo e terra. Diedero un posto a tutti gli astri: ad alcuni fisso nel cielo, mentre ad altri, che correvano liberi sotto la volta celeste, stabilirono un luogo, dando forma al loro percorso. Nelle antiche testimonianze è detto che da allora furono contati i giorni e il numero degli anni».

    Da questo sacrificio primordiale compiuto dagli dèi nasce quindi il cosmo come noi lo conosciamo. Narrano così la quarta, la quinta e la sesta stanza del carme eddico della Völuspá¹⁴:

    Finché i figli di Borr

    trassero su le terre,

    loro che Miðgarðr

    vasta formarono.

    Splendette da sud il sole

    sulle pareti di pietra;

    allora si ricoprì il suolo

    di germogli verdi.

    Con forza da sud il sole,

    compagno della luna,

    stese la mano destra

    verso l’orlo del cielo.

    Il sole non sapeva

    dov’era la sua casa;

    le stelle non sapevano

    di avere una dimora;

    la luna non sapeva

    qual era il suo potere.

    Andarono allora tutti i potenti

    ai seggi del giudizio,

    gli altissimi dèi,

    e tennero consiglio:

    alla notte e alle fasi lunari

    nome imposero;

    al mattino dettero un nome

    e al mezzogiorno,

    al pomeriggio e alla sera

    per contare gli anni.

    E viene cantato così nel carme eddico del Grímnismál¹⁵:

    Dalla carne di Ymir

    fu la terra formata,

    dal sangue i mari,

    montagne dalle ossa,

    alberi dai capelli

    e dal cranio il cielo.

    Con le sue ciglia

    fecero gli dèi gentili

    Miðgarðr per i figli degli uomini;

    e dal suo cervello

    furono le impetuose

    nuvole tutte create.

    Il sacrificio primordiale del gigante Ymir da parte degli dèi richiama sicuramente un mitema indoeuropeo antichissimo visto che si ravvisa un sacrificio similare anche nella mitologia indiana. Stiamo parlando naturalmente del sacrificio del Puruṣa, con cui gli dèi formano il cosmo, che viene narrato nel celebre Puruṣasūkta, nel decimo libro del Ṛgveda, nei seguenti termini¹⁶:

    La sua bocca diventò il brahmano, le sue braccia si trasformarono nel guerriero, le sue cosce nel vaisya, dai piedi nacque lo śūdra.

    Le similitudini con il sacrificio di Ymir e con la cosmogonia norrena, come può saggiare da sé il lettore, sono davvero innumerevoli.

    Tornando ai testi eddici non si può non menzionare la formazione da parte degli dèi del Miðgarðr,

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