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Pietro mio
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E-book254 pagine3 ore

Pietro mio

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Pietro mio è espressione di familiarità, tra affetto e orgoglio. Solo Chiara Fancelli poteva parlare così del Perugino, il pittore suo consorte. È lei, ormai fantasma, a narrare, con consapevolezza da femminista postmoderna, la storia di lui e di sé modella e moglie del “meglio maestro d’Italia”. Il romanzo prende avvio dal fatidico anno della crisi. Siamo nel 1504, con uno scambio di missive si contratta, con la confraternita dei bianchi, l’ingaggio per un affresco. Qualcosa però turba la serenità e la gloria del maestro fino a spingerlo a firmare un contratto svantaggioso proprio nella sua terra natale. Il passato glorioso della gioventù ritorna nei ricordi accanto alle microstorie che incrociano i grandi eventi e i personaggi del Rinascimento: i Medici, Savonarola, i Borgia, Giulio II e Michelangelo. È l’era della diffusione della stampa e del genio di Leonardo. I nuovi, giovani artisti irrompono sulla scena delle moderne corti e al nostro, superato anche dall’allievo Raffaello, non resta che cercare di restare a galla.
E Chiara che, come ogni fantasma, resta per un’ossessione e dei conti in sospeso, cerca di fare luce su ciò che accadde al marito, e sulla sua morte funestata dal sospetto di eresia.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mag 2023
ISBN9788866604365
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    Anteprima del libro

    Pietro mio - Mariangela Menghini

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Titolo pagina

    1. Contrattazioni

    2. Fantasmi

    3. Partenza

    4. Ricordi

    5. Miracolo

    6. Matrimonio

    7. Arrivo

    8. Vuoti

    9. Equilibrio

    10. Firenze

    11. Aiutanti

    12. Coltello

    13. Vetro

    14. Fallimenti

    15. Roma

    16. Tribunali

    17. Solitudine

    18. Peste

    19. Polvere

    20. Assoluzioni

    ANNOTAZIONI E RINGRAZIAMENTI

    cover.jpg

    Mariangela Menghini

    Pietro mio

    img1.png

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-436-5

    Romanzo Storico

    img2.png

    PIETRO MIO

    Autore: Mariangela Menghini

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di maggio 2023

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Renato Menghini

    img3.png

    Collana: LA NOSTRA NARRATIVA

    Editing a cura di: Giulia Pretta

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A mia madre

    Ai miei insegnanti

    Alla memoria di Pietro Scarpellini

    e della maestra Bruna Mendico

    Pretendere di ricostruire nella sua totalità l’attività

    di un imprenditore dell’epoca unendo le poche tracce

    rimaste nelle biblioteche e negli archivi è un’illusione

    (Alessandro Barbero, Inventare i libri)

    1. Contrattazioni

    Charo mio Segnore,

    la penctura che vonno fa nello oratorio de Desceprenate cie vorrieno a meno ducento florene. Io me contentarò de cento, chomo paisano et venticue sciubbeto, glaltre in tre anne, venticue l’ano, et si dicto contracto sta bene, me mande la polisa e le cuadrine, et serà facto e lo saluto.

    Io Pietro Penctore mano propria,

    Peroscia vencte de febraio 1504

    Allo Scineco de desceprinate de

    Chatello de la Pieve

    Era il mio consorte Pietro Perugino a scrivere. Era fatto così, raffinato nelle linee e nei colori, ma sbrigativo di carattere, andava dritto al punto senza tanti preamboli e nessuno lo batteva nelle contrattazioni. Immagino che vi starete chiedendo perché non si capisca niente da questa lettera: lo so, abbiate pazienza che vi racconti.

    Scriveva in volgare umbro toscaneggiante del Cinquecento Pietro mio e, a seconda che avesse a che fare con signori istruiti o con gente comune, si regolava per il tono da tenere: in questo caso contrattava con il sindaco dei disciplinati in una variante non troppo colta. Non scriveva mica per fare poesia, anzi, per lui poesia erano l’arte dei suoi pennelli e sentir tintinnare la moneta sonante. Gli piaceva il fiorino, per l’appunto, una valuta apprezzata in tutti i regni che aveva la forza economica del dollaro di oggi. Fiorini o ducati che fossero, lui prendeva tutto, anche i quattrini dello Stato Pontificio; quando non c’erano soldi si faceva dare case, poderi e partite di grano. Aveva due stanze per laboratorio al centro di Perugia, era da lì che aveva scritto la lettera. Ve la traduco.

    «Caro signor sindaco della confraternita dei disciplinati, per le pitture che volete fare nell’oratorio, il preventivo di spesa ammonterebbe a duecento fiorini, ma io, in qualità di compaesano, ve ne chiedo la metà, venticinque subito, gli altri a rate di venticinque l’anno. Se accettate il contratto mandatemi subito la polizza e i quattrini e sarà fatto. Saluti.»

    L’offerta era sbalorditiva, destava tra i membri della confraternita qualche sospetto. Parlottavano dubbiosi.

    «Il nostro Magdalo che ne dice?»

    «Dice che Pietro accetta.»

    «Per una cifra così bassa?»

    «Dice che Pietro è paesano e vuole fare un voto alla Madonna.»

    «Quale madonna? La bella moglie che si ritrova, forse! Un voto lui, non ci credo.»

    «C’è la lettera già firmata, dev’essere vero.»

    «Avete idea di quanto siano costate le sue pitture al papa e ai banchieri di Perugia?»

    «Hai ragione. Le cifre non possono essere quelle.»

    «Non riesco a credere che si accontenti di così poco.»

    «Magdalo, ma davvero ci basterà quella cifra per il dipinto del presepe?»

    «Si può calare ancora, secondo me.»

    C’era qualcosa sotto, i confratelli non si capacitavano. Un lavoro di quella portata, con una miriade di personaggi, non era cosa da farsi in pochi mesi per una miseria.

    Delle pitture e del soggetto ne avevano discusso prima di trattare sul compenso. Il soggetto era un bel presepe con il corteo dei magi che portavano doni, cavalli al galoppo e paggi servitori; ci volevano vedere in lontananza i dromedari con il carico di casse legate ai fianchi e la scimmietta sulla gobba; in primo piano, dietro alla sacra famiglia, dovevano esserci le pecore, i pastori, lo zampognaro e pure il massaro con la cesta delle uova; sullo sfondo non dovevano mancare le colline e il lago. Lo volevano pronto per il Natale dello stesso anno, perciò il sindaco in persona aveva preso carta e penna e aveva esposto le richieste dei confratelli.

    L’idea era quella di ingentilire, con una pittura molto vaga e dolce, l’immagine storicamente truce messa in giro dai disciplinati, una confraternita nata due secoli prima, intorno a un certo Raniero di Perugia, con ideali foschi e apocalittici. In origine si chiamavano flagellanti: sì esatto, si colpivano la schiena e il petto con fruste chiamate flagelli. Per capire cosa spingesse della gente a infliggersi del male, bisogna ammettere che forse quel dolore fisico dava loro modo di evitare l’angoscia vera di sentire la vita di continuo minacciata e appesa a un filo. La gente del mio tempo era nata due secoli dopo quelle origini funeste dei flagelli ma, nonostante si vivesse assai meglio di quelli che voi chiamate medievali, la precarietà imperava anche all’epoca da cui ho cominciato il mio racconto.

    Io e Pietro eravamo sposati da oltre dieci anni, sapevamo leggere e scrivere, esisteva un servizio postale per mandare in pochi giorni dei messaggi da una città all’altra. Nonostante ciò la nostra bimba era morta due anni prima degli eventi che vi sto raccontando senza che nessuno potesse fare qualcosa per salvarla. Non perché non avessimo in casa la legna da bruciare nel camino per scaldarci o il cibo da mettere in tavola o le lenzuola nel letto dove dormivano i figlioli. La famiglia del miglior pittore d’Italia viveva meglio di molti altri e Firenze a quell’epoca, lasciatemelo dire, era il non plus ultra delle città europee. Noi tutti ci sentivamo già moderni nella città dell’arte e delle banche ed eravamo ben consapevoli che era in corso un gran Rinascimento della storia. Eppure la bimba si ammalò: tosse, starnuti, febbre alta, era pallida come un cencio e non ci fu nulla da fare.

    Figuratevi due secoli prima di noi quanto potevano sentirsi in bilico nella precarietà della vita di ogni giorno. Questo lo dico per spiegarvi come nacquero quei flagellanti di cui i disciplinati erano eredi. Si poteva morire rosicchiati dai topi in culla, di fame, di freddo, di carenze alimentari, di un’infinità di infezioni sia gravi che comuni oltre che di malattie contagiose o semplicemente incurabili per scarse conoscenze mediche. Si poteva finire arrostiti in un incendio scoppiato da un braciere, o per una caduta, o ancora accoltellati in una lite o di tetano per essersi feriti con un chiodo. Toccava essere religiosi, il timore delle ritorsioni di Dio era schiacciante. Non avevano via d’uscita: se arretravano dai doveri della religione, una pestilenza punitiva se li portava via in pochi giorni. Se non tiravano le cuoia per un morbo contagioso, c’erano quelli che rischiavano un processo per eresia; non parliamo nemmeno di ciò che capitava alle donne, specie quelle senza marito e magari pratiche di erbe e miscugli.

    Ma l’epoca delle contrattazioni di Pietro con il sindaco Magdalo si presentava come un’era nuova, i discendenti dei flagellanti medievali si erano addolciti oltre che arricchiti e volevano attenuare il ricordo delle origini funeste commissionando a Pietro Perugino un delicatissimo presepe con pastori e magi.

    Avvenne così che ai primi del 1504 i bianchi – altro nome con cui erano noti i disciplinati – erano pensierosi per la scarsa partecipazione dei fedeli alle cerimonie natalizie. Del resto, la loro specialità era il mortorio della Settimana Santa e sul Natale dovevano riguadagnare terreno, così si misero sotto a escogitare qualcosa per estendere il prestigio dell’organizzazione su tutto l’anno liturgico e per rifarsi della fama truculenta. A quei tempi il concittadino Pietro Vannucci, mio marito, era al massimo del successo e a Castel della Pieve non facevano che parlarne. Cominciarono le contrattazioni per affidargli da affrescare la parete più in vista dell’oratorio. Come in ogni città, a Castel della Pieve c’erano molte confraternite, che fossero dei bianchi o di altro tipo, lì erano addirittura dieci e rivaleggiavano tra loro per emergere ciascuna sulle altre. In seguito molte furono soppresse con tanto di danno agli edifici e agli affreschi. Non fu toccato dal provvedimento, però, il bel presepe del marito mio e i turisti vanno ancora ad ammirarlo. Come le so io tutte queste cose tra poco ve lo spiego. Intanto dico che secondo me la confraternita dei bianchi si guadagnò il primato grazie all’arte del Perugino che le diede gloria nei secoli a venire, quando le ossa del mio Pietro erano già da tempo sepolte in un campo anonimo sotto terra. Ma anche questo ve lo racconto dopo.

    Al paesello volevano distinguersi con un capolavoro del concittadino illustre che era rinomato fino a Venezia e Milano; pensate che le sue opere alla fine sarebbero giunte pure in Francia e in Spagna. Pietro, nei suoi sogni di gloria, avrà pure sperato di arrivare con la fama fino in capo al mondo: si sapeva che, oltre l’oceano Atlantico, c’era una via per arrivare all’oriente girando in nave da occidente e che, passando da quella parte, si incontravano nuove terre straordinarie; ma, intanto, doveva fare i conti con i paesani di provincia. Certo non è che noi sapessimo ancora chiaramente come fosse fatto il globo terrestre o conoscessimo già il sistema solare eliocentrico e come andassero le cose in America che ancora non si chiamava così. Mio padre, che scriveva lettere al suo duca mecenate mantovano, ne diceva entusiasta di «Cierte ixole, infra le altre verso l’oriente una ixola grandissima la quale aveva grandissimi fiumi e teribile montagnie».

    Ma via, torniamo ai confratelli che ebbero a che fare con Pietro e le sue pitture.

    Al tempo in cui mio marito Pietro scrisse la lettera, la confraternita riceveva lasciti ereditari: in particolare, aveva avuto pure una casetta molto graziosa, nel borgo, da tal Mariano di Giovanni Cenci che poi, fra l’altro, alla fine diventò proprietà di Pietro. Avendo quindi accumulato una certa quantità di sostanze, si erano decisi a fare il grande passo rivolgendosi a un nome di grido dell’arte, per di più un paesano che aveva fatto fortuna e che di affreschi alle pareti se ne intendeva, dato che a Roma era stato sovrintendente alle pitture della Cappella Sistina per il papa. Che sforzo sarebbe stato per lui dipingere una parete dell’oratorio a fianco all’ospedale? Niente, un gioco da ragazzi e lui non era nemmeno più un ragazzo, aveva già passato la cinquantina. Così erano iniziate le contrattazioni.

    La confraternita aveva interesse a farsi bella con le pitture del maestro già osannato a Roma e pure Pietro aveva i suoi buoni motivi per contrattare al ribasso. Si cominciava infatti già a vociferare che gli allievi superassero il maestro. Mentre i disciplinati temevano la concorrenza delle nuove e numerose confraternite nascenti, che fossero troppe e che il papa non gradisse questo proliferare. I bianchi volevano distinguersi con un marchio che li rendesse superiori a tutti gli altri. Erano sicuri che così, quando fosse arrivato il momento, si sarebbero trovati al sicuro. Non si poteva chiudere una confraternita che aveva una parete decorata dal pupillo di un papa e che era pure un paesano di prestigio. Che chiudessero le altre, piuttosto, sorte per emulazione e meno potenti della loro. Il Natale prossimo non ci sarebbero stati rivali. Tutti al solenne svelamento della parete di mastro Pietro e alle celebrazioni dei bianchi sarebbero dovuti andare. D’altra parte, pure a Pietro quella commissione serviva perché voleva dimostrare con un’opera grandiosa, realizzata proprio nella sua terra, di essere in grado di mantenere il primato minacciato dalla concorrenza.

    Il piatto della bilancia pendeva però a sfavore dell’artista con il rischio che gli fosse preferito qualcun altro se non si fosse affrettato a concludere l’affare. Le contrattazioni continuarono a stretto giro, puntualissime e incalzanti. Scrisse di nuovo il sindaco per chiedere un ulteriore ribasso, ma le parole esatte delle sue lettere non ve le posso leggere perché Pietro ha bruciato tutto, ha usato le carte per accendere il fuoco negli ultimi giorni di vita, quando batteva i denti per la febbre alla Casa del Cavallo. Ma anche questo ve lo racconterò più avanti. Il contratto alla fine si fece a nuove condizioni agevolate. Scriveva ancora il mio consorte.

    Charo mio Segnore,

    sabito ma manne la mula et col pedone che verrone a penctorà et fa la polisa pe strencue florene et così calarò venticue florene et niente più.

    Me salutare la chomare e lo saluto

    Io Pietro Penctore mano propria,

    Peroscia 1 de marzo 1504

    In soli venti giorni si conclusero gli accordi. Pietro scriveva da Perugia diretto all’obiettivo, senza orpelli e ornamenti. L’ulteriore sconto tradiva però l’urgenza dell’imprenditore che lascia trapelare il suo segreto bisogno di aggiudicarsi la commissione a qualunque condizione pur di restare a galla. Non chiese altro se non il compenso ridotto al minimo, e pensare che per i priori di Perugia aveva dipinto una gran sala, che oggi non esiste più, per la somma di mille fiorini e non vi dico quanto ricevette per la banca più bella del mondo, dato che tanto la sua opera la conoscono tutti. Altro che il prezzo dell’asta al ribasso. Quella volta non chiese nemmeno un appartamento dove risiedere durante i lavori, visto che a Castel della Pieve c’era la casa dei suoi defunti genitori dove poteva sistemarsi ospitato dai nipoti. Era la casa dove era nato. Ci sarebbe tornato volentieri con gli onori del successo e alla faccia di tutti quelli che, quando era partito per andare a fare l’apprendista di bottega, lo avevano guardato con un certo scetticismo. Non aveva faticato poco per diventare chi era diventato e ora assaporava il piacere dell’esibizione. Non lo diceva, ma sotto sotto avrebbe pagato di tasca sua per ottenere quell’appalto. Così scrisse l’offerta per l’accordo definitivo. Subito voleva che gli fornissero il mezzo di trasporto e l’accompagnatore per muoversi con tutto l’occorrente, pennelli, colori, terra di Siena, nero di carbonio, biacca, cocci e coccetti, bauli per il trasporto e ogni sorta di equipaggiamento necessario per lavorare. Il tutto per una polizza di contratto ribassata di altri venticinque fiorini. Anche stavolta con tanti saluti alla comare, la moglie del sindaco dei disciplinati. Quella signora non mi aveva particolarmente in simpatia, forse perché ero molto più giovane di lei e la mia immagine campeggiava nei ritratti delle madonne.

    Da quando mi aveva sposato giovanissima, Pietro mi usava come modella: mi acconciava la capigliatura liscia con la scriminatura in mezzo, le trecce pettinate e i veli sulla testa, mi teneva per ore in posa per disegnare bozze e cogliere le sfumature dell’incarnato. Era innamorato della mia figura. Ne aveva fatto modelli con la testa inclinata da una parte e dall’altra, di fronte, di tre quarti e di profilo. Sì, la bella donna che vedete nelle madonne di Pietro Perugino, dal momento che mi fu promesso sposo in poi, ivi compresa quella della sacra famiglia raffigurata al centro della natività delle contrattazioni di Castel della Pieve, sono proprio io. Accanto a me, vicino alla capanna, c’è anche il cagnolino bianco che avevamo preso cucciolo per la nostra bambina, per farla sorridere, nella speranza, vana, che l’umore la aiutasse nella guarigione.

    Era stato un brutto colpo per me e avevo faticato a riprendermi dal lutto più di lui che a Firenze, a casa, non c’era quasi mai. Faceva sempre avanti e indietro e pure a Perugia s’era trattenuto poco in quell’anno fatidico: aveva avuto solo la commissione di una tavola, mentre il suo allievo più famoso, appena ventenne, ne aveva avute cinque. Ora però ci stavamo riprendendo dal lutto, il cagnolino era cresciuto e aveva sempre voglia di giocare. Lo vedete, è lì al centro del presepe che scodinzola accanto a me. Pietro mi mostrò a casa le bozze colorate e il disegno con il cane, mi chiese di sorridere perché la vita è così che dà e toglie. E quindi ce lo mise davvero là in mezzo alla scena il cane, ma soprattutto come sempre ci mise me, madonna Chiara, figlia dell’architetto Luca Fancelli, fiorentina, comparsa in arte per la prima volta su tavola per i domenicani in Fiesole.

    2. Fantasmi

    Sono un fantasma oggi, ma fui viva e mi vedete al centro sotto la capanna del presepe: bellina, vero? Vicino a me c’è Raspa, il ciabattino, che fece da modello per san Giuseppe. Gli dicevano tutti che aveva una bella barba bianca, le braccia e le mani grosse di un lavoratore: sarebbe stato perfetto per rappresentare il santo falegname anche se Pietro mio non li faceva mai tanto muscolari i personaggi suoi. Il bambinello invece è Astorre, il nipotino di Raspa, poverino, che all’epoca della posa aveva un anno e prendeva ancora il latte dalla mamma, ma che morì l’anno dopo. Anche gli altri potrei nominare uno a uno. Non sono proprio come apparivano nella vita reale, ma piuttosto simulacri trasfigurati alla maniera fiorentina che Pietro aveva bene appreso quando mescolava i tratti del modello vero con quelli idealizzati, tanto che alla fine le immagini dipinte si sono affisse nella mente e nelle fantasie di generazioni intere, mentre i corpi reali che le originarono sono disfatti e persi alla memoria. Sono tutti fantasmi come me, madonna Chiara, una fantasima dipinta, della specie che chiamano ossessione, piuttosto che lo spettro di un morto che si aggira nelle stanze e nei luoghi dove in vita non ebbe pace. Ebbene sì, c’è un’ossessione che mi ha accompagnato per anni: è stata la condanna di vedermi impressa nella bella donna, dover fare da modella di una formula astratta di Madonna di successo. Del mio aspetto se ne avvalse mio padre prima – quando mi promise sposa – e mio marito, poi, quando mi fece il ritratto idealizzato. Per secoli non c’è stata Madonna che non mi rassomigliasse almeno un po’ non solo nell’arte, ma nelle fantasie della gente.

    Si è come ipnotizzati a vedere negli occhi di un pittore tanto innamorato rapimento per la sua modella, non ci si rende conto che l’amore che sprigiona e trasferisce in punta di pennello non è per noi che stiamo lì ferme davanti a loro in posa, ma per l’idea che noi rappresentiamo: la bellezza, la purezza, la castità, la Vergine Maria, la dea di turno o la Sibilla dai responsi ambigui oppure ancora Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza. Lo sapeva bene Cecilia, l’ardita, quando mandò in prestito alla marchesa Isabella di Mantova il ritratto che le aveva fatto Leonardo per conto del suo amante, il Moro. Si vedeva allo specchio disfatta anni dopo e non più somigliante, mentre quella nel quadro con in braccio l’ermellino rimaneva affascinante e dalla bellezza eternamente acerba. Non pareva più nemmeno lei, o chissà in un’altra vita, forse. L’artista rappresenta un’astrazione per antonomasia usando noi. Ci osserva senza vederci e ci accarezza le carni con il pennello sulla tavola, ma è solo se stesso e il suo talento che ama in quel momento. Con il passare del tempo, quanti bei ritratti continueranno ad avere un volto ma non un nome. Noi siamo destinate tutte già da principio all’oblio mentre la nostra immagine resterà per secoli indelebile e tenuta in gran valore. Io invoco l’aiuto delle lettere contro la cancellazione che su tutto opera il tempo. I libri e la corrispondenza hanno tramandato il nome e i

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