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Sul corpo: Antropologia del movimento
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E-book671 pagine10 ore

Sul corpo: Antropologia del movimento

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Il movimento del corpo e la decisione volontaria di agirlo sostanziano il punto zero di orientamento. Il corpo è dotato di sensazioni, sensibilità, controllo e capacità di riflettere su se stesso, non è un contenitore passivo e le sue azioni non rappresentano esclusivamente segni che richiamino l’attenzione su forme astratte, distinte dalla vita reale, ma è soggetto alla nascita e alla decadenza e acquisisce sia specifiche abilità e capacità sia manchevolezze e debolezze. Il corpo non è una entità statica, immobile, al contrario cresce e si sviluppa relazionandosi con l’ambiente in molteplici forme. Corpo e mente non sono separati nella descrizione dello stesso oggetto, ma si interrelano scambiandosi informazioni e suggerendo soluzioni. L’antropologia filosofica si propone di definire questo incontro nelle molteplici tipologie suggerite nei variegati percorsi di studi,in epoche diverse e nelle differenti culture. In questo saggio la struttura corpo-mente è stata indagata sia nella cultura occidentale che in quella orientale: in Occidente in un excursus lungo sentieri filosofici, in Oriente come prassi in tre fondamentali corpus teatrali, e cioè il Nāṭyaśāstra per il teatro classico indiano, il Dharma Pawayangan per il manipolatore del teatro delle ombre a Bali e nei Trattati zeamiani per il teatro nō in Giappone. Le due parti si specchiano e si riflettono l’una nell’altra e idealmente propongono un percorso di riflessioni teoriche e pratiche con analogie e differenziazioni strutturali, antropologicamente cor- relate al contesto culturale che le ha maturate ed espresse.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2023
ISBN9788849140804
Sul corpo: Antropologia del movimento

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    Anteprima del libro

    Sul corpo - Giovanni Azzaroni

    Il movimento del corpo e la decisione volontaria di agirlo sostanziano il punto zero di orientamento. Il corpo è dotato di sensazioni, sensibilità, controllo e capacità di riflettere su se stesso, non è un contenitore passivo e le sue azioni non rappresentano esclusivamente segni che richiamino l’attenzione su forme astratte, distinte dalla vita reale, ma è soggetto alla nascita e alla decadenza e acquisisce sia specifiche abilità e capacità sia manchevolezze e debolezze. Il corpo non è una entità statica, immobile, al contrario cresce e si sviluppa relazionandosi con l’ambiente in molteplici forme. Corpo e mente non sono separati nella descrizione dello stesso oggetto, ma si interrelano scambiandosi informazioni e suggerendo soluzioni. L’antropologia filosofica si propone di definire questo incontro nelle molteplici tipologie suggerite nei variegati percorsi di studi, in epoche diverse e nelle differenti culture. In questo saggio la struttura corpo-mente è stata indagata sia nella cultura occidentale che in quella orientale: in Occidente in un excursus lungo sentieri filosofici, in Oriente come prassi in tre fondamentali corpus teatrali, e cioè il Nāṭyaśāstra per il teatro classico indiano, il Dharma Pawayangan per il manipolatore del teatro delle ombre a Bali e nei Trattati zeamiani per il teatro in Giappone. Le due parti si specchiano e si riflettono l’una nell’altra e idealmente propongono un percorso di riflessioni teoriche e pratiche con analogie e differenziazioni strutturali, antropologicamente correlate al contesto culturale che le ha maturate ed espresse.

    Giovanni Azzaroni ha insegnato Antropologia dello Spettacolo e Teatri Orientali presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna. Ha svolto ricerche in Asia, Africa e nel Meridione d’Italia.Tra le sue pubblicazioni più recenti Teatro in Asia, 4 voll. (Clueb 1998-2006); Le realtà del mito due (Clueb 2008); La Settimana Santa a Mottola (Clueb 2010); Il mare della fertilità. Un’analisi antropologica della tetralogia di Mishima Yukio (Aracne 2017); con Matteo Casari, Asia il teatro che danza (Le Lettere 2011) e Raccontare la Grecìa. Una ricerca antropologica nelle memorie del Salento griko (Kurumuny 2015). Ha fondato e diretto la rivista online «Antropologia e Teatro - Rivista di Studi».

    Saggi

    Copyright © 2020, Biblioteca Clueb

    ISBN EPUB 978-88-49140-80-4

    Prima edizione Clueb: 2020, Trame. Antropologia, teatro e tradizioni popolari

    Fotografia di copertina di Berlian Khatulistiwa, Unsplash

    Biblioteca Clueb

    via Marsala, 31 – 40126 Bologna

    info@bibliotecaclueb.it – www.bibliotecaclueb.it

    Giovanni Azzaroni

    Sul corpo

    Antropologia del movimento

    Biblioteca-CLUEB_EPUB.png

    La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno)

    può essere per noi il tempo più felice.

    È morto l’animale o quasi è morto.

    Restano l’uomo e l’anima.

    (Jorge Luis Borges, Elogio dellombra)

    In questi tempi di fortuna la congettura che l’esistenza

    dell’uomo è una quantità costante, invariabile, può rattristare

    o irritare; in tempi che declinano (come questi), è la promessa

    che nessun obbrobrio, nessuna calamità, nessun dittatore

    potrà impoverirci.

    (Jorge Luis Borges, Storia delleternità)

    Capitolo I

    Il corpo questo (s)conosciuto


    Ogni oggetto che occupi uno spazio, una estensione della realtà spazio-temporale, sostiene paradigmaticamente Edmund Husserl, è un corpo (Körper). Per un geologo una pietra è un corpo, per un astronomo lo sono un pianeta, una stella, per un biologo lo è il corpo umano, lo è per ogni scienziato che si occupi dei meccanismi fisici dell’essere umano, del soma (Leib), che è "il corpo vivo, animato; dotato di sensazioni, sensibilità, controllo e della capacità di riflettere su se stesso. Il movimento del corpo, la decisione volontaria di muoverci, è ciò che fa sì che il corpo, in quanto soma, sia il punto zero di orientamento: vivo il mondo dal ‘mio’ punto di vista e da lì mi oriento verso il mondo" (Mendoza-Canales 2017: 149). Il corpo non è solamente una cosa, è anche un organo dello spirito e, contemporaneamente, una espressione dello spirito. In opposizione all’empirismo, Husserl propone un nuovo metodo filosofico, il metodo fenomenologico (da phàinein, manifestarsi, e lógos, parola, discorso, ragione), che può intendersi anche come «parlare di ciò che accade». Secondo Husserl, la fenomenologia non è una dottrina o un sistema filosofico, bensì una attitudine critica e radicale di rapportarsi alle cose. Se il compito della filosofia consiste nell’analisi dei fenomeni psichici o fenomeni della coscienza, che non sono mai racchiusi in se stessi ma si riferiscono sempre a qualche cosa di esterno, allora il carattere aperto della coscienza significa concepirla come «coscienza di qualche cosa»: nel rapporto con questo «qualche cosa», e cioè con i fenomeni della coscienza, secondo Husserl, si costituisce la coscienza. Gli antropologi cognitivi definiscono modelli culturali quell’insieme di regole e rappresentazioni che sono trasmessi di generazione in generazione indipendentemente dalla loro applicazione pratica nei contesti di percezione e azione. Ne consegue che questa conoscenza, discendendo direttamente dai predecessori, si manifesti nella pratica ma da questa non sia espressa. Questi modelli fornirebbero alle persone ciò che esse devono sapere per poter agire nel modo in cui fanno, fare le cose che fanno, e interpretare la loro esperienza nel modo specifico che è loro proprio (Quinn – Holland 1987: 4). L’antropologia contemporanea si interroga su questa filosofia e la critica. Elaborando una teoria sistematica della pratica, Pierre Bourdieu

    ha tentato di mostrare come la conoscenza piuttosto che essere importata dalla mente nei contesti esperenziali, è a sua volta generata all’interno di questi contesti nel corso del reciproco coinvolgimento con gli altri nelle faccende ordinarie e quotidiane. Egli ha in mente un tipo di conoscenza pratica che noi associamo con l’abilità – un know how che ci portiamo nel corpo e che è notoriamente refrattario alla codificazione in termini di sistemi di regole e rappresentazioni (Ingold 2016: 71).

    Il chiedersi che cosa sia la conoscenza umana e quali siano gli strumenti a disposizione dell’uomo per conoscere implica, per rispondere, necessariamente una determinata concezione antropologica, e cioè che cosa è l’uomo? Per fare un esempio: quando affermiamo di vedere un albero i nostri sensi stanno percependo una serie di proprietà sensoriali – dimensione, colore, consistenza. Tuttavia il concetto di albero non viene percepito da nessun senso poiché è la conseguenza diretta di un processo intellettuale. Pertanto si uniscono tutte le caratteristiche sensoriali percepite e si attribuisce a questo complesso di percezioni il nome generico di «albero». L’intelletto umano prende la nozione di albero dai sensi.

    Semplici o complesse abilità corporee si sviluppano per mezzo della pratica e non attingendo a istruzioni formali, ripetendo performance di compiti che richiedono gesti e posture specifici, che Bourdieu chiama hesis del corpo. Un modo di camminare, di inclinare la testa, un’espressione del viso, il modo di sedere e di usare utensili (Bourdieu 1972: 87) sono espressioni della pratica e denotano specifiche strutture nel mondo della persona. Nonostante questi comportamenti siano incorporati, il corpo non è un contenitore passivo e i suoi movimenti non sono solamente segni che richiamano l’attenzione su forme astratte distinte dalla vita reale. Il corpo è soggetto alla crescita e alla decadenza e acquisisce sia specifiche abilità e capacità sia incapacità e debolezze. Il camminare è incorporato ed è una funzione che si acquisisce con la pratica in un determinato ambiente e in un determinato tempo: questa osservazione è valida per ogni altra abilità umana. Ne consegue che non è più sostenibile la distinzione tra corpo e organismo, perché il corpo in conseguenza delle sue capacità di movimento nel mondo è l’organismo, così come lo è la mente. Pertanto si potrebbe affermare "tanto di ‘incorporazione’ (embodiment) che di ‘in-menta-mento’ (en-mind-ment), perché sviluppare certe routine di azione nel mondo significa allo stesso tempo sviluppare certe modalità di attenzione per il mondo (Ingold 2016: 72-73). Come la mente non è limitata dalla pelle ma si sviluppa lungo gli innumerevoli sentieri delle attività sensoriali, ha sostenuto Gregory Bateson (1973: 429), così il corpo non è una entità statica, immobile, ma al contrario cresce e si sviluppa relazionandosi con l’ambiente in molteplici forme. Corpo e mente non sono quindi separati nella descrizione dello stesso oggetto, si interrelano scambiandosi informazioni e suggerendo soluzioni. Camminare significa muoversi ma anche conoscere l’ambiente nel quale si sviluppa l’azione, con il contatto dei piedi, con l’ascolto dei suoni e dei rumori, con il gustare e sentire gli odori, con la visione di ciò che ci circonda. Il muoversi non è dunque una forma di percezione, un modo di conoscere il mondo oltre che di agirvi?" (Thelen 1995: 89). E la risposta a questa domanda può essere individuata nell’antropologia dei sensi.

    In varie epoche e in diverse culture l’olfatto è stato considerato un senso sia attinente la sfera psichica sia concernente funzioni pratiche, e a esso possono riferirsi le teorie atomistiche di Democrito di Abdera, il quale, insieme con Leucippo di Mileto, sosteneva che la realtà è costituita da infiniti atomi o particelle indivisibili che si muovono nel vuoto, sono sempre uguali e non hanno proprietà sensibili. Non esistono quindi cose chiare o scure, calde o fredde, dolci o piccanti, amare o salate, esistono solamente determinate configurazioni di atomi di forme diverse: le cose che riteniamo dolci sono composte da atomi rotondi, quelle che definiamo aspre sono costituite da atomi spigolosi. Ne consegue che il positivo, l’alto, il caldo, lo yang sia composto da atomi rotondi, il negativo, il basso, lo yin sia definito da atomi spigolosi: il rotondo è yang e lo spigoloso è yin. I fondatori dell’atomismo furono due, Leucippo e Democrito, ma è difficile distinguerli perché, pare, alcuni lavori del primo furono in seguito attribuiti al secondo. Democrito, contemporaneo di Socrate e dei Sofisti, negava che qualche cosa potesse accadere per caso, era un materialista che considerava l’anima composta di atomi e il pensiero un processo fisico.

    In seguito, Socrate e Platone teorizzarono la necessità di distinguere tra casi concreti e definizioni generali, gettando le basi per il recupero di Parmenide di Elea, che aveva trattato non di ciò che esiste, in realtà o in apparenza, ma dell’atto di esistere da parte delle cose. Analogamente di questo problema si occupò Aristotele, seppur con una prospettiva ampiamente rielaborata. Gli antichi filosofi greci pensavano, errando, che non ci potesse essere moto in un pieno, perché ci può essere un movimento ciclico in un pieno purché ci sia sempre stato. Distinguendo tra materia e spazio, Aristotele nella Fisica afferma: La teoria che il vuoto esista implica l’esistenza della posizione: infatti si potrebbe definire il vuoto come una posizione privata del corpo (Aristotele 2007b). Per quanto riguarda lo spazio, la citazione che segue chiarisce perfettamente il pensiero degli atomisti:

    il punto di vista moderno è che non sia né una sostanza, come sosteneva Newton e come devono aver detto Leucippo e Democrito, né un attributo dei corpi che hanno un’estensione, come pensava Cartesio, ma un sistema di relazioni come affermò Leibniz. Non è in alcun modo chiaro se questo punto di vista sia compatibile con l’esistenza del vuoto. Forse nel campo della logica astratta lo si può conciliare con il vuoto. Potremmo dire che tra due cose qualsiasi vi è una certa distanza, grande o piccola, e che la distanza non implica l’esistenza di cose intermedie. Però sarebbe impossibile utilizzare un simile punto di vista nella fisica moderna. Da Einstein in poi, la distanza è tra i fatti non tra le cose ed implica il tempo oltre che lo spazio. È essenzialmente una concezione causale, e nella fisica moderna non c’è azione a distanza. Tutto ciò però è basato sull’empiria piuttosto che sulla logica. Per di più l’opinione moderna non si può esprimere se non in termini di equazioni differenziali e sarebbe quindi stata incomprensibile ai filosofi dell’antichità. Sembrerebbe che di conseguenza lo sviluppo logico delle vedute atomistiche sia la teoria newtoniana dello spazio assoluto, che risolve la difficoltà di attribuire una realtà al non-essere. A questa teoria non esistono obbiezioni logiche. L’obbiezione principale è che lo spazio assoluto è del tutto inconoscibile; e non lo si può quindi assumere come ipotesi necessaria in una scienza empirica. L’obbiezione più pratica è che la fisica può andare avanti senza di esso. Ma il mondo degli atomisti rimane logicamente possibile ed è più vicino al mondo reale di quanto non lo sia il mondo di ogni altro filosofo antico (Russell 1966: 111).

    Dato per assodato che gli odori possono orientare il muoversi, va sottolineato che il numero di combinazioni possibili per recepire gli odori sia altissimo e superi largamente quelli che l’uomo è in grado di percepire. Le proposte di classificazione degli odori sono molto numerose: eccone alcune, iniziando da quella di Linneo, alla metà del Settecento,

    secondo il quale un odore può essere: aromatico, fragrante, muschioso, agliaceo, fetido (o caprino), puzzolente (o ripugnante), nauseabondo. In seguito il profumiere francese Rimmel estese le categorie a sedici, mentre per l’inglese Henning i tipi fondamentali degli odori erano sei: speziati, fragranti, eterei, resinosi, putridi e di bruciato. Abbondano tipologie con decine di categorie e sottocategorie. Molti, tuttavia, sono coloro che si limitano a elencarne sette, come Diane Ackermann. Ecco, per ultima, la sua classificazione di odori: mentolati, floreali, eterei, muschiati, resinosi, fetidi, acri (Marazzi 2010: 71).

    L’utilità pratica di queste classificazioni è immediatamente utile in profumeria, ma scorrendo i diversi elenchi risulta palmarmente evidente il loro carattere relativo a esperienze legate ad ambienti, usi e consuetudini particolari (Marazzi 2010: 71), cioè a un determinato contesto antropologico.

    Il senso del gusto, in collaborazione con l’olfatto e il tatto, il più sensuale dei sensi, tende a privilegiare sensazioni e valutazioni apprese partendo dall’esperienza personale e da indicazioni che sin dalla nascita si imparano dall’ambiente nel quale si vive. Scrive Annick Faurion (in Borillo – Sauvageot 1996: 43): Il gusto non è una proprietà intrinseca dello stimolo, è l’incontro tra l’alimento e l’individuo: dipende dall’interazione stimolo-recettori, dall’interfaccia tra ambiente interno e ambiente esterno. Interessante non è, quindi, l’oggetto chimico (molecola) ma la rappresentazione interna ottenuta, a partire dallo stimolo dei chemiorecettori, dalla codificazione nervosa (Faurion in Borillo – Sauvageot 1996: 43).

    Compito degli organi della vista – gli occhi – è quello di trasmettere al cervello, attraverso canali nervosi, immagini del mondo esterno (Marazzi 2010: 74). La percezione del proprio habitat arricchisce le conoscenze dell’uomo, ne orienta i movimenti, ne dirige le azioni e contribuisce a costruire un patrimonio di informazioni che possono essere utilizzate nel tempo. La vista è un senso predominante, rende possibili le relazioni sociali, la forma, il colore e i movimenti di ciò che ci circonda sono resi concreti dalla vista. Il vedere è una operazione del cervello, ciò che vediamo dipende sia dalla realtà fenomenica esterna che dalla realtà psicologica e culturale interiore. Vedere e muoversi sono inseparabili, il mondo visivo è composto da spazi, superfici, contorni, è un insieme di cose significanti, di simboli, di persone. Il filosofo irlandese George Berkeley fu il primo a proporre una nuova teoria della visione umana, teorizzando che l’attività creatrice della mente fosse contenuta in tutti gli atti di percezione visuale, il che significa che vedere è una forma di pensare, la percezione del mondo determina la visione che di esso si ha. Berkeley può essere considerato il primo filosofo moderno del linguaggio e la sua opera, rara avis, introduce una nuova modalità di comprendere la conoscenza dell’uomo, distante da quella della filosofia moderna come da quella antica. Importanti correnti della filosofia contemporanea trovano nella filosofia di Berkeley motivi di ispirazione interessanti, ad esempio il pragmatismo (è vero solamente ciò che funziona, il mondo reale), la filosofia analitica (studio del linguaggio e analisi logica dei concetti), la fenomenologia (le diverse osservazioni empiriche dei fenomeni vanno messe in relazione) e l’ermeneutica (spiegare l’universalizzazione del fenomeno interpretativo partendo dalla storicità concreta e personale).

    L’uomo è in contatto con l’ambiente esterno, naturale e animale, per mezzo dell’udito, che consente di comunicare con gli altri uomini con la voce, con strumenti musicali e altri oggetti di sua invenzione. I suoni sono le sensazioni prodotte da un corpo elastico in vibrazione; le vibrazioni producono normalmente onde sonore, la cui frequenza si misura in hertz. Il nostro orecchio coglie normalmente i suoni compresi in una fascia di frequenze che va all’incirca da 16 a 16.000 hertz; al di sotto si hanno gli infrasuoni, al di sopra gli ultrasuoni, entrambi inudibili. Nei cantanti lirici, la voce si dispiega generalmente dagli 80 hertz della nota grave di un basso ai 1.000 hertz e oltre delle note acute di un soprano. L’organo è lo strumento musicale che può emettere il suono più grave percepibile, 16 hertz, e quelli più acuti, fino a 16 mila hertz.

    Se si osserva lo spettro delle frequenze dei suoni puri costitutivi (ossia la successione delle loro frequenze ordinate in senso crescente) del suono prodotto da una corda o da un tubo sonoro ci si avvede che tali frequenze stanno fra loro in un rapporto che costituisce una serie armonica, ossia ciascuna frequenza è un multiplo intero della frequenza più bassa. Quest’ultima la chiameremo frequenza fondamentale del suono complesso e le altre frequenze – che sono tutte superiori alla frequenza fondamentale – le diremo armoniche superiori; chiameremo poi suono fondamentale quello cui corrisponde la frequenza più bassa e suoni armonici naturali – o suoni armonici superiori, ovvero suoni parziali – quelli cui corrispondono tutte le altre frequenze (Azzaroni 1997: 23).

    Il rumore è prodotto da combinazioni di frequenze sonore che non sono ordinate secondo rapporti definiti. Queste «definizioni» vanno però interpretate in un’ottica di relativismo culturale, perché la percezione delle vibrazioni sonore come suoni o rumori è sempre condizionata dalle culture che li producono. L’intensità (volume) di un suono si misura in decibel: il volume normale di emissione della voce umana è di circa 16 decibel, una intensità che superi all’incirca i 130 decibel va oltre la cosiddetta soglia del dolore e può provocare un forte fastidio all’orecchio.

    Nelle società umane l’udito e la vista si contendono il primato come mezzi di comunicazione: lo spartiacque secondo alcuni studiosi (Goody, McLuhan, Ong) potrebbe essere rappresentato dall’invenzione della scrittura. Walter J. Ong (1991: 26-27), che sostiene una stretta relazione tra scrittura e sviluppo del pensiero occidentale, individua due possibili correnti nella tradizione antica: Gli Ebrei tendevano a pensare alla conoscenza in termini di ascolto, mentre i Greci la pensavano più come una forma di visione, anche se in modo molto meno esclusivo di quanto l’uomo occidentale post-cartesiano è stato portato a intendere la vista. Un esempio significativo, attualmente, della interrelazione esistente tra scrittura e oralità può essere individuato nella società giapponese, in cui la comunicazione si incentra sia sulla scrittura che su moderni sistemi elettronici: la comunicazione orale ha mantenuto alcune caratteristiche specifiche che rinforzano il contenuto dei messaggi, li contestualizzano e vi aggiungono significati. Ad esempio, l’utilizzo di termini onorifici – non onorifico, onorifico, molto onorifico – rappresentano precisi indicatori della posizione sociale dell’interlocutore relativamente a chi parla e alla diversità di genere.

    Con il tatto ci si sente nel mondo, la pelle è interessata da diversi sistemi di sensibilità, «sente» lo spazio, se ne appropria con la complicità di fenomeni somestetici (dal greco soma, corpo). L’interpretazione dei segnali varia da soggetto a soggetto e pertanto le sensazioni cognitivamente percepite sono molteplici e connesse alla cultura e all’esperienza di ognuno. Ad esempio nella percezione del dolore le sensazioni fisiche si combinano con codici appresi, basti pensare a mutilazioni rituali, fustigazioni e bruciature come momenti di rituali iniziatici oppure a tatuaggi e piercing per modificare il corpo in una visione antropopoietica definita dalla cultura oppure ad abluzioni igienico-rituali. La scimmia nuda, come l’etologo Desmond Morris ha definito l’uomo, ha mutato in tal modo radicalmente l’osmosi tra il proprio corpo e l’ambiente esterno. È mutato anche, parallelamente, il tipo di contatto epidermico tra uomo e donna, con evidenti conseguenze sul piano affettivo-sessule-erotico (Marazzi 2010: 82). L’uomo è in rapporto con l’ambiente, lo subisce e lo trasforma in un continuo divenire bipolare. Il tatto è attivo in rapporto sinestetico con altri sensi – il gusto e la vista: la vista e il tatto collaborano integrando le percezioni sul piano del vissuto fenomenologico.

    Mi pare interessante, a questo punto, opportunamente storicizzando le conoscenze anatomiche del V secolo a.C., ricordare come Platone (1991e: 1374 e 1386-1391), nel Timeo, si occupi dell’origine e delle caratteristiche delle impressioni sensibili, teorizzate con intenti didattici.

    La vista, a mio giudizio, è diventata per noi causa della più grande utilità, in quanto dei ragionamenti che ora vengono fatti intorno all’universo, nessuno sarebbe mai stato fatto, se noi non avessimo visto né gli astri, né il sole, né il cielo. […] E dico appunto che questo degli occhi è il bene più grande. […] Delle affezioni, poi, del liscio e del rugoso, chiunque, se fa attenzione, è capace di dirne la causa ad altri. Infatti, la durezza, mista alla difformità, produce il rugoso, mentre l’uniformità, mista a densità, produce il liscio. […] In primo luogo bisognerà chiarire, nella misura del possibile, ciò che nei precedenti discorsi, parlando dei succhi abbiamo lasciato da parte, ossia delle impressioni che sono proprie della lingua. […] Infatti, tutte quante le parti porose che penetrano all’interno delle piccole vene, che, come elementi di riferimento della lingua, si distendono fino al cuore come incontrando le parti umide e molli della carne e sciogliendosi provocano contrazioni delle piccole vene e le disseccano, e quelle che sono più aspre sembrano acerbe e le meno aspre sembrano acri. [… ] Per quanto concerne, poi, la capacità delle narici, non vi sono specie da distinguere. Infatti, ognuno degli odori è un genere dimezzato e nessuna forma è strutturata in modo proporzionale in modo da avere qualche odore. Le nostre vene che sono destinate a queste cose, sono molto strette per le forme della terra e dell’acqua, e troppo larghe per quelle del fuoco e dell’aria. Perciò, di nessuno di questi elementi nessuno ha mai percepito alcun odore, ma gli odori si formano sempre di cose che si bagnano, o che infradiciscono o che si sciolgono o che evaporano. […] Passando, poi, all’esame di un terzo tipo di sensazioni che possediamo, quelle che riguardano l’udito, dobbiamo dire di quali cause si generino le impressioni che lo riguardano. In generale, pertanto, stabiliamo che il suono sia l’urto che si trasmette attraverso le orecchie ad opera dell’aria, del cervello e del sangue fino all’anima, e che il movimento che si genera dall’urto, incomincia dal capo e termina alla sede del fegato, sia l’udito.

    Gli organi di senso sono al centro di continue ricerche, si studiano i percorsi neurali che conducono gli stimoli periferici al cervello e i processi per mezzo dei quali questi stimoli producono conoscenza. La percezione si immerge nel vissuto fenomenologico dei soggetti indagati e quindi le ricerche sono in contatto diretto con ciò che si vede, si ode, si gusta, si sente, si tocca.

    Il mondo è costituito dalla sostanza dei nostri sensi e noi lo comprendiamo per mezzo dei significati che ne trasmettono le percezioni. Secondo Michel de Montaigne, ogni conoscenza è possibile solamente attraverso i sensi, che ci dominano, sono i nostri padroni, da essi inizia la scienza. Il mondo percettivo si differenzia secondo le latitudini del pianeta, la condizione umana è corporea. L’uomo trasforma il mondo materiale che lo circonda in un mondo-di-senso, nel quale l’ambiente diventa un pre-testo. Come la lingua, il corpo produce significati, le cose diventano reali con il linguaggio. L’educazione al mondo e la sua esperienza sensoriale e percettiva diventano concreti nella relazione tra il soggetto e l’ambiente umano ed ecologico che lo circonda. La conoscenza sensibile si accresce con l’esperienza derivante dall’apprendimento. Gli uomini vivono sensorialità differenti a seconda dell’ambiente in cui si trovano, dell’educazione ricevuta e della storia della loro vita (Le Breton 2006: 17). Ogni cultura comporta un diverso percepire e sentire il mondo. Con l’invenzione della stampa, secondo Marshall McLuhan e Walter J. Ong, le società occidentali hanno privilegiato il mondo del vedere, mentre quelle senza scrittura avrebbero continuato a vivere in un universo sensoriale meno gerarchizzato, ma altrettanto percepibile. La vista pare avere un privilegio a scapito degli altri sensi, superiorità che a volte porta

    a interpretare in modo erroneo la cultura degli altri o a non riconoscerne le intenzioni iniziali. Così, le pitture su sabbia degli indiani navajo, che rimandano essenzialmente a elementi del tatto e del movimento del mondo, vengono percepite dagli Occidentali come un universo fisso e visivo. Suscitano interesse per la loro bellezza formale e vengono collezionate e fotografate proprio per questo. Per i Navajo, invece, queste pitture sono destinate a essere trasportate sul corpo dei pazienti e non eterizzate nella contemplazione. Sono effimere e votate soprattutto alla tattilità, strumenti di comunicazione tra il mondo e gli uomini. Una terapia nata come multisensoriale viene rovesciata sull’unico registro del vedere (Classen in Howes 1991: 264-265).

    I sensi sono sempre presenti nella loro totalità e quindi non possono essere isolati per studiarli separatamente. Le percezioni sono effimere e talvolta false e possono mancare di universalità e di rigore, tuttavia sono indispensabili perché rendono possibile lo svolgersi della vita quotidiana. Contrariamente a Platone (1991a), che nel Fedone teorizza su come l’uomo sia in grado di penetrare gli arcani del sensibile con gli occhi dell’anima e del pensiero, Aristotele (2010) sostiene che

    per quanto riguarda il problema della verità dobbiamo dire che non tutto ciò che appare è vero. In primo luogo dobbiamo dire che, se anche la percezione sensibile non è falsa relativamente all’oggetto suo proprio, tuttavia essa coincide con l’immaginativa. Inoltre, c’è davvero da stupirsi che certuni sollevino difficoltà come queste: se le grandezze e i colori sono tali quali appaiono a coloro che sono lontani, oppure quali appaiono a coloro che sono vicini; e se sono quali appaiono ai sani, oppure quali appaiono ai malati; e se più pesanti sono quelle cose che tali sembrano ai deboli, oppure quelle che tali sembrano ai forti; e se vere siano quelle che appaiono ai dormienti, o quelle che appaiono ai desti. È chiaro, infatti, che essi non hanno dubbi su ciò. E in ogni modo non c’è nessuno che, se in sogno crede di essere ad Atene, mentre in realtà si trova in Libia, si metta in cammino verso l’Odeion.

    Descartes ritiene la conoscenza sensibile subalterna all’intelletto, ma la considera necessaria all’esistenza per la sua utilità pratica. In realtà le percezioni sensoriali non sono né vere né false, è l’individuo che le corregge partendo dalle proprie esperienze. I sensi danno un significato all’orientamento del mondo. Si impara a vedere, sentire, odorare, toccare, udire. L’esempio che segue si fonda su un episodio ormai classico che ha intrigato i filosofi del tempo e non solo. Nel 1688, dopo la lettura del Saggio sullintelletto umano di John Locke, il geometra irlandese William Molineux si chiese se un cieco dalla nascita, che avesse imparato a distinguere con il tatto una sfera da un cubo, sarebbe stato in grado di distinguere i due solidi qualora avesse recuperato la vista a vent’anni. Rispondere positivamente a questa domanda significa che si riconosce il passaggio di conoscenze da un registro sensoriale all’altro, dal tatto alla vista. Molineux ne dubita e della stessa opinione è anche Locke, che ritiene che il cieco dalla nascita abbia una facoltà di giudizio menomata non essendo stato educato simultaneamente alla vista e al tatto. Della stessa opinione è Berkeley, il quale pensa che il cieco sia in grado di vedere nella maniera corretta solo dopo un processo di apprendimento. Vedere significa interpretare e la vista è sempre un metodo, un pensiero sul mondo (Le Breton 2006: 69), prima di vedere è necessario imparare i segni, il che accade per una lingua, la visione è selezione e interpretazione. Il tema dello sguardo è presente nella mitologia hinduista, basti riferirsi ai molti occhi sparsi sul corpo di Brahmā e al terzo occhio di Śiva. La percezione dei colori è sia funzione di una appartenenza sociale e culturale sia una sensibilità individuale, è un prodotto dell’educazione connesso alla storia personale di ogni individuo: «Ogni gruppo umano ordina simbolicamente il mondo che lo circonda, a cominciare dalla percezione degli oggetti e dalle loro caratteristiche cromatiche» (Le Breton 2006: 83).

    Il pensiero «si materializza» nel suono, cioè nella parola, sua principale forma di espressione, l’udito è il depositario del linguaggio. Il senso si incarna anzitutto in una parola rivolta a un altro. Con la sola eccezione del linguaggio dei segni, le lingue hanno come materia prima il suono (Le Breton 2006: 104). L’udito consolida il legame sociale perché ode la voce umana e la parola dell’altro. Anche i bambini sordi partecipano indirettamente a un mondo tenuto insieme dalla voce (Ong 1970: 160), l’esistenza si costruisce con il permanere dei suoni. L’udito è il senso dell’interiorità e il rumore è un genere di inquinamento che dipende dalle valutazioni personali. L’animalizzazione dell’altro si fonda sull’aspetto, sull’odore, sul contatto, sulle parole, sulla voce, sulla musica, che sono considerati degradanti perché non corrispondenti ai propri paradigmi culturali, in genere quelli dell’Occidente, i soli che possano indicare i gradi di civiltà. Gli esempi storici sono innumerevoli e anche recenti, così come gli scritti. Una sola esemplificazione tra le tante possibili, scelta perché riferisce di giudizi proposti dalla letteratura francese tra le due guerre mondiali. Se i neri parlano tutti assieme si ode solamente il concerto delle loro voci, che sembrano uscire da gozzi di scimmie, la musica africana è "sgradevole, rauca discordante, stridente, troppo lontana dai criteri occidentali (il mio corsivo vuole sottolineare l’implicito eurocentrismo), i suoni dei tamburi sono singhiozzi, borborigmi, le voci africane eruttazioni" e i canti producono urla demoniache di una folla di ossessi (Martinkus-Zemp 1975: 79). I suoni delle campane, le suonerie e i rintocchi dei grandi orologi hanno precise valenze culturali in molte civiltà, al di là e oltre le connotazioni religiose. In senso ampio, la musica ha rapporti ambivalenti e densi con la possessione e la trance, ma poiché questa trattazione non è oggetto di questo lavoro basti citare il pensiero di Gilbert Rouget (1986: 283), che a lungo ha studiato questo fenomeno. La trance e la possessione non sono indotte da particolari proprietà acustiche, i suoni delle percussioni introducono i riti per il loro senso; molte cerimonie che mettono in contatto uomini e dèi avvengono senza strumenti a percussione, il tamburo non è il solo strumento utilizzato, sonagli, campane, gong e violini e altri strumenti appartenenti a diverse culture possono essere usati per indurre la trance e la possessione. Nell’antica Grecia la mania era provocata da strumenti melodici. In molte culture la creazione del mondo avviene con una azione sonora: la Genesi, il Vangelo di Giovanni, la caverna cantante degli Eschimesi, la fessura nella roccia delle Upaniṣad, il Tao degli antichi cinesi, la nascita degli dèi egiziani dal suono, il mito estone che racconta di come le innumerevoli voci della natura abbiano avuto origine dal Dio del canto, la potenza del tuono che ha creato l’umanità per gli Aranda australiani, per i Samoidei e per i Koriaki dell’Asia e per popolazioni africane e americane, i molti miti di creazione che si fondano sulla parola o sul suono come istanza primordiale sono testimonianze di questa filosofia.

    In un preciso approccio prossemico, il tatto si rivolge all’intero corpo dell’uomo, è il senso della prossimità, la pelle è il principale organo di comunicazione. Nonostante i filosofi, spesso, assegnino al tatto un ruolo di secondo piano in potenza ha una notevole intensità. È fisico e semantico e la pelle è rivestita di significati. Il vocabolario del tatto "predilige metamorfizzare la percezione e la qualità del contatto con l’altro, oltrepassando il mero riferimento tattile per esprimere il significato dell’interazione" (Le Breton 2006: 223).

    Per Aristotele l’olfatto è un senso poco raffinato, per Kant è il senso animale, nel 1878 Paul Broca, fondatore nel 1859 della Société d’anthropologie di Parigi, lo definisce senso brutale che predomina nel bruto (Dias 2004: 40 e 50). L’odore si diffonde nello spazio e non è racchiuso nelle cose come il gusto, connota una atmosfera, è un senso della transizione (Howes 1991) e conferisce una particolare tonalità al rapporto con il mondo. I giudizi sugli odori sono connessi a circostanze specifiche e la relatività simbolica di quello che si percepisce è talvolta dipendente dai sessi. Nelle lingue occidentali, il linguaggio olfattivo è povero e dipende da giudizi di valore, le sue variabilità semantiche sono quasi inconsistenti, a differenza di quanto accade in culture non occidentali, nelle quali la pregnanza degli odori è una precisa prerogativa culturale. Mentre la vista, l’udito, il tatto e il gusto sono elementi della memoria, l’odore, indipendentemente dai contesti, possiede una potente forza evocativa. In alcune popolazioni l’odore è un elemento strutturante nella costruzione culturale della società. Ogni uomo ha un odore che lo caratterizza e che «costruisce» i suoi rapporti con gli altri. Come icasticamente rende palese Michel de Montaigne (1970: 407), un uomo o una donna possono lasciare loro tracce su un tessuto o un fazzoletto:

    È straordinario come qualsiasi odore mi si attacchi, e come io abbia la pelle atta a impregnarsene. Colui che si lamenta della natura, perché ha lasciato l’uomo senza uno strumento per portare gli odori al naso, ha torto; infatti essi vi arrivano da soli. Ma per quanto riguarda me personalmente sono i baffi, che ho folti, che mi servono a questo. Se vi avvicino i guanti o il fazzoletto, l’odore vi rimarrà per tutto il giorno. Essi rivelano il luogo da cui vengo. Gli intensi baci della giovinezza, saporosi, golosi e tenaci, vi si attaccavano un tempo, e vi rimanevano poi per parecchie ore.

    L’odore è un pensiero immediato del mondo, è un marcatore morale, negli scambi amorosi è un fattore determinante nel congiungersi dei corpi, la purezza, la santità o l’armonia sono simboleggiate da un odore gradevole, soave, il male, il sudiciume, la mancanza di purezza e il disordine emanano odori putridi e repellenti (Le Breton 2006: 302). È un fattore discriminante, è decisivo nell’avvicinarsi all’altro, sia nell’accoglierlo che nel respingerlo.

    Nel cibo e nella sua degustazione sono presenti tutti i sensi ad eccezione dell’udito, perché un cibo lo si guarda prima di assaggiarlo e lo si odora, lo si può toccare per mangiarlo e infine lo si gusta. Il gusto è il senso della percezione dei sapori ed è tangibilmente influenzato dall’appartenenza culturale e sociale di chi gusta. Nella cultura ayurvedica indiana, il corpo umano si compone di cinque elementi (terra, acqua, fuoco, vento e vuoto) e i sei sapori nascono dalla combinazione con gli elementi e si radicano in questo simbolismo (nel sapore dolce si mescolano terra e acqua; nel sapore piccante si mescolano vento e fuoco; nel sapore amaro si mescolano vento e vuoto; nel sapore acido si mescolano terra e fuoco; nel sapore salato si mescolano acqua e fuoco; nel sapore astringente si mescolano vento e terra). La bocca gusta i cibi e il naso li odora. Il cibo ha una precisa valenza culturale, fornisce preziose informazioni su chi mangia osservando come, cosa e quando mangia¹. Tanizaki Junichiro (2000: 33-34 e 36) scrive che la cucina giapponese si guarda e si medita quando la si gusta:

    I servizi da tavola in porcellana non sono da buttar via. Tuttavia, chi tiene tra le mani una stoviglia di porcellana, la sente fredda e pesante. Temibile conduttrice del calore, è scomoda da maneggiare, se la si riempie di cibi caldi. Urtata, rintocca sinistramente. Al contrario, i servizi di legno laccato sono leggeri. Gradevoli al tatto, delicati, non rumorosi. […] Non è un caso che la minestra la si serva ancora nelle ciotole di legno laccato: esse hanno virtù che mancano a quelle di ceramica o di porcellana. […] Un’emozione così profonda, e intima, certo non può essere paragonata a ciò che si prova davanti a un brodo servito in un piatto di bianca porcellana occidentale. […] Nella penombra di una stanza disponete i blocchi dello yokan in un recipiente di legno laccato: il suo fascino misterioso aumenterà; il suo colore delicato e indefinibile si sposerà perfettamente con le tonalità della lacca. Sulla punta della lingua, il liscio, il compatto e il freddo dello yokan si combineranno armoniosamente, come se tutta la tenebra circostante si fosse fusa in un’unica massa. Già l’aspetto dello yokan è una preparazione alla sua problematica insipidezza, al suo sapore complicato e sfuggente.

    Le considerazioni estetiche sono rilevanti, la gradevolezza e la bellezza dei piatti possono essere condizioni importanti per il loro apprezzamento. Il verde, il colore del Profeta, è benefico, porta baraka e la tavola ebraica sefardita ne riprende il simbolismo: in occasione dello Shabbath è vietato l’uso del nero, e quindi le olive e gli alimenti anneriti dalla cottura sono esclusi dalle tavole del sabato e dai menu per le celebrazioni del nuovo anno e della Pasqua (Bahloul 1983: 117).

    L’interesse rivolto all’uomo dall’antropologia, in dialogo dialettico con neuroscienze e scienze cognitive, in un’epoca di globalizzazione economica e culturale, con una sempre più consapevole conoscenza del cervello umano, sembra vanificare la separazione tra antropologia e scienze sperimentali tendendo all’assoluta validità del risultato ricavato. L’esempio antropologico deve enuclearsi dal caso particolare e dal suo contesto, interrelandosi con le varie parti e con i diversi livelli di astrazione, dalla fenomenologia ai comportamenti quotidiani, ai sistemi di valore tradizionali e normativi. I dati antropologici, contrariamente alle scienze sperimentali, ovunque siano ricavati, devono essere riportati all’interno di quei paradigmi teorici e di quei protocolli di indagine che assicurano al ricercatore di poterli utilizzare nei propri termini. Da una parte il ‘terreno’, dall’altra il ‘laboratorio’ (Marazzi 2010: 88). Secondo Schaal (1998: 47 e 49), neuroscienziato, etnologo ed etologo, autore di ricerche sull’olfatto in animali e nel periodo infantile dell’uomo, non è possibile

    opporre i risultati derivati da procedure sperimentali e i dati empirici tratti dall’esperienza quotidiana. Ci si imbatte di frequente in una situazione nella quale le risposte evocate dagli odori nell’ambito di una ricerca in vitro predicono male o per nulla l’impatto di questi stessi odori nei comportamenti in vivo. Questa determinazione si fonda sulla considerazione che gli odori selezionati e i questionari usati nei laboratori sono definiti a priori senza tener conto della «loro pertinenza ecologica». […] la distanza tra il sistema di percezione e di rappresentazione dell’osservatore e quello dell’osservato è senza dubbio alla base dello scarto tra le conoscenze derivate dagli approcci sperimentali e quelle del vissuto comune.

    L’antropologia studia l’uomo nella sua condizione di essere nel mondo, l’esserci di Heidegger, il dasein, il suo vivere nel mondo, il muoversi del suo corpo, le sue relazioni con quanto lo circonda, il suo essere unitario corporeo e psichico, il suo vissuto nel mondo, il suo relazionarsi con gli altri, i suoi sistemi culturali. L’approccio antropologico fonde l’osservazione empirica con l’empatia, e l’attenzione che rivolge ai sensi tende a rilevare i contributi che essi offrono alla conoscenza del mondo e alla comunicazione tra gli uomini, con particolare attenzione alle interrelazioni dei differenti significati culturali e delle regole sociali nei diversi contesti.

    La conoscenza di tutte le zone cerebrali interessate all’elaborazione degli stimoli sensoriali e delle connesse attività cerebrali è ancora in nuce: se da una parte sono ricchissime le potenzialità che permettono di strutturare il nostro essere nel mondo, dall’altra limitazioni e vincoli ostacolano questa presa di coscienza di noi nel mondo. I limiti sono causati dalla limitatezza dei cinque organi di senso, secondo la classica divisione aristotelica, ai quali corrispondono cinque organi distinti, «porta stretta» della conoscenza. In tutte le società si riconosce il valore della conoscenza derivata dai sensi, ma al tempo stesso, invariabilmente, se ne condiziona in parte la portata con divieti, condanne, censure, perché i sensi pare possano rappresentare un pericolo per l’ordine sociale.

    La «descrizione densa», termine coniato da Ryle e utilizzato da Geertz, è uno dei principali strumenti dell’analisi sociale, rappresenta la principale attività quotidiana dell’etnologo, che intervista le persone, studia i rituali, analizza la vita familiare e scrive il suo diario. La descrizione si sviluppa dal molto esile al molto denso in un continuum di scambi culturali tra chi osserva e chi è osservato, è un veicolo di conoscenza. L’etnologo non può limitarsi alle descrizioni esili e superficiali, come lo scienziato deve formulare problemi, scegliere fenomeni (per l’etnologo, sociali e culturali), deve separare ciò che apparentemente è evidente da ciò che è apparentemente inspiegabile. Anche lo scienziato affronta una molteplicità di strutture complesse sovrapposte l’una all’altra, come risulta con evidenza nel brano che segue, esempio di «descrizione densa»:

    Keplero osserva il movimento retrogrado di Marte. Osserva i cambiamenti di posizione del pianeta in relazione a ciò che tradizione ed autorità gli hanno insegnato essere le stelle fisse nell’armonioso universo di Dio rivelato all’uomo nel «libro della natura», e pone a confronto ciò che vede con i propri calcoli, che egli sa essere corretti, visto che la logica è la logica, e che quei calcoli si basano su di essa. Se anche dal senso comune (perlomeno dal nuovo senso comune dal Seicento) c’è da aspettarsi che i corpi terrestri si comportino fondamentalmente nello stesso modo dei lontanissimi corpi celesti, ma integra questa conoscenza di senso comune (peraltro non condivisa da alcuni critici aristotelici di Keplero e di Galileo) con la sua teoria dell’ottica secondo la quale è ragionevole aspettarsi di veder cosa c’è lassù meglio con il telescopio che senza (Elkana 1981: 18).

    In questo passo sono presenti una molteplicità di complesse strutture concettuali sia del corpo del sapere (astronomia, logica della matematica, ottica), sia di ordine metodologico (ordine gerarchico delle strutture concettuali), sia di ordine epistemologico (interrelazioni tra le diverse scienze). Le fonti del sapere sono legittime o illegittime in una determinata cultura quando sono definite socialmente e non dipendono dalle diverse scienze. «Interpretazioni naturali» e «sensazioni» chiamano entrambe in causa delle concezioni intercollegate del mondo e della conoscenza (Feyerabend 1981). L’antropologia sostanzia un consapevole approccio ermeneutico, poiché passando continuamente dall’insieme concepito mediante le parti che lo fanno esistere alle parti concepite mediante l’insieme che dà loro un senso, e viceversa, cerchiamo, con una sorta di moto perpetuo intellettuale, di convogliare le due cose in una serie di spiegazioni reciproche (Geertz 1976: 235). Il sapere si sviluppa attraverso un incessante dialogo critico tra complessive concezioni del mondo tra loro in competizione oppure tra alternativi programmi di ricerca scientifica, nonostante questi ultimi siano spesso (troppo spesso) condizionati da ideologie, considerazioni politiche, pressioni sociali e religiose. Yehuda Elkana (1981: 25-30) propone otto strutture per classificare le immagini del sapere, nel senso di conoscenza, lógos: fonti del sapere (esperienza sensoriale, raziocinio, rivelazione, autorità, tradizione, analogia, competenza, originalità, novità, bellezza); legittimazione del sapere (ordine gerarchico); pubblico o audience del sapere (alcune immagini del sapere sono condivise da una intera cultura, da una intera comunità, da una disciplina, dal grande pubblico, da studiosi di altre discipline, solamente nell’ambito della disciplina, alcune immagini del sapere possiedono una importante validità intellettuale e sono interdisciplinari, mentre altre sono solamente disciplinari); continuum sacro-secolare (la dipendenza della legittimità del sapere dal posto che occupa in un struttura di riferimento teologica, anziché da una struttura concettuale scientifica, dipende da immagini che lo collocano in un continuum sacro-secolare; lo sviluppo storico del concetto di spazio può essere interpretato come il passaggio dalla concezione dello spazio come attributo di Dio, caratteristica di ambienti religiosi neoplatonici, al dibattito Newton-Leibniz sullo spazio come sensorium Dei, che permette di passare da una religione che ingloba la scienza a una scienza che comprende la teologia; l’enunciato la «conoscenza del mondo» diviene possibile se consideriamo il mondo come il grande sensorium di Dio e segna così il passaggio da una affermazione di carattere teologico a una affermazione di carattere secolare); continuum temporale (alcune immagini del sapere reggono per secoli, altre per decenni, altre solamente per pochi anni); grado di consapevolezza (alcune immagini del sapere sono influenti esclusivamente se pienamente articolate, altre lo sono indipendentemente dal grado di consapevolezza di chi le ha fatte proprie; l’efficacia dell’idea della rivelazione come fonte di conoscenza, in alternativa all’esperienza sensoriale, quando questa distinzione, anche se non invariabilmente, è possibile, presuppone la consapevolezza; la ricerca della complessità nella verità biologica può essere invece implicita); norme sociali di comportamento, valori o ideologie (questi indicatori possono essere indipendenti da certe immagini del sapere ed essere determinati da altre strutture); traducibilità in enunciati sulla natura (con il tempo certe metafisiche diventano immagini del sapere; ad esempio, verso il 1870, «l’energia in natura si conserva» era un enunciato sulla natura, dopo Poincaré è diventato un enunciato sulla conoscenza, una parte dell’epistemologia; sono le immagini del sapere che determinano se una cosa verrà considerata importante, interessante, apprezzabile, rischiosa, simmetrica, bella, assurda e armoniosa; nessuna di queste valutazioni può venire determinata nel corpo del sapere; lo sviluppo della teoria delle immagini del sapere è importante per la sociologia storica del sapere scientifico, le immagini del sapere sono la sociologia del sapere, così come la «descrizione densa»).

    Le immagini del sapere, gerarchicamente ordinate, mutano nel tempo e nello spazio, da una cultura all’altra, da una disciplina all’altra. La conoscenza ha molte fonti, un elenco parziale potrebbe essere il seguente: esperienza, evidenza sensoriale, idee chiare e distinte, tradizione, autorità, rivelazione, novità, bellezza, intuizione, analogia. Le diverse fonti del sapere sono ordinate gerarchicamente secondo l’importanza e la priorità.

    Non c’è nulla nella scienza, come del resto nella religione, che possa convincerci che, come fonte di conoscenza, la testimonianza dei sensi abbia un peso maggiore o minore di quella della rivelazione. È il nostro quadro concettuale, con le sue immagini, a dirci se dare il primato ai sensi o alla rivelazione, o a dirci che in campo scientifico occorre basarsi sui sensi, mentre in campo religioso ci si deve rivolgere alla rivelazione. In quest’ultimo caso e per coloro che riescono a sopportare questa distinzione è abbastanza facile affidarsi ai sensi in laboratorio e credere nei miracoli e nella rivelazione divina in chiesa, nella sinagoga o nella moschea; se, però, un conflitto diretto tra le due fonti mette a repentaglio la nostra vita o qualche altro valore fondamentale, allora subentrerà la crisi (Elkana 1981: 34).

    Nell’odierno dibattito culturale, antropologi, sociologi, storici e filosofi della scienza si sono chiesti se esista una differenza essenziale, in termini di contenuto e specialmente di logica e di formulazione, tra il modo di pensare delle società occidentali e quello delle società non occidentali. La domanda, evidentemente, per chi scrive, in una corretta visione antropologica, ha solamente un significato ipotetico perché non esiste alcuna differenza tra società tradizionali e moderne, pre-scientifiche e scientificamente orientate, alfabetizzate e non alfabetizzate, industriali e non industriali, avanzate e in via di sviluppo. Per quanto attiene il modo di pensare non è ipotizzabile alcuna differenza tra società occidentali moderne e società non occidentali tradizionali, nonostante esistano delle evidenti diversità importanti, che possono essere rese manifeste senza contraddire la tesi che non siano presenti diseguaglianze qualificanti. Nel suo classico saggio, Edward W. Said (1978: 7) afferma:

    Muovo dall’assunto che l’Oriente non sia un’entità naturale data, qualcosa che semplicemente cè, così come non lo è l’Occidente. Dobbiamo prendere molto sul serio l’osservazione di Vico che gli uomini sono gli artefici della loro storia, e che ciò che possono conoscere è quanto essi stessi hanno fatto, per trasportarla su un piano geografico: quali entità geografiche e culturali, oltre che storiche, «Oriente» e «Occidente» sono il prodotto delle energie materiali e intellettuali dell’uomo. Perciò, proprio come l’Occidente, l’Oriente è un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente. Le due entità geografiche si sostengono e in certa misura si rispecchiano vicendevolmente.

    Un problema di particolare interesse mi pare sia quello dell’interrogarsi in merito a una differenza tra il modo di pensare scientifico predominante in Occidente e i tipi di ragionamento fondamentali in altre società. Le tesi sono molteplici, alcuni sostengono l’esistenza di uno spartiacque tra il modo di pensare occidentale e quello di luoghi non occidentali, altri rifiutano una tesi così radicale, alcuni quando parlano di modi di pensare si riferiscono ai contenuti della conoscenza, altri privilegiano eventi mentali di secondo livello, per esempio le immagini del sapere. Personalmente ritengo che il modo di ragionare sia la risultante di diversi tratti particolari, che mutano con il trascorrere del tempo e sono funzioni della cultura. Tra le diverse caratteristiche del modo scientifico di pensare – razionalità, apertura, buon senso, secolarismo, creatività, originalità – privilegio quella che Robin Horton (1967) chiama «apertura» ossia la presenza del pensiero critico o di «secondo livello». Esistono capacità cognitive comuni a tutta la specie umana, ad esempio la capacità linguistica, l’elementare pensiero di buon senso, cioè la capacità di formulare giudizi sull’esperienza, la tendenza a spiegare ciò che accade in termini di eventi osservabili e non osservabili. Gli esseri umani nascono con strutture cognitive innate, altre emergono con la crescita, con gli appropriati stimoli esterni si sviluppa la capacità di parlare, altre strutture cognitive, qualora siano stimolate dall’esterno, realizzano la capacità di capire il mondo. A questo proposito il contributo di Claude Lévi-Strauss (1958: 77 e 78) è, a mio avviso, fondamentale:

    Siamo portati, infatti, a chiederci se diversi aspetti della vita sociale (compresa l’arte e la religione) – che sappiamo già di poter studiare valendoci anche di metodi e di concetti presi a prestito dalla linguistica – non consistano per caso in fenomeni in cui la natura si ricollega a quella stessa del linguaggio. Come verificare questa ipotesi? Che si limiti l’esame a una sola società o che lo si estenda a più società bisognerà spingere le analisi dei differenti aspetti della vita sociale abbastanza a fondo da cogliere un livello in cui diventerà possibile il passaggio da un ambito all’altro; ossia elaborare una specie di codice universale, capace di esprimere le proprietà comuni alle strutture specifiche desunte da ogni aspetto. L’impiego di questo codice dovrà essere legittimo, oltre che per ogni sistema preso isolatamente, per tutti i sistemi quando si tratterà di paragonarli. Si sarà così in grado di sapere se si è raggiunta la loro più profonda natura e se la loro realtà sia o no dello stesso tipo. Ci sia consentito, a questo punto, di procedere a un’esperienza orientata in questa direzione. L’antropologo, considerando i caratteri fondamentali di sistemi di parentela tipici di diverse regioni del mondo, può cercare di tradurli in una forma abbastanza generale da acquistare un senso, anche per il linguista; da indurre cioè quest’ultimo ad applicare lo stesso tipo di formalizzazione alla descrizione delle famiglie linguistiche corrispondenti alle stesse regioni. Una volta operata questa riduzione preliminare, il linguista e l’antropologo potranno chiedersi se differenti modalità di comunicazione – regole di parentela e di matrimonio da un lato, linguaggio dall’altro – tali che siano osservabili nella medesima società possano o no essere connesse a strutture inconsce similari. Nel caso affermativo saremmo certi di essere giunti a una espressione davvero fondamentale.

    È una caratteristica universale del pensiero umano quella di tendere a collegare tra loro gli eventi osservati riferendoli a entità teoriche definite. La scienza occidentale privilegia la creazione di nuove esperienze partendo dall’invenzione di entità teoriche aggiuntive rispetto all’osservazione di senso comune (ad esempio, le geometrie non euclidee); il pensiero tradizionale postula entità spirituali anche quando non vi siano necessità immediate connesse alla vita quotidiana. Considerando la scienza occidentale e il pensiero tradizionale risulta evidente che nel primo non esistono caratteristiche fondamentali che non siano presenti anche nel secondo. Esistono differenze, certo, ma si tratta di dissomiglianze relative e quantitative e non assolute e qualitative. Per fare un esempio, nel pensiero occidentale la religione, la filosofia e la scienza sono, entro certi limiti, autonome per pratiche e regole di pensiero, mentre nel pensiero tradizionale queste tre strutture sono strettamente intrecciate. In entrambi i sistemi l’esigenza di semplicità, ordine e regolarità è controbilanciata dall’esigenza della complessità e di significati nascosti in entrambi i sistemi; tuttavia in quelli tradizionali le spiegazioni teoriche si fondano direttamente sull’esperienza quotidiana di senso comune. La scienza occidentale tende alla spersonalizzazione (Horton 1976).

    Gli studi antropologici hanno apoditticamente dimostrato che sul piano epistemologico, nonostante ogni popolo ha un proprio linguaggio di profondità, esiste una differenza tra le forme elaborate dalle culture studiate e quella grezza della cultura che ci è familiare (Geertz 1972). Il senso comune non è una conoscenza non sistematica, nella cultura occidentale può definirsi una conoscenza meno sistematica della scienza. Tra i due princìpi non esiste una netta separazione, perché il senso comune è un corpo relativamente organizzato di pensieri consapevoli, caratterizzato dal fatto di disconoscere tale organizzazione, […] la religione si fonda sulla rivelazione, la scienza sul metodo, l’ideologia sulla passione morale, […] il senso comune si fonda sull’asserto di non aver nulla su cui fondarsi (Geertz 1972). Il senso comune è conoscenza, sapere afferente il mondo, il mondo della natura, della società, degli individui.

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