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Toccare
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E-book108 pagine1 ora

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Il senso del tatto ha, nella filosofia, un ruolo piuttosto marginale. Così come il corpo, cui i filosofi hanno generalmente riservato scarsa considerazione speculativa. Invece il corpo è il formidabile dispositivo di riconoscimento che si serve primariamente del tatto per entrare in relazione con il mondo e a partire dal quale tutto il conoscere, e quindi il vivere, ha inizio. Così imparare a toccare significa imparare a stare al mondo. Articolato in cinque parti (come le cinque dita) e un rintocco finale (un’autorecensione, un ritoccarsi), questo libro affronta la questione del toccare in vari modi: una collocazione del senso del tatto nella storia della filosofia con un’indagine di natura estetica; una fenomenologia del tatto a partire dai suoi mezzi principali (la pelle, tatto passivo; la mano, tatto attivo; il gesto, tatto visivo); osservazioni sul contatto socio-tecnologico; una antropologia del toccare; infine una metafisica del tocco come manifestazione dell’essere in movimento che ha inevitabili risvolti etici.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita18 nov 2020
ISBN9788816802537
Toccare
Autore

Federico Capitoni

Scrittore, drammaturgo e scultore. Scrive per «la Repubblica» e collabora con RadioRai. Insegna Storia ed estetica musicale al Conservatorio; è organizzatore e animatore di pratiche filosofiche collettive. Per il teatro è autore della «soup opera» A Veggy’s Opera, serie lirica comica a episodi.

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    Anteprima del libro

    Toccare - Federico Capitoni

    1

    PICCOLA STORIA FILOSOFICA DEL TATTO. A TENTONI

    Nella Flatlandia, la terra fantastica immaginata da Edwin Abbott Abbott alla fine del 1800, ove tutto è piatto e non esiste la terza dimensione, le figure geometriche che la abitano devono toccarsi per riconoscersi. Apparendo ognuna, alla vista, come una linea retta, l’operazione del «tastare» si rivela il mezzo più efficace per capire se si è intercettato un triangolo, un quadrato o un poligono dai lati più numerosi. Anche l’udito gioca un suo ruolo: permette di riconoscere le caste poligonali (il genere) con minore precisione, ma funziona bene come principio di individuazione per indovinare le singole persone, cioè le figure particolari (ognuno ha la sua propria voce). Ma nella Flatlandia, sebbene molto affidabile nell’accertare la forma, il tatto non è infallibile, soprattutto nell’identificare con esattezza i poligoni con molti lati – considerando che li deduce a partire da un angolo, essendo sconveniente tastare la figura per tutto il suo perimetro (cioè contando) – e nel rilevare le dimensioni. È qui che arriva in soccorso la vista, che lavorando a distanza consente di far ricorso alla misura e mettere in relazione le lunghezze mostrandosi più precisa nel rispondere delle grandezze. E tuttavia, anche quanto captato con la vista andrebbe poi verificato tattilmente. Quello della vista però, in un mondo a due sole dimensioni, è un senso che va allenato, essendo meno immediato dell’approccio tattile, e appartiene quindi a una classe di abilità superiori che non tutti possono esercitare. Tant’è che nelle caste più elevate viene assunto a unico degno mezzo di riconoscimento («mirabile esercizio per l’intelletto»), poiché alle persone maggiormente altolocate «non sta bene chiedere di lasciarsi tastare» per capire chi sono.

    Una tale classificazione dei sensi, con le loro caratteristiche e i relativi vantaggi, ha caratterizzato la storia della filosofia almeno fino all’epoca del positivismo. I tre sensi ritenuti attori principali nella partita della conoscenza (tatto, udito e vista) sono sempre stati oggetto di una valutazione teoretica dai filosofi, così da trovarsi quasi in gara tra loro.

    Ora, è evidente tanto per l’uomo moderno quanto per quello antico che il tatto sia il senso dei sensi. Il Senso. E non solo perché passa attraverso la pelle, che ricopre la totalità del corpo umano (il tatto è «quel senso che è diffuso in tutto il corpo», dice Agostino nelle Confessioni), e particolarmente tramite la mano, che è il nostro arto più sensibile ed efficace; non solo perché anche gli altri sensi sono – a pensarci bene – forme più evolute (o più particolareggiate) di tatto. Ma per il semplice fatto che senza tatto non potremmo stare al mondo; non sentiremmo cioè la terra sotto i piedi, né l’aria sul nostro corpo, non ci percepiremmo come esseri viventi… Il tatto è il senso della nostra esistenza. Il senso della vita (anche perché quello che trionfa nel sesso, e nel quale il sesso trionfa).

    Tuttavia non per tutti i pensatori questa caratteristica essenziale è bastata per eleggere il tatto a re dei sensi, considerato anche il fatto che, essendo il dispositivo sensorio inteso come più corporale e primitivo, avesse poco a che fare con la conoscenza: l’idea metafisica della fallibilità delle sensazioni nel raggiungimento della verità (concezione ribaltata da sensisti ed empiristi) correrà spesso parallelamente a un pensiero che guarda al corpo con sospetto quando non mostrando per esso paura e disprezzo. Nell’iconografia cristiana il patimento del corpo è evidente (piaghe, uomini trafitti, petti aperti a scoprire il cuore vivo): diventa incarnazione di punizione e sacrificio.

    Il corpo è sempre stato scomodo affaire per mistici e filosofi, per i religiosi come per gli intellettuali: la cura dello spirito e della mente mal si conciliava con l’attenzione all’aspetto e al piacere fisici. Adorno e Horkheimer condanneranno la dedizione al corpo come indizio di indebolimento dell’intelletto (le conseguenze culturali di questa posizione sono ancora evidenti oggi nella figura dell’intellettuale che svaluta – e invece sottovaluta – l’aspetto, la cura e l’allenamento fisici). Ben più spirituale era la «vergogna del corpo» di Plotino, il quale vedeva nelle membra una trappola per l’anima, aggravata da una spoglia pesante che ne impediva l’innalzamento. Nel considerare però il corpo come un elemento illusorio di separazione dal cosmo e che dota quindi l’individuo della percezione concreta di una singolarità che lo divide dagli altri rendendolo egoisticamente autosufficiente, Plotino inaspettatamente custodisce la speranza che l’uomo impari a toccare il resto del mondo, cioè a eccedere il proprio corpo, a sconfinarlo, seppur con mezzi spirituali: ricordarsi di essere un’unica anima è il corrispettivo trascendentale di un pensiero che riconosce il mondo e gli esseri umani come un corpo solo.

    Il corpo umano è il corpo dell’intera umanità.

    È all’interno di un pensiero etico-politico che il piacere corporale è stato riabilitato da alcuni – pochi – pensatori (Spinoza e Foucault, per esempio). Scarsi i filosofi che si sono, propriamente, sporcati le mani.

    Prima ancora dei rapporti con l’altro, avere – anche da soli – una buona coscienza del proprio corpo ha una valenza estetica e politica: la frustrazione data dall’incapacità o dall’impossibilità di provare piacere influisce sui comportamenti. Questo è un indirizzo somaestetico sdoganato solo di recente, nel ’900, anche grazie all’intervento della psicologia moderna nella speculazione filosofica (teorie delle emozioni, filosofie dell’amore ecc.) e in una discesa degli intellettuali nel concreto mondo dell’attualità attraverso un’osservazione sociale e antropologica che spesso l’elucubrazione solipsistica aveva volentieri lasciato da parte. Invece siamo corpi, di sicuro agenti; per alcuni, pensanti: il corpo è saggio e ne sa più di noi, sosteneva Nietzsche anticipando il ribaltamento di una dominante teoria somatica dualista che voleva la mente sovrintendere le funzioni corporali.

    Già, la mente, che nell’immaginario comune prende corpo attraverso il cervello, i cui organi di senso più prossimi sono stati considerati per lungo tempo gli occhi (e che dire allora della cute del capo?), quasi come proiettori dei contenuti mentali e – al contempo – portali di introiezione delle informazioni: «Lo so perché l’ho visto», si usa dire. L’associazione tra sapere e visione (nell’immaginario comune la cultura usa gli occhi della lettura per accrescersi) è storicamente dominante, ma l’ambito in cui si edificano le classifiche è originariamente etico. Le graduatorie dei sensi hanno origini antiche, e sovente il tatto, assieme al gusto e all’olfatto, è stato inteso connesso al lato meno nobile della corporeità, quello degli istinti carnali, quindi posto più in basso di vista e udito, i quali pure sono strumenti di godimento ma più puri, minormente compromessi. Tra i sensi meno morali, il tatto era associato all’elemento terra, necessario quanto basso e pesante, nella cosmografia ideale della simbologia. Dunque, inizialmente la classificazione non ha a che vedere tanto con la conoscenza (tutti i sensi sono mezzi per conoscere, ancorché in maniera elementare, secondo Platone per esempio) ma con uno dei più prosaici aspetti della moralità: il contatto diretto con la pelle e le mucose. Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, riprende pressappoco questa prospettiva dicendo che vista e udito sono i sensi atti alla conoscenza, il tatto della sopravvivenza.

    Per Platone (lo dice nel Timeo) il tatto non figura tra le funzioni sensoriali del corpo (vista, udito, gusto e olfatto) perché in realtà le comprende interamente, esprimendosi i sensi tutti attraverso il tocco: gli stimoli toccano gli organi di senso (occhi, orecchie, bocca e naso) che dunque sentono. Una concezione plurale del tatto è sostenuta da molti nell’antichità ed espressa dalla gran parte dei filosofi naturalisti. Lucrezio, nel De rerum natura, non esita a dichiarare che il tatto è «il senso principale del corpo», e non solo al suo esterno,

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