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Crisalide
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E-book211 pagine2 ore

Crisalide

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Info su questo ebook

Crisalide è un romanzo sul come il trascorrere del tempo segna e solca i rapporti fra genitori e figli, su come il sedimento dei giorni e degli anni schiacci qualsiasi rapporto e assottiglia ogni certezza. È un romanzo che sonda l'ingiustizia del posto di lavoro a tutti i costi anche se pericoloso, ma soprattutto è un romanzo nato dal dilemma sul significato del perdono: Crisalide è lei, Liliana, miracolo di bellezza ma ignara di quanto questa sua luce possa rischiare di abbagliare e spaventare.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2023
ISBN9791221488531
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    Anteprima del libro

    Crisalide - Donato Corvaglia

    Segni di miglioramento

    Liliana era seduta alla sua panchina e, quando fui da lei, l’infermiere si allontanò. Il sole era alto e una fresca brezza soffiava da nord; il grande olmo che la osservava dall’alto le faceva ombra e le folte chiome era come se la stessero abbracciando. Le sedetti accanto e le presi la mano.

    «Eccomi, Liliana» dissi.

    Lei si voltò a guardarmi e poi, senza dire niente, riprese a fissare un punto davanti a sé.

    «Come ti senti oggi?» chiesi.

    Dopo una manciata di secondi, come se la mia voce le fosse giunta da lontano, mi fece un breve cenno di assenso e poi disse: «Bene».

    «Sono contento, oggi è proprio una bella giornata, vero, Liliana?»

    Alzai lievemente il viso per incontrare faccia a faccia il sole e godermi tutto il tepore possibile.

    Restammo in silenzio così per un tempo che non saprei definire, poi le lasciai la mano, le carezzai i capelli e mi avviai dentro.

    «Buongiorno, dottore» dissi entrando nell’ufficio. Era il direttore generale e anche il proprietario di tutta la struttura. Doveva avere all’incirca la mia età. La luce intensa era quasi completamente filtrata dalle persiane socchiuse.

    «Signor Bozzi, prego, entri, si accomodi pure e mi dica, come ha trovato Liliana?

    «Ha detto di sentirsi bene, gliel’ho chiesto appena sono arrivato.»

    «Bene, mi fa piacere; abbiamo notato alcuni segni di miglioramento, su questo non abbiamo dubbi. La strada è ancora lunga ma abbiamo imboccato la direzione giusta. Che ne pensa, signor Bozzi?»

    «Penso che i dottori siete voi.»

    «Bene, bene, certo questo è chiaro! Liliana ha bisogno delle giuste cure, su questo non v’è dubbio, ma siamo sulla strada maestra.»

    «Domenica prossima sarà il suo compleanno, vorrei poterla portare a casa, la riporterei in clinica lunedì.»

    «Ah, molto bene, e quanti anni compirà la nostra Liliana?»

    «Trenta.»

    «Bene, bene. Ma certo, signor Bozzi, venga pure a prenderla domenica mattina, certo.»

    «Perfetto, la ringrazio.»

    «Ah, signor Bozzi, avevo una nota della segretaria, mi stava per sfuggire, mi chiede di passare dall’amministrazione, le è possibile?»

    «Lunedì, quando la riaccompagnerò in clinica, va bene?»

    «Certo, signor Bozzi, lunedì andrà bene.»

    Sapevo già cosa voleva la segretaria, avevo due o forse tre mensilità arretrate e dovevo saldare gli arretrati, il che non avrebbe dovuto rappresentare un problema troppo grosso, ma chissà perché, quando si tratta di dovere del denaro a chi ne ha già tanto sembra sempre ingiusto, specie se ad essere in debito è una persona che di quattrini non ne ha, o quasi. Lui aveva la clinica, un’eredità della madre mi pareva d’aver sentito, il Rolex ad ogni incontro diverso e un atteggiamento da spocchioso del cazzo.

    Fatto sta che me ne uscivo dalla sua stanza sempre un po’ frastornato. Ma da quando era in cura presso di loro Liliana stava meglio, e questa era la cosa più importante per me.

    Sul compleanno di Liliana e di ricordi in una scatola

    In cucina c’era odore di caffè. Liliana guardava dalla finestra giù in Piazza Libertà, era uno dei suoi passatempi preferiti, quando era a casa.

    Si compiono 30 anni una sola volta, su questo non c’è dubbio; ho provato a scavare nella memoria, ma a essere sincero non ricordo esattamente come trascorsi il mio.

    All’epoca Liliana era una bambina vivace. Sarà stato un giorno feriale qualsiasi, dopo il lavoro avrò offerto qualche birra al bar di Piero e poi a casa. Credo sia andata così.

    Avevo messo su la moka perché Aldo e Beatrice avevano promesso che sarebbero scesi di lì a poco, poi presi la torta dal frigo e misi una mano sulla spalla di Liliana che si voltò.

    «Liliana, siediti, papà ha preso la torta» dissi indicandole la sedia.

    Suonarono alla porta, Liliana fece per aggiustarsi il collo della camicetta, non l’aveva fatto per una ragione precisa, era stato più un gesto a sé stante, come era solita fare da quando accadde il fatto.

    «Aldo, Beatrice, siamo in cucina.»

    «Oh, ma buongiorno alla Liliana e tanti auguri!» esclamò Aldo.

    «Auguri alla nostra Liliana» gli fece eco Beatrice, che accennò anche un piccolo applauso.

    Liliana si toccò i capelli neri, se ne portò una ciocca dietro l’orecchio, fissava la tovaglia.

    Senza accorgermene mi ritrovai a pensare a Cecilia e la rimpiansi, avrebbe saputo togliersi d'impaccio con naturalezza, lei sapeva sempre cosa dire, per me invece è sempre stato difficile trovare le parole giuste, ma sentivo di dover proteggere Liliana e distogliere l’attenzione del buon Aldo e di Beatrice, così feci uno scatto di reni, come un centometrista al fotofinish, e pronunciai la domanda del secolo:

    «Stanno potando gli alberi qui giù in piazzetta, da quando non lo facevano?»

    Che domanda assurda, ma Aldo sembrò piuttosto sollevato da quell’assist e convenne che non aveva memoria dell’ultima volta; seguì una risata un po’ amara che sapeva di sollievo. Liliana fissava ancora la tovaglia.

    Versai il caffè nelle tazzine della portata buona, quella che Cecilia teneva nella credenza per le occasioni speciali, e un’aranciata per la festeggiata.

    Bevemmo. Anche Liliana portò alla bocca il suo bicchiere.

    Non ero mai stato bravo con le parole o con i discorsi. Liliana invece aveva preso da Cecilia, la sera a tavola erano una cascata di parole, e io, dopo una giornata di fabbrica in piedi davanti a quei dannati macchinari, me le godevo. Ah, se me le godevo.

    «Ho sentito che stanno per finire i lavori del primo lotto, lì giù» intervenne Beatrice, come se avesse chiamato il numero della cinquina dal bussolotto della tombola.

    «Già, ho sentito anch’io» replicai.

    «Ve la ricordate la nevicata del ’90?» si inserì Aldo.

    Era difficile che in un gruppo di due o più persone pensionate, quali appunto eravamo noi, non si toccasse l’argomento cementifero. «Sei chili di amianto puro ci hanno fatto respirare, quei disgraziati.»

    «Otto, se proprio vogliamo essere precisi» puntualizzai, «e non dimenticate che la notizia era solo a pagina diciotto del Gazzettino locale, a pagina diciotto!, conservo ancora quel giornale anche se Cecilia mi ha ripetuto chissà quante volte di buttarlo via, che a guardarlo non ne ricavi niente, diceva».

    «Luigino, lo sai bene che qui a Gromi abbiamo fatto di tutto per non vedere», mi fece eco Beatrice.

    «Sì, possiamo dire che ci siamo venduti l’anima, ma chi sapeva che l’amianto fosse come veleno per la salute erano loro, noi avevamo il mutuo da pagare e figli da crescere, testa bassa e lavorare!».

    A quelle mie parole seguirono alcuni secondi di silenzio.

    Poi Beatrice continuò: «Ve lo ricordate il Guelfi? Povero sciagurato mandato a buttare acqua alla polvere d'amianto sui binari, per non farne alzare troppa quando passavano i treni a tutta velocità, che fine avrà fatto? Non lo vedo da anni».

    «Non è più a Gromi, è da tempo che si è trasferito dalla figlia a Novara, aveva problemi di salute, come tutti gli altri, e pensare che quando abbiamo cominciato a lavorare alla FiGromit, credevamo di avere un lavoro stabile e sicuro. Invece...».

    Aldo annuì, le sue rughe si accentuavano come il suo rammarico: «Eh, a quei tempi non sapevamo nulla delle conseguenze dell'amianto sulla salute. Ci dicevano che era un materiale miracoloso, resistente al fuoco, all'acqua, agli insetti e a che diavolo altro? E nessuno parlava dei pericoli, delle malattie che avremmo potuto contrarre».

    Beatrice sospirò e aggiunse: «Eppure, quanti bei momenti abbiamo passato insieme, in quegli anni. Le feste aziendali, i pranzi con i colleghi... Ora tutto sembra così lontano e sbiadito. E la maggior parte di quei volti non li vediamo più, alcuni per scelta, altri a causa di quella maledetta fibra».

    «È vero, Beatrice», dissi «Ci siamo sacrificati per un lavoro che ci ha tolto la salute, e a volte anche la vita. La nostra generazione è stata ingannata, e ora dobbiamo pagarne il prezzo e per quello che abbiamo passato noi».

    Aldo alzò il bicchiere in un brindisi amaro: «che la memoria di quello che abbiamo passato non vada persa, così che non si ripetano gli stessi errori»

    Mi misi a sfaccendare in cucina che era già quasi ora di cena, il bicchiere d’aranciata di Liliana era vuoto come vuota era la piazzetta a cui il condominio si affacciava, a parte qualche passante che affrettava il passo per rientrare a casa.

    Liliana guardava fuori. Passai la spugna sulla tovaglia di plastica per lavare via briciole e nostalgia. Cosa avrei mai potuto fare di più? Avevo il mutuo da pagare e i ritmi in fabbrica erano sempre serrati, tempo di pensare ce n’era sempre stato poco, pensai fra me e me per continuare mentalmente la chiacchierata con Aldo e Beatrice, come a volermi giustificare.

    Vicino al bicchiere lasciai le pillole per Liliana, che mandò giù prima di iniziare a mangiare. Quando fu ora di andare a dormire glielo dissi ed eseguì il comando senza batter ciglio, si alzò silenziosa e sparì nel corridoio.

    Pensai al tempo, a come era stato impassibile e villano: senza neanche avvisarmi aveva trasformato la mia bambina in una donna trentenne.

    Mi venne un groppo in gola e mi ritrovai a rovistare nel ripostiglio come un ladruncolo da quattro soldi che cerca di sbrigarsi prima di essere scoperto, solo che sapevo che non sarei stato scoperto, era da me stesso che dovevo proteggermi.

    Abbiamo sempre un po’ timore dei ripostigli, ci mettiamo oggetti che vogliamo tenere, ma che in realtà vogliamo tenere lontane dalla vista e dalla vita di tutti i giorni, per paura che possano riprendere il loro posto nel presente e alterarlo.

    Lì, sotto gli album e vecchie bambole, c’era la scatola. Quella scatola che ho sempre guardato con un misto di timore e angoscia.

    Ricordavo ancora il giorno in cui l’avevano portata a casa, era finita direttamente nel ripostiglio e lì ci era rimasta per anni. C’era ancora la lettera di vettura nella tasca di plastica trasparente e il nome del corriere, era tutto perfettamente intatto, come se non fosse passato nemmeno un giorno; erano state le nostre vite ad essersi consumate, intanto. Decisi di aprirla. Presi il taglierino, lo poggiai dove il nastro univa le due ante di chiusura; stavo per praticare l’incisione per il taglio e mi sentivo un chirurgo improvvisato nell’atto di estrarre la pallottola dal petto di un ferito. Sudavo freddo e sapevo che per ogni minima incertezza il paziente poteva lasciarci la pelle, il paziente in questo caso, però, ero io.

    Il nastro si tagliò come burro, le ante si aprirono di scatto come se non stessero aspettando altro, come se avessero accumulato rancore dopo tanti anni di chiusura forzata; era la pressione degli oggetti all’interno che spingeva le ante a spalancarsi, erano i ricordi che non vedevano l’ora di uscire dalla segregazione e dirmi qualcosa, e dovevano farlo in fretta.

    Trascinai la scatola in cucina, presi la bottiglia di vino, mi sedetti e iniziai a riporre sul tavolo uno per uno quegli oggetti che dieci anni prima erano appartenuti a un’altra Liliana.

    Di cosa ci trovai lì dentro e come mi sconvolse la vita sarà questa storia a raccontarlo.

    Bologna, 10 anni prima

    Quel venerdì mattina la stazione era affollatissima. A Bologna io e Cecilia non c’eravamo mai stati, l’appuntamento per prendere possesso della stanza era alle 11.00 e Liliana non stava più nella pelle.

    Aveva raccolto i suoi lunghi capelli neri in una coda, così gli occhiali da sole le risaltavano ancora di più su quel suo viso bianco.La valigia pesante la portavo io, lei aveva lo zaino e Cecilia portava le raccomandazioni e i consigli.

    Stavamo per lasciare la nostra bambina nelle braccia di Bologna, Cecilia amava Lucio Dalla e Liliana pure, in più di un’occasione quel giorno le udii intonare qualche ritornello dei più famosi.

    Andavamo a piedi e i portici aiutavano l’acustica: lì sotto riuscivo a sentire le loro voci distintamente.

    "Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po'

    E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò."

    Io arrancavo un po’ e le seguivo a qualche metro, il cielo era azzurro e perfettamente sgombro.

    Forse furono gli antichi e nobili palazzi bolognesi che ostruivano la visuale a non farmi scorgere le nubi nere che dall’orizzonte avrebbero preparato una tempesta. Perfetta.

    L’edificio signorile che era dimora dell’Accademia Nazionale del Cinema faceva bella mostra di sé e sovrastava la piazzetta antistante, dove il groviglio di bici posteggiate disordinatamente sembravano capelli scompigliati di un'adolescente in piena crisi ormonale.

    Dopo aver finalizzato l’iscrizione, andammo a vedere la stanza dove Liliana avrebbe vissuto la sua nuova vita e da dove avrebbe inseguito il suo sogno di fare Cinema.

    Il proprietario di casa ci aspettava giù in strada, e appena compreso che si trattava di lui, Liliana accelerò il passo per essere la prima e stese la sua mano aperta in segno di cordialità; lui ricambiò ma con più incertezza, poi fu il turno di Cecilia e infine il mio.

    Salimmo al secondo piano per delle scale strette e scomode, la palazzina era nel centro storico di Bologna e di per sé questo sembrava conferirle un che di autorevolezza, a prescindere.

    L’appartamento era dotato del minimo sindacale: due camere da letto, bagno, cucina. Le finestre erano piccole e la luce poca, nell’aria aleggiava puzzo d’umidità.

    «È da un po’ che non salgo ad aprire le finestre» fece il proprietario, come se mi avesse letto nel pensiero. Cecilia chiese dove Liliana avrebbe potuto stendere la biancheria, visto che non c’erano balconi e non esisteva la possibilità di salire su in terrazza.

    «A trecento metri c’è una lavanderia aperta h24» rispose secco il locatore.

    Cecilia arrossì, domandandosi quale sorta di stupidaggine avesse mai detto.

    «Fortuna che non siamo venuti di sera, altrimenti avremmo dovuto portarci le candele.»

    Ritenni opportuna la stilettata, giusto per riequilibrare i valori in campo.

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