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I Giunghi. Lo Scirocco. Il Ghibli.
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E-book529 pagine7 ore

I Giunghi. Lo Scirocco. Il Ghibli.

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Info su questo ebook

Il viaggio in mare segna l’inizio di molte storie di emigrazione. Tra la fine dell’800 e gli anni ’70 del XX secolo milioni di italiani attraversarono il mar Mediterraneo alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Questo fu anche il destino di molti siciliani, il vivere di stenti li mosse verso lidi lontani. 
Questa storia la racconta Giuseppe Rallo con il suo splendido libro “I Giunchi. Lo Scirocco. Il Ghibli.”. La sua grande famiglia, le sue origini tra le pagine di un libro. I loro umori, le paure, le angosce e le gioie sapientemente descritte e ben analizzate.
Apre la vicenda Giacomo Rallo, Comandante di Vascello e commerciante di vini dell’isola di Favignana: intraprendente e pieno di idee innovative, getta le basi di tutto il vissuto di quattro generazioni. Si rievoca la storia di ogni gruppo famigliare e il senso di condivisione e solidarietà che li unì durante quegli anni. Nella Libia vedono la salvezza: essendo una colonia italiana, offriva i presupposti per avere una vita più agiata e soddisfacente, complice il mar Mediterraneo, testimone muto di tante lacrime e speranze. Sfogliando le pagine del testo, i profumi, le musiche e il vento, arrivano ai sensi e acuiscono le emozioni. Arriva anche la loro disperazione, l’abbandono di una terra che amavano immensamente. Ma la famiglia Rallo non si lascia abbattere, ognuno di loro troverà il modo per ricostruire la propria vita, pur avendo nel cuore quel pezzo di Africa che ancora oggi continua a sanguinare.

Giuseppe Rallo (Tripoli 1957). Medico legale. Professore aggregato presso l’Università di Roma “Sapienza”. Sin da ragazzo ha mostrato una particolare predisposizione per l’arte, per la letteratura ed in genere una spiccata sensibilità per l’ambito letterario. Ha sempre coltivato la sua attitudine artistica e soprattutto il suo amore per la storia con la lettura di centinaia di libri, saggi collezionati e raccolti nella sua biblioteca personale.
Ha curato l’organizzazione di un convegno per il Rotary International presso il Bernini Bristol, a Roma, tenendo una lezione magistrale sulla Memoria degli Italiani di Libia: Emigranti e profughi. 
Ha curato l’organizzazione di un convegno per l’Accademia della Cucina Italiana: “A tavola con la storia: percorso gastronomico e culturale del tonno dalla civiltà del Mediterraneo a Favignana, regina delle tonnare”.
È autore di molte pubblicazioni in ambito scientifico.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2021
ISBN9788830653658
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    Anteprima del libro

    I Giunghi. Lo Scirocco. Il Ghibli. - Giuseppe Rallo

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    prefazione dell’autore

    La scrittura di questo libro non è stato il tentativo di ricostruire una verità storica.

    Si tratta di un saggio biografico romanzato in cui rivivono le storie di quattro generazioni della famiglia dell’autore.

    Molti dei personaggi e dei protagonisti sono persone realmente esistite e alcune tuttora viventi. Altri personaggi e le situazioni in cui sono stati coinvolti sono da ricondurre alla sola invenzione dello scrittore.

    I fatti, così come narrati, sono realmente accaduti, ma sono stati adattati alla costruzione rielaborata dell’autore e alla fantasia letteraria che trova la massima libertà inventiva nei dialoghi tra i personaggi.

    La descrizione dei luoghi è stata sottoposta ad una necessaria revisione funzionale che è stata fondamentale per la narrativa romanzata.

    Quello dei profughi di Libia è stato un dramma umano e civile molto importante che oggi purtroppo è sconosciuto ai più in Italia, perché negli anni vi è stata una rimozione pressoché totale del fatto storico. Per comprendere meglio questo dramma, sono partito da Favignana, dalle radici e dalla storia della mia famiglia, una delle tante che nei primi del ’900 ha lasciato, la patria, la propria terra ed i pochi beni per inseguire un sogno.

    Giuseppe Rallo

    *****

    È un voluminoso e lodevole lavoro che contiene gli affetti e la storia della famiglia Rallo. La sua elaborazione ha richiesto sicuramente grande impegno e studio.

    Racconta la storia di generazioni di uomini e di donne, fortemente impegnati nel lavoro, nelle scelte intelligenti e all’avanguardia, ma soprattutto con un forte senso dell’unità familiare.

    La parte storica del romanzo attraverso le vicende della famiglia Rallo restituisce al lettore una idea sintetica ma chiara di quanto è avvenuto tra la fine dell’800 sino al 1970 in posti lontani dai nostri occhi, dalle remote isole Egadi ad una lontana sponda del Mediterraneo: quella della Libia.

    Tragiche ma interessanti le pagine dedicate ai conflitti mondiali con le loro dirette conseguenze, alla guerra dei sei giorni e infine al colpo di Stato di Gheddafi.

    Dolorose quelle dell’esilio dei nostri coloni e dei nostri connazionali in cui sembra di respirare il dolore, la disperazione per l’abbandono delle case e dei beni e la paura per la propria vita.

    Dal romanzo emerge l’immagine di una bella famiglia favignanese compatta e sempre all’altezza degli avvenimenti, anche i più dolorosi.

    Sullo sfondo delle diverse vicende predominano l’isola di Favignana, sempre amata, mai dimenticata e la Libia con una bella immagine diversa certamente da quella di oggi, quasi a sottolineare che un altro mondo è possibile, un mondo di convivenza pacifica aperto alla cultura occidentale.

    Maria Guccione

    *****

    Quella che racconta Giuseppe Rallo è una saga familiare. Con tutte le cautele del caso, e solamente in quanto ricostruisce quattro generazioni nell’arco di un secolo, potrebbe far balenare alla mente l’incomparabile capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine. Più verosimilmente, le ispirazioni di Rallo provengono dal Verismo e dal Romanticismo: da I Malavoglia di Giovanni Verga, non a caso citati nel libro e da alcune atmosfere manzoniane de I Promessi Sposi. Il punto di forza del romanzo, naturalmente, non è il raffronto con i maestri della letteratura ma una ricostruzione fedele della storia dell’isola di Favignana e della Tarabulus Al Gharb, la Tripoli dell’Ovest, quella ottomana dei primi del ’900 fino a quella dei nefasti giorni della cacciata degli italiani ad opera di Gheddafi, nel 1970. Sullo sfondo il Mare Nostrum, il Mediterraneo, solcato dai commercianti Rallo sulla rotta nord-sud, dalla Sicilia alla Libia. L’azzurra distesa che congiunge da secoli popolazioni apparentemente inconciliabili per vissuto, lingua, religione, costumi, tradizioni. Un’unione che, al contrario, l’esperienza italiana, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha dimostrato essere possibile e, con un po’ di impegno, replicabile. I Rallo ce lo insegnano, con le loro gesta di commercianti aperti al nuovo e al diverso: la collaborazione con la Libia e l’amicizia con il popolo libico fanno parte della storia degli italiani, una storia che non si può nascondere dietro furbe ideologie, pratiche stantie o interessi economici di pochi.

    Daniele Lombardi

    Direttore Italiani di Libia

    presentazione dell’opera

    Calati junco chi passa la china

    Piegati giunco finché non è passata la piena dei venti e dell’acqua.

    «Rita abbiamo lasciato la nostra vita e tutti i nostri averi a Tripoli. Devi aiutarmi ad essere forte. Questa che stiamo vivendo è un’altra prova di resistenza a cui la vita ci espone. Sembra quasi un accanimento. Ripenso alle traversie che hanno subito le diverse generazioni della mia famiglia, a partire da mio nonno Giacomo, da mio padre Giuseppe sino a noi e ai nostri figli. Gli eventi avversi ci hanno costretto a piegarci più volte, ma non ci siamo spezzati. Siamo stati messi alla prova come i giunchi che vengono piegati dalla furia dei venti e dell’acqua, ma passata la tempesta, si rialzano. Ecco, quei giunchi siamo noi. Non ci siamo spezzati. Abbiamo ancora la speranza di sollevarci».

    Sono le parole di Francesco Rallo, il padre dell’autore di questo romanzo. Si riferiscono ad un vecchio detto siciliano, che ben si adatta alla storia vissuta, ai fatti realmente accaduti ed alle diverse vicissitudini che le quattro generazioni della famiglia Rallo hanno dovuto affrontare.

    il romanzo: i giunchi.

    lo scirocco. il ghibli

    Alla base della vita romanzata di quattro generazioni della famiglia Rallo, a partire dal 1860 sino al 1970, sono le testimonianze orali e scritte di alcuni dei protagonisti, nonché i fatti ricavati da archivi storici, dalle esperienze di vita tramandate dai parenti dell’autore o vissute personalmente dall’autore, da pubblicazioni, da libri editi sulla Libia e sulle Egadi.

    La storia di queste quattro generazioni è fortemente intrecciata tra Favignana e la Libia e si conclude con il dramma della cacciata degli italiani da Tripoli e la loro successiva rinascita.

    Giacomo Rallo, il capostipite, aveva lasciato le isole Egadi, la propria terra, la patria ed i pochi beni per inseguire un sogno.

    Il romanzo trae origine da Favignana nella seconda metà dell’800, assiste al passaggio dai Borbone ai Savoia e all’insediamento dei Florio con le loro tonnare. Si sviluppa nella Tripoli turca e successivamente in quella coloniale, con i suoi colori, i suoi sapori, i suoi costumi e con le sue multietnicità e vede un continuo alternarsi di viaggi marittimi e scenari bellici, nonché innamoramenti e matrimoni.

    Lo Scirocco e il Ghibli, venti enigmatici, accompagnano i viaggi, la nascita di sentimenti e le emozioni dei vari protagonisti.

    La figura di Giacomo, ambizioso e volitivo comandante di vascello, si muove nel Mediterraneo e soprattutto lungo la rotta tra Favignana, Marsala e Tripoli.

    Favignana rappresenta, insieme a Tripoli, un unico comune denominatore nella storia di tutte e quattro le generazioni dei Rallo.

    Il racconto prosegue con la loro peregrinazione, quali sfollati di guerra nel 1942, dalla Libia in Toscana per trovarsi nuovamente a Favignana alla fine del conflitto. Termina con il ritorno a Tripoli, dopo una serie di traversie che piegheranno la famiglia senza spezzarla perché, alla fine, si solleverà nuovamente, proprio come il giunco che si rialza, passata la piena della tempesta.

    Fanno da sfondo storico alle vicissitudini della famiglia Rallo, il passaggio dal regno dei Borbone ai Savoia, la proclamazione del Regno di Italia, l’epopea dei Florio, le aspirazioni coloniali africane del Regno di Italia, la crisi dell’impero ottomano e la conquista di Tripoli di Libia, la grande guerra, la colonizzazione fascista della Tripolitania, la Seconda guerra mondiale con gli scenari bellici in Libia e in Italia, Siena e i suoi territori dalla Val D’Orcia alla Val di Chiana, Tripoli e la scoperta del petrolio con l’apporto di maggior benessere alla dolce vita post-coloniale, il colpo di stato di Gheddafi nel 1969 e l’espulsione degli italiani dalla Libia.

    Inizia proprio nel 1970 la storia di Giuseppe, profugo di Libia e italiano al contempo, con un giuramento che ha rispettato dall’età di tredici anni, pronunciato quando vide suo padre Francesco piangere nello scendere le scale della nave che li aveva trasportati a Napoli, dopo essere stati costretti a lasciare in Libia tutte le loro ricchezze e tutti i loro beni. Le lacrime scendevano calde e urenti sul viso di Francesco che stringeva forte nelle mani i suoi figli, due per lato. Giuseppe si accorse del pianto e urlò: «Papà. Papà. Perché piangi?».

    Francesco si rivolse a lui accarezzandolo: «Non abbiamo più nulla figlio mio. Abbiamo perso tutto!».

    Giuseppe allora con parole piene di speranza: «Papà. Non piangere. Vedrai ci risolleveremo. Io da parte mia non ti chiederò mai dei soldi. Nemmeno cinquanta lire per le caramelle».

    Così è stato.

    prologo: la famiglia rallo dopo la metà dell’800

    a favignana e gli eventi storici che hanno

    interessato le isole egadi

    Ambientazione: favignana, marsala, trapani

    Periodo: 1850-1862

    Fatti storici: Lo sbarco dei Mille a Marsala. Passaggio di potere dai Borbone ai Savoia. Proclamazione del Regno di Italia.

    Elezione del primo parlamento unitario.

    L’isola di Favignana, nell’arcipelago delle Egadi, per secoli sino a tutto il 1800 si è sempre trovata in uno stato di povertà endemica simile a quello che si è protratto lungamente nella Sicilia nord- occidentale.

    Qui a Favignana inizia la storia di Giacomo, il capostipite delle quattro generazioni Rallo che hanno tessuto la trama della loro vita tra l’Italia e l’Africa.

    Ed è proprio in questa isola che gli avi di Giacomo Rallo, di origine spagnola, nel xvii secolo, avevano piantato le loro radici, grazie al ripopolamento generato dallo Jus Populandi. Questa era una concessione del Regno di Sicilia promulgata in favore dei suoi feudatari, finalizzata a popolare i loro possedimenti. In virtù di questo flusso di persone che proveniva essenzialmente dalla Spagna la popolazione dell’isola in quell’epoca raggiunse quasi seimila anime.

    Nel 1640, le isole Egadi erano passate dalla Regia Corte di Filippo v di Spagna alla ricca famiglia Rusconi-Pallavicino di Genova quale pegno di garanzia per un prestito alla corona mai restituito.

    Nel 1841, Vincenzo Florio aveva preso in gabella dai Pallavicino le tonnare di Favignana e Formica; da allora la popolazione delle isole Egadi seguì la fortuna di questa famiglia soprattutto dopo l’acquisto delle tonnare e dell’intero arcipelago da parte di Ignazio Florio avvenuto nel 1874.

    Quindi a partire dalla metà del xix secolo l’economia di Favignana è stata sorretta quasi esclusivamente da queste generose tonnare.

    Si trattava di attività stagionali che coinvolgevano l’intero paese, ma non potevano garantire agli isolani da vivere per tutto l’anno. Sulla pesca del tonno si reggeva una intera economia: venivano pagate le tasse del Regno, le paghe degli operai, le elemosine in favore degli orfani e delle vedove, le decime alla Chiesa.

    Poco si ricavava da un’altra attività dell’isola che era l’estrazione del tufo: molto più misero il salario per i "pirriaturi" che passavano intere giornate nelle cave a tagliare conci. Per loro certamente tanto calore, umidità, polvere, fatica e sudore.

    Sempre nella prima metà del xix secolo, sotto la dominazione borbonica, grazie alla presenza di due antiche fortezze spagnole, l’isola veniva utilizzata per la prigionia e successivamente, vista la sua comoda posizione geografica, per la deportazione ed il confino. Era lontana dalla terraferma quel tanto che serviva a scoraggiare le fughe, ma non troppo distante per i fini del suo approvvigionamento.

    Nelle umide e malsane celle delle prigioni borboniche, poi divenute bagni penali, furono rinchiusi numerosi patrioti risorgimentali.

    In questa isola la storia della famiglia Rallo si accese come una fiamma che all’improvviso si eleva luminosa e raggiante da un braciere che sta per spegnersi, soffiata e alimentata dal libeccio, quel vento impetuoso che è solito fiancheggiare la montagna di Santa Caterina. Una famiglia che per le sue origini non poteva essere definita borghese, ma che intendeva fortemente uscire dalla morsa della miseria e della fame che attanagliavano gran parte della popolazione di Favignana.

    A causa della lontananza dagli scenari storici del Risorgimento e dalla terraferma, è probabile che molti abitanti delle isole Egadi, all’epoca dei fatti, non si fossero accorti di quanto avvenuto in Sicilia e nella penisola con il cambio dei regnanti legato al passaggio dai Borbone ai Savoia. Poco si sapeva e quel poco in modo assai confuso.

    A Favignana, quasi sicuramente erano giunti gli echi della sommossa del 7 aprile 1860 a Marsala e del successivo sbarco di Garibaldi nella cittadina siciliana. Si seppe con certezza della battaglia di Calatafimi e dell’impresa di Palermo, dove l’insurrezione era già iniziata mesi prima con la rivolta della Gancia finita poi tragicamente per il tradimento di un frate di un convento. Quanti morti! Si diceva nell’isola. Morti che aumentavano di numero da bocca a bocca, da narrazione a narrazione. Se ne parlava sommessamente fuori e dentro le taverne per la mescita del vino che si affacciavano sulla piazza principale del paese. Se ne parlava e certe cose si sussurravano solo a voce bassa perché i soldati del Re Ferdinando non dovevano ascoltare. Queste taverne erano frequentate dalla popolazione dell’isola, dalle milizie borboniche, più raramente dai pochissimi notabili dell’isola e dai pochi rappresentanti del governo.

    Le "putie dei varveri", ovvero le botteghe dei barbieri, erano un altro punto di incontro e di socialità al pari delle taverne dove nascevano e si consolidavano tutti i pettegolezzi dell’isola.

    I barbieri erano numerosi nell’isola perché, in assenza di altre attività se non quelle legate alla pesca e alla campagna, questo mestiere era uno dei pochi che consentiva di buscarsi il pane giornalmente e quindi sopravvivere.

    Successivamente, tenuto conto delle mutazioni storiche che avvenivano nella penisola, a Favignana quel sussurrare i segreti divenne a sua volta un gran parlare. Non erano mille i seguaci di Garibaldi che erano sbarcati sulla marina di Marsala, erano certamente molti di più, tutti in camicia rossa; aumentavano di numero giorno dopo giorno, battaglia dopo battaglia, morendo gloriosamente sotto il vessillo della bandiera italiana.

    Viva Garibaldi gridava ogni tanto qualcuno in piazza Matrice senza farsi riconoscere. Poi approfittando del momento di grande confusione generato dall’urlo si dileguava furtivo tra gli sguardi sgomenti dei compaesani. Qualche altro isolano, severamente criticato da padre Carmelo nei suoi sermoni ai fedeli, aveva avuto il coraggio di scriverlo a caratteri cubitali sulle mura di un edificio posto lateralmente alla chiesa: «Deve chiedere perdono a Dio il "fodde" che si è permesso di inneggiare e scrivere il nome di un brigante proprio di fronte alla casa del Signore!». Questi erano i pochi segnali coraggiosi di partecipazione alla mutazione politica dell’isola!

    Vi furono invece alcuni patrioti favignanesi, tra questi Sebastiano Calì-Garsia, Pietro Del Fina, Andrea Torrente, Giuseppe Torrente, Salvatore Torrente che fornirono eroicamente il loro contributo al Risorgimento in maniera autonoma, molto personale e senza il coinvolgimento della popolazione dell’isola che assisteva inerte al cambiamento con la consapevolezza che comunque nulla sarebbe cambiato.

    Alcuni seguirono Garibaldi, altri partirono alcuni mesi prima dello sbarco di Marsala per partecipare all’insurrezione di Palermo contro la tirannia borbonica, ma vennero catturati e giustiziati come briganti.

    Calì-Garsia partecipò alla battaglia di Calatafimi e morì qualche giorno dopo per le ferite subite.

    Salvatore Torrente morì nell’Ospedale Militare di Reggio Calabria per le gravi lesioni che gli erano state inferte nella battaglia di Aspromonte.

    Nell’isola avevano appreso con dolore la notizia di queste perdite e di questi eventi luttuosi. Si ebbe allora una maggiore conoscenza dell’unità e della formazione del Regno di Italia attraverso le voci ed i racconti che arrivavano da lontano, dalla terraferma. Il tutto giungeva sull’isola in modo molto confuso e contrastante per mezzo delle piccole imbarcazioni dei pescatori e con gli "schifazzi", vascelli a vela per il trasporto delle persone e delle merci provenienti saltuariamente da Trapani, da Marsala o più raramente da Palermo.

    I militi di Re Ferdinando ii sino al 1860 avevano controllato agevolmente i movimenti, le attività degli isolani e dei carcerati. Nell’isola vi erano due carceri borboniche realizzate all’interno di due imponenti strutture: il forte di San Giacomo eretto a difesa del paese e la fortezza di Santa Caterina costruita in cima all’omonima montagna, dove erano stati rinchiusi alcuni dei più famosi patrioti risorgimentali tra cui Giovanni Nicotera.

    Ora tutto stava cambiando e lo scenario divenne ancor più chiaro allorché si videro andare via, improvvisamente e frettolosamente, le poche milizie borboniche dall’isola.

    I soldati abbandonarono il castello di Santa Caterina ed il forte di San Giacomo lasciando liberi tutti i prigionieri politici ed anche i numerosi briganti che vi erano rinchiusi.

    Furono abbandonati i pochi ambienti integri dell’imponente forte di San Leonardo dove alloggiava parte delle truppe borboniche di stanza nell’isola e dove ancora coesistevano i cumuli dei ruderi di una antica fortezza abbarbicati sulle scogliere dell’isola, nei pressi dell’imbocco della grande insenatura che guarda l’isola di Levanzo.

    L’amministrazione borbonica con il suo declino non si era mai preoccupata di restaurare il forte di San Leonardo ed i Florio, una volta impossessati del paese vi costruirono sopra, dopo aver demolito la torre, una grande costruzione quadrangolare in stile neogotico ad opera dell’architetto palermitano Giuseppe Damiani Almeyda, mentre in un’altra area attigua più piccola e collegata con un tunnel sotterraneo, costruirono le cucine, i magazzini per i materiali e le merci utilizzate per il palazzo. Nella stessa struttura avevano realizzato tutti gli alloggi del personale di servizio.

    Dopo la partenza dei militari borbonici vi fu l’abbandono totale. Un periodo di vuoto di amministrazione dell’isola di cui nessuno ne approfittò. Una accettazione passiva del cambiamento politico che inizialmente non aveva suscitato tra la popolazione alcun entusiasmo patriottico.

    Quei soldati erano stati visti fuggire a notte fonda su due piccole imbarcazioni: muti, silenziosi, scapigliati e sporchi, trascinando gli scarponi malandati sul selciato della banchina. Stavano abbandonando l’isola nel buio, pieni di vergogna, sentendosi abbandonati anch’essi. Si sarebbero recati a Trapani senza conoscere il proprio destino. Molti di loro, tra questi alcuni militi favignanesi, veterani dell’esercito Meridionale, così era chiamato l’esercito di Re Ferdinando, una volta sbarcati a terra, avrebbero lasciato l’esercito Borbonico per far parte del nascente esercito Nazionale.

    Le notizie del nuovo Regno d’Italia e dei regnanti Savoia in questo periodo giungevano da Marsala a Favignana ancora più dettagliate e condite con fantasie patriottiche, tramite Ignazio Mineo, un uomo colto, che si fregiava di appartenere alla nobiltà francese e che manteneva i rapporti con l’isola per alcuni possedimenti conseguiti a seguito di scambi commerciali con i Florio. La parentela con Ignazio Mineo era il filo nobiliare di cui Giacomo Rallo andava orgoglioso. Un rapporto che non veniva compreso da molti suoi compaesani di pari ceto ma che era comunque considerato con grande rispetto.

    Questa parentela era il filo che univa i Rallo alla terraferma, ma la terraferma altro non era che la Sicilia, un’isola più grande, una parte del regno di Ferdinando ii Borbone che stava passando ai Savoia.

    Era soprattutto il filo di una storia che avrebbe portato a Giacomo amore, gioia, successo, realizzazioni personali ma anche preoccupazioni e grandi travagli.

    Quando a Favignana fu costituita la prima amministrazione del Regno di Italia, Giacomo era nato da poco. In paese si festeggiò sino a tarda sera nella piazza Matrice, inneggiando a Garibaldi, alla patria e alla bandiera tra balli e canti, incuranti dell’imponenza dell’antico carcere di San Giacomo che la dominava. Questo castello ormai rappresentava solo un lontano ricordo della decaduta vestigia di Re Ferdinando.

    Suonavano male, ma suonavano tutti gli strumenti lasciati dalla vecchia banda borbonica. Alcuni paesani più volenterosi e versatili, dotati di un minimo di conoscenza delle arti sonore improvvisarono una piccola banda musicale che per tutta la sera accompagnò le canzoni patriottiche più conosciute e famose dell’epoca. La notte sembrava non finire mai. Nella piazza Matrice, insieme alla popolazione festante, a rappresentare il Regno di Italia, era presente l’arma dei Carabinieri Reali, un corpo militarizzato della nuova Italia, ancora sconosciuto a molti nell’isola, con la divisa più bella, quella da cerimonia.

    Giacomo, il capostipite delle quattro generazioni di questa storia, nasceva a Favignana nel 1862 insieme al nuovo Regno Italico e crescendo prendeva forma in lui la bellezza dei geni spagnoli che i Rallo avevano nel sangue: un uomo alto, moro, con bei lineamenti del viso, gli occhi scuri e lo sguardo fiero.

    la gioventù di giacomo e le sue pene d’amore

    Ambientazione: favignana, marsala, palermo

    Periodo: 1860-1890

    Fatti storici: Amministrazione Regia a Favignana. Caduta dello Stato Pontificio. Roma diventa capitale.

    La Tunisia diventa colonia francese.

    La volontà e l’ostinazione della famiglia avevano portato Giacomo Rallo, sin da ragazzo, all’amore per il mare, dapprima come marinaio, poi come capitano di lungo corso divenendo comandante di un vascello, procurato tramite le conoscenze dei parenti Mineo, favignanesi trapiantati a Marsala. A soli ventisette anni suo cugino Giacomo Mineo, subito dopo lo sbarco dei Mille, abbandonò Favignana e si recò a Marsala in cerca di fortuna. Dopo aver acquistato un vecchio magazzino vicino al porto, iniziò a produrre vino e successivamente costruì uno dei più grandi stabilimenti per il vino di Marsala e della Sicilia. Era il 1862. L’azienda nasceva con la ragione sociale Mineo-Rallo. Sollecitato dall’orgoglio familiare Giacomo diceva dei Mineo: «Essi si vantano di possedere più di un veliero ed in effetti possiedono ben tre vascelli. Sono le imbarcazioni utilizzate per il trasporto dei vini prodotti dalle loro cantine e da altre aziende vinicole della Sicilia occidentale e di Pantelleria!». Ne parlava serenamente, senza invidia e nelle discussioni con gli amici o con i genitori, all’epoca in cui voleva farsi affidare dal padre un veliero per i suoi commerci, ripeteva sempre: «La mia fortuna si realizzerà anche con il contributo di mio cugino Giacomo Mineo. È vero, ormai è avanti con l’età ma è diventato benestante grazie ai suoi affari. Sono certo di ciò che affermo! Per il commercio del vino mi voglio affidare a lui e alla sua esperienza». Non si sentiva da meno ma aveva l’umiltà per capire che ancora doveva crescere. Non voleva imitarlo perché era conscio di essere diverso da lui, ma cercava di prenderlo sempre come esempio.

    "Travagghia e varagna". Il suo binomio preferito, lavorare e guadagnare.

    Nelle conversazioni sul commercio dei vini Giacomo lo descriveva volutamente con parole affettuose: «Mineo, brav’uomo e onesto è. Negli affari "varagna assai e una cosa certa è: si varagna iddu, arrinesciu pur’ io"».

    Aggiungeva una chiosa finale: «Poi quando vuole è anche generoso». La generosità era dovuta in gran parte al rispetto della parentela; "ossequio" che, in Sicilia nei rapporti tra le persone, era un fattore essenziale quasi endemico.

    La fanciullezza di Giacomo Rallo trascorse velocemente ma non fu spensierata perché correlata alle difficoltà economiche della famiglia. Gli anni a Favignana passavano in fretta e sempre eguali. Pochissime novità. Giacomo trascorreva il tempo della sua gioventù esplorando ogni angolo dell’isola, giocando con i suoi amici in piazza, fuori dal centro abitato e sulla montagna, soprattutto nella zona circostante lo stabilimento della lavorazione del tonno realizzato da Ignazio Florio. Questa costruzione così maestosa, posta alle pendici del monte di Santa Caterina e antistante la grande insenatura del porto, lo attirava e lo affascinava. Sapeva che da quella struttura derivava la sopravvivenza dell’isola.

    Ancora ragazzo apprezzava la bellezza quale espressione della fattura umana. Lo stabilimento Florio, con le sue diverse articolazioni architettoniche e le sue ciminiere di cotto rosso rappresentava per lui una magica attrazione. Trascorreva molto tempo ad osservare tutte le sue componenti edificate "a faccia vista con il tufo bianco sedimentario dell’isola, i grandi archi a tutto sesto e gli archi gotici, i tetti a capanna su impianti basilicali, le grandi trizzane che facevano somigliare gli interni dello stabilimento alle plurime navate di una chiesa. Mostrava quindi una spiccata sensibilità per la natura e per l’architettura. In genere per il lavoro dell’uomo. Guardava il bello dovunque. Anche nelle donne. Quando accompagnava la madre al lavatoio, posto vicino ad un antico pozzo di acqua dolciastra, all’interno di una pirrera", nella zona antistante la cava grande S. Anna, rimaneva incantato per lungo tempo ad osservare le forme sinuose delle lavandaie chine e affaticate mentre sbattevano i panni sui bordi di una grande vasca. La sua pubertà veniva turbata piacevolmente!

    Si trovò adulto in poco tempo. Sapeva che in Marina si diventava comandanti per studio, bravura e abilità: e lui eccelleva in tutto. Era nato per solcare i mari e le acque intorno alle isole Egadi e soprattutto quelle del Mare Nostrum che non perdonavano gli errori e la superficialità. «Dovete sapere che il mare non conosce taverne», ripeterà spesso Giacomo ai suoi figli, quando, cresciuti, si sarebbero recati con lui sul veliero per seguire le diverse rotte commerciali in tutto il Mediterraneo. Giacomo non discendeva da una famiglia di pescatori, ma la sua gioventù forgiata dalla vita isolana lo portava naturalmente verso una forma di rispetto assoluto per questa realtà: il mare fonte di vita e di distruzione. Ma la scelta dove indirizzare queste due direttrici dipendeva esclusivamente dall’essere umano e lui lo aveva compreso. La sua era una scelta intelligente! Questo antico detto sortirà ancor più effetto con le condizioni di mare avverse. Nelle giornate di tempesta, sul veliero, Giacomo avrebbe sistemato i figli vicino a sé in modo da trasmettere loro i segreti e i pericoli dei moti ondosi, le abilità nelle manovre e nella conduzione del vascello.

    I figli, una volta a bordo dovevano vivere e condividere tutto con l’equipaggio: «Lo faccio perché insieme ai marinai dovete imparare a vivere e a comportarvi», ripeterà loro costantemente.

    Le origini della famiglia che lo aveva cresciuto non erano molto diverse da quelle dei Malavoglia, narrate dal Verga: una famiglia che aveva vissuto mille traversie nel piccolo paese di Acitrezza. Quindi due famiglie che si assomigliavano per origine, ambientazione familiare, cultura, affanni, miserie.

    La caparbietà e la volontà di Giacomo lo avevano portato a possedere un veliero. Era stato acquistato con grandi sacrifici e debiti dal padre. La sua famiglia non navigava nell’oro, né era benestante, ma un generoso prestito di Ignazio Mineo, la voglia di riscatto, il sudore profuso in lunghi anni di lavoro avevano dato i loro frutti e avevano consentito di mettere da parte i danari necessari alla trattativa di acquisto. Con la sua imbarcazione avrebbe potuto recarsi più spesso a Marsala da suo cugino Giacomo Mineo, che lo aveva iniziato al commercio. Avrebbe incontrato anche Giacomo e Antonino Rallo, figli di Diego, grande produttore di vini sin dal 1860. In tale epoca questa famiglia aveva costruito la sua storica cantina che raggiunse un’estensione di almeno 15.000 metri quadrati coperti, sul lungomare di Marsala, proprio di fronte alle isole Egadi, in contrada San Francesco di Paola. Lo stabilimento era costituito da lunghi magazzini in ottimo tufo di Marsala intercalati da numerosi archi gotici, coperti da tegole di cotto rosa. Giacomo conosceva bene la qualità dei loro prodotti e la loro capacità nel coltivare la vite negli estesi terreni di proprietà vicino Alcamo e Camporeale. Nella zona di Marsala, in contrada Spagnola ed in contrada Birgi coltivavano alcuni particolari tipi di uvaggio mentre in contrada Triglia e in contrada Busala altre qualità di uva a bacca bianca. Sapeva che Diego inizialmente aveva venduto i suoi vini e il suo ottimo marsala al mercato interno della Sicilia, successivamente in tutto il Regno di Italia giungendo a rifornire anche le cantine dei regnanti Savoia. Questo fatto costituiva motivo di vanto per la famiglia di Diego Rallo.

    In aggiunta avrebbe potuto collaborare anche con le famose ditte di Ingham-Whitaker o di Woddhouse per la commercializzazione ed il trasporto dei loro ottimi prodotti e tra questi il loro eccellente marsala.

    Con maggiore soddisfazione avrebbe avuto la possibilità di collaborare con la famiglia Florio che già dal 1833 aveva iniziato la costruzione del più importante stabilimento di Marsala per la produzione e la conservazione dei vini.

    Quindi per Giacomo era di fondamentale interesse organizzare il commercio ed il trasporto dei prodotti di queste ditte. Tutto partiva da Marsala. Aveva studiato a perfezione le rotte migliori attraverso il Mediterraneo, per Pantelleria, per la Tunisia o per Marsiglia. Perfino per recarsi a Marsala aveva un suo percorso. Doveva aggirare le insidie della laguna antistante ed effettuare una rotta più sicura da sud-sud-est. Era la scelta migliore se non tirava forte lo Scirocco. Un vento fascinoso ma non amato da Giacomo. Doveva soprattutto evitare il tratto dell’isola Lunga e dello Stagnone, dove le acque erano infide e pericolose per la loro bassezza. Lui di rotte ne conosceva. Non navigava a vista e se ne vantava!

    L’invito di Giacomo Mineo che lo aspettava a Marsala il giorno dopo per affari e per un pranzo al quale era stata invitata Giovanna Bannino, una piacevolissima ragazza conosciuta in una precedente occasione, non doveva andare deserto: «Questa è la volta buona. Devo recarmi da mio cugino e soprattutto devo salpare domani mattina all’alba per non tardare all’appuntamento. Ho più di un valido motivo per partire!». Si ripeteva instancabilmente Giacomo. Così mise in atto il suo proposito. Quella mattina lasciò la rada del porto di Favignana sfruttando una leggera brezza di Grecale e con le vele spiegate si diresse verso la costa siciliana.

    Giunto a Marsala nei tempi che aveva saggiamente previsto, al momento di attraccare il vascello, provò una strana sensazione. Quasi una timida consapevolezza sentimentale mista a languore. Avvertiva inspiegabilmente che questo suo viaggio sarebbe stato foriero di novità. Il sole si presentava alto in quel cielo che era solito incastonare come gioielli preziosi sotto di sé tutte le bellezze naturali della Sicilia nord-occidentale. Dal cassero di poppa Giacomo guardava lo specchio di mare contenuto tra i due moli del porto e ne apprezzava il colore verde smeraldo, diverso da quello delle acque di Favignana. Certamente non più bello, pensava, comunque altrettanto ammaliante, con i suoi riflessi tra il verde e l’azzurro!.

    Si riprese immediatamente dalle sue divagazioni naturalistiche. Più dei colori del mare, in quel momento lo emozionava soprattutto la possibilità di incontrare nuovamente Giovanna che avrebbe potuto rivedere a breve a casa dei Mineo.

    La ricordava come una ragazza dai bei lineamenti, dallo sguardo nobile e garbata nei modi. Erano i ricordi di una conoscenza avvenuta fugacemente almeno un anno prima, nel 1888. Non l’aveva mai dimenticata, ma all’epoca del primo incontro non si era pronunciato, forse anche per attendibili remore familiari. Da uomo di onore doveva comunque rispettare gli eventi che non erano decisi solo dal destino, ma dal volere congiunto dei familiari Rallo e Mineo. Così era in Sicilia!

    Allora doveva sbrigarsi. Dopo aver assicurato l’ormeggio del vascello insieme a Sebastiano, il più capace dei suoi marinai, chiamato Bastiano per affetto e brevità, Giacomo calcò con un balzo potente il terreno tufaceo della banchina. Si guardò intorno. Le palme che erano state piantate subito dopo lo sbarco di Garibaldi sul lato destro del porto e sul lungomare erano cresciute in fretta. Non le ricordava così alte. Queste palme, dalle foglie di un verde intenso insieme alla tinta giallo ocra dei tufi del molo e delle costruzioni vicine costituivano per lui una anticipazione visiva dei luoghi africani che vagheggiava. Giallo deserto e verde palma. Colori predittivi del suo futuro commerciale africano. Ma ora si trovava a Marsala e lo stavano aspettando per pranzo. Non aveva tempo per queste fantasie!

    Poco dopo, una carrozza lo trasportava cigolando sulle strade bianche, sconnesse e polverose di Marsala. Impiegò un po’ di tempo per giungere a destinazione. Durante il percorso Giacomo si era posto molte domande cui trovava un’unica risposta. Un bel rompicapo. Era impaziente e guardò più volte l’orologio da tasca inserito nel suo panciotto sino a quando, percorsa una strada tra gli aranceti in fiore con intorno un forte odore di zagara, si trovò innanzi l’abitazione di suo cugino.

    Il baglio di Giacomo Mineo dominava Marsala ed il mare. Era in una posizione luminosa e ventilata in modo tale da raffreddare le pareti esterne della struttura. Viste da quel colle le isole Egadi, con il mare mosso, sembravano nuotare tra la spuma bianca delle onde. Viveva in quella splendida casa, da anni, con la moglie Anna Manuguerra e i suoi quattro figli: Ignazio, Diego, Giacomo e Alfredo.

    Scese saltellando dalla carrozza e si avvicinò con passo veloce al cugino che lo aspettava al portone. Lo guardò saldamente negli occhi e lo vide invecchiato ma con i baffi sempre ordinati. Ebbe per lui solo parole di vezzo e sorrise affettuosamente velando le sue parole di ironia: «Cugino mio. Il tempo non lascia segni su di te. Sei sempre giovane e sempre più ricco!». Di rimando, abbracciandolo, Mineo gli sussurrò in un orecchio: «E tu sei un bugiardo ma sempre pieno di premure e di affetto. Il tempo non ha cambiato neppure te, "trasi" e accomodati».

    Anna lo accolse premurosamente: «Cugino, benvenuto. Entra pure. Ti stavamo aspettando e abbiamo pensato ad un tuo ritardo per le cattive condizioni del tempo. Adesso il vento è calato e mi sembra davvero che il mare si sia "abbonazzato". Ti vedo bene cugino Giacomo. Accomodati. Sei comunque puntuale per il pranzo. Ma ora andiamo in sala perché ci aspettano».

    «Chi mi aspetta? È forse Giovanna?». Domandava Giacomo mostrandosi piacevolmente sorpreso.

    «Cara Anna, ero a conoscenza della sua possibile partecipazione al pranzo!». Al solo nominarla ebbe immediatamente una contrazione allo stomaco seguita da un sussulto, ma non se ne fece accorgere nascondendo, con un lungo respiro, lo stato d’ansia crescente che sentiva dentro.

    Procedeva lentamente nella sala. Con lo sguardo scrutava tutto intorno cercando Giovanna che in quel momento lo aspettava in piedi, statuaria, elegante al fianco di una poltrona del grande salone. Rimase colpito dai suoi lineamenti, che già conosceva e dalla sua sinuosità. Una ragazza deliziosa e la ricordava esattamente così. Il viso era sorridente e l’abito che indossava esaltava tutte le sue virtù! In quell’istante si creò una situazione di lieve imbarazzo, che Anna risolse brillantemente con i convenevoli. Fece accomodare Giacomo più vicino a sé e lesse sul suo viso una espressione meravigliata. Lui non se l’aspettava così bella! Mineo che gli stava accanto attenuò il suo imbarazzo sussurrandogli con voce intrigante: «Vieni con me Giacomo, seguimi. Ti presento Giovanna Bannino! Non farai certamente fatica a ricordare l’origine della vostra lontana conoscenza. Ora sarà lei a raccontarla nuovamente!». Giacomo accennò ad un saluto con un lieve inchino e Giovanna si avvicinò sinuosa e provocante. Sapeva di aver colto il segno ma aveva conosciuto anche lei, a suo tempo, la bellezza ed il portamento di Giacomo e ne rimase affascinata.

    Giovanna fece un passo verso di lui. Prese l’iniziativa, cosa insolita per una donna all’epoca, e si rivolse a Giacomo con tono suadente: «Ti ricordi di me? Ci siamo visti circa un anno fa proprio in questa casa ad un ricevimento tenuto da tuo cugino Giacomo e rammento che sei stato molto galante all’epoca! Ma io probabilmente non sono stata molto conciliante. Fa parte del mio carattere. Provo molto piacere nel rivederti adesso. Il tempo è passato senza scalfire nulla in te». Giacomo annuì, emozionato e confuso: «Certamente Giovanna, come dimenticarti anche se onestamente sono trascorsi molti mesi. Ho un ricordo vivo di quell’incontro!».

    Si scambiarono uno sguardo intenso ed in silenzio seguirono Anna verso la tavola apparecchiata nella sala importante del baglio. Non erano presenti camerieri a servire ed i piatti di portata erano stati posizionati adagiati sopra un tavolo posto lateralmente nella stessa sala, approntato con una eleganza che non era inferiore a quella del tavolo principale. Si ammiravano in bella vista un pasticcio di anellini al ragout di coniglio, del tonno ammuttunato con verdure e patate, ed una fiamminga di aggrassato. Sullo stesso tavolo non mancava la frutta fresca ma rapiva lo sguardo, contenuta in un bellissimo piatto di ceramica di Caltagirone, finemente decorato, una piramide colorata di fichi d’india sbucciati, guarniti con canditi e zucchero a velo. I vini, ovviamente i migliori della produzione, tra questi un ottimo frappato delle vigne di Partinico cui Mineo teneva in modo particolare.

    Tra gli sguardi amorosi e intriganti lanciati verso Giovanna che rispondeva languida e tra i discorsi di famiglia che si tessevano avvolgenti come ragnatele, il pranzo si consumò piacevolmente sino al tardo pomeriggio. Il viso dei convitati iniziava ad essere illuminato dalla luce calda che si sprigionava da un lampadario di Murano dalle molteplici braccia, posto proprio sopra il tavolo principale del salone. Giacomo, non desiderava interrompere la sintonia del momento ma stava considerando il tempo trascorso. Si era fatto tardi ed era giunta l’ora di parlare anche di interessi: «Cugino, descrivimi questa partita di vini che dovrei portare a Napoli e a Marsiglia. In verità mi hanno chiesto di tutto, soprattutto inzolia, cataratto e altri vitigni a bacca bianca. Mi servirebbe anche una discreta quantità di zibibbo e marsala, se ne hai ancora. Come sei combinato con le tue migliori riserve? Come è andata la produzione? E il tuo marsala? Vorrei intraprendere il viaggio tra pochi giorni, certamente prima dell’inverno!».

    «Quante cose vuoi sapere, Giacomo mio. Tempo al tempo. Seguimi nello studio e ti dirò ogni cosa. Gli affari sono per gli uomini. Le donne si annoiano solo al pensiero!» rispose alzandosi e stampandosi

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