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Le grandi famiglie di Milano
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E-book730 pagine8 ore

Le grandi famiglie di Milano

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Dai Visconti agli Sforza, dai Crespi ai Pirelli, dai Falck ai Rizzoli

Sono circa 250 le famiglie nobili di Milano, molte delle quali ancora oggi rappresentate, molte di meno quelle che fanno capo al patriziato milanese, titolo particolare e riservato a poche. Non sono solo i Beccaria, i Borromeo, gli Odescalchi, i Pallavicini, gli Sforza e i Visconti a occupare le pagine di questo libro; alle storiche famiglie vanno senz’altro aggiunte quelle dell’imprenditoria milanese che a volte hanno ottenuto titoli nobiliari e più spesso hanno intrecciato rapporti di parentela con le famiglie di antica nobiltà: Pirelli, Crespi, Falck, De Angeli, Cantoni, Breda, Longoni, Belloni, Ponti, Badini, Borletti, Mondadori, Rizzoli, Moratti, Salmoiraghi, Bassetti... Vi sono poi moltissime famiglie, discese da un medesimo capostipite, ma con storie tanto distinte da dover essere narrate ognuna singolarmente, come ad esempio i moltissimi rami di Casa Visconti, talora estinti in altre famiglie, come i Visconti di Cislago, o ancora fiorenti, come i Visconti di Modrone. E attraverso le personalità uniche che hanno fatto grande la città, scopriamo che è possibile rivivere tutta la storia milanese.

Dalla nobiltà all’imprenditoria, le famiglie che hanno fatto la storia del capoluogo lombardo

• Beccaria • Borromeo • Odescalchi • Pallavicini • Sforza • Visconti • Pirelli • Crespi • Falck • De Angeli • Cantoni • Breda • Longoni • Belloni • Ponti • Badini • Borletti • Mondadori • Rizzoli • Moratti • Salmoiraghi • Bassetti…

Matteo Turconi Sormani

è nato nel 1975 a Cantù, vive tra Milano e l’avita casa di famiglia brianzola, che un tempo ospitò i Beccaria e Manzoni. Avvocato civilista, scrittore, cultore di storia locale e delle famiglie nobili lombarde, ha legato il suo nome a opere di storia della Brianza. È socio della Storica Lombarda da oltre un decennio.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2015
ISBN9788854187146
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    Anteprima del libro

    Le grandi famiglie di Milano - Matteo Turconi Sormani

    Introduzione

    A Manhattan nella primavera del 2014 tutti sembravano dotati di un talento spiazzante che colpiva e lasciava stupefatti i giovani provenienti dall’Italia. Avevo residenza tra la 7th Ave e la 34th St, proprio nei pressi di uno degli ingressi del Madison Square Garden. Una sera mi trovavo in un noto locale su uno di quei rooftop tanto di moda quanto passeggeri, e oziavo in attesa di un aperitivo con Alessandro Pecile e i fratelli Italo e Tommaso Marzotto, questi ultimi accompagnati da Melusine Ruspoli. Durante l’attesa, pensavo ai tanti personaggi vaganti nei miei libri, alle loro eccezionali famiglie, e mi rendevo conto che non c’era paragone con le grandi famiglie americane, i cui rampolli avevo incontrato in Europa o stavo per incontrare alle grandi feste newyorkesi (come l’evento Robot Heart, celebrato da Italo e descritto in un lungo articolo intervista di D-La Repubblica, dal titolo Dov’è il party). Fu proprio su quel rooftop, prima di passare alla vista mozzafiato alla ricerca del nuovo grattacielo emergente da Ground Zero, che promisi a me stesso di scrivere un libro sulle grandi famiglie di Milano, certamente senza l’ambizione di creare un’opera esaustiva. Qualche settimana dopo giungeva la proposta editoriale della Newton Compton Editori, che accettai senza riserve.

    Le famiglie trattate in questo volume non sono tutte quelle che in epoche storiche differenti hanno fatto grande la storia di Milano. Nel libro troverete grandi famiglie nuove che l’autore ha ritenuto di inserire secondo la sua sensibilità all’argomento, rispetto ai classici repertori, escludendo contemporaneamente alcune schiatte, soprattutto quelle attive nel solo Medioevo, su cui a volte era anche difficile fornire informazioni adeguate.

    Comune a quasi tutte le famiglie trattate è l’appartenenza al ceto nobiliare o l’aggregazione successiva, in seguito a un notevole incremento del proprio patrimonio. Una questione di denaro, dunque? Quando nel luglio del 1941 il generale Ambrogio Clerici fu convocato al Quirinale per la concessione del titolo di conte, non avendo figli, chiese che il titolo fosse trasmesso al fratello Enrico e ai suoi discendenti. Il re imperatore accolse la richiesta, ma Ambrogio, che aveva già versato 39.000 lire, dovette provvedere al versamento di altre 16.000 lire, per dare esecutività all’integrazione del decreto. È lo stesso generale a informarci che con il denaro servito per pagare quell’ulteriore tassa, avrebbe potuto comprare due paia di buoi, e pertanto se ne rammaricava con i parenti. Dopo il pagamento della tassa, comprovato con l’esibizione del vaglia, il 26 settembre 1941, in San Rossore, Vittorio Emanuele iii firmava le Rege Lettere Patenti.

    Che dietro gli onori e i piacenti riferimenti a ranghi e prerogative si nascondesse il vile denaro, lo si era già scoperto in epoche più antiche. Scavando, infatti, tra gli antenati di molti illustri nobili milanesi, si potranno scoprire usurai, falegnami, stallieri, osti o macellai, come una certa mano indagatrice ebbe modo di lasciar intuire nell’edizione di un manoscritto settecentesco di proprietà dei principi Borromeo, il cui titolo, La verità smascherata, è già un programma. Così, nell’Italia spagnola e austriaca occorrevano almeno 10.000 scudi d’oro per un titolo di principe, 7.000 per quello di duca, 5.000 per un titolo di marchese e 3.000 per quello di conte, come ha avuto modo di certificare Angelantonio Spagnoletti nel suo Principi italiani e Spagna nell’età barocca. Somme ben più elevate avevano versato agli imperatori i signori Gian Galeazzo Visconti e Amedeo di Savoia, ma in questi casi, oltre al titolo, vi era la conferma del possesso legittimo di interi Stati. Ben inteso, una volta titolate, soprattutto a Milano, le famiglie esibivano con orgoglio anche le origini volgari, in quanto ormai abbastanza potenti da poterselo permettere.

    Non è sempre andata così: a volte a emergere sono state famiglie che hano avuto come capostipiti personaggi formidabili, nelle vesti talora di funzionari di Stato. Si pensi a Stefano Porro o a Cicco Simonetta, altre volte in abiti di abili guerrieri di cui si darà conto. Altre famiglie, invece, crebbero e divennero grandi perché diedero papi o arcivescovi, ottenendone benefici, rendite e uffici. L’esempio più importante in Lombardia è forse dato dai discendenti di Antonio Erba e Teresa Turconi, divenuti noti col cognome Odescalchi. A questa famiglia appartennero l’ava Lucrezia e soprattutto lo zio papa Innocenzo xi.

    Di molte di queste famiglie è possibile reperire le genealogie nel Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, in ristampa anastatica del 2003, la cui edizione è stata eccellentemente curata da Cinzia Cremonini, autrice, tra l’altro, di importanti studi su alcune famiglie qui trattate. Un altro volume che ha costituito una delle principali fonti di questo lavoro è l’edizione anastatica degli Alberi genealogici delle case nobili di Milano, limitata e pregiata, messa in stampa nel 2008 con i tipi della Orsini De Marzo. Utile, inoltre, il confronto tra queste pubblicazioni, le varie edizioni del Libro d’Oro della Nobiltà Italiana e gli studi di Davide Shamà, pubblicati nella sua pagina web dedicata alle genealogie delle famiglie nobili italiane. Infine, ulteriore fonte preziosa è stata una serie di libri della mia biblioteca in Briaza, dove custodisco tesi di laurea ed enciclopedie già dei miei antenati, opere di Felice Calvi e Paolo Morigi, o libri più recenti che io stesso ho acquistato in Galleria a Milano oppure a Parigi, dove mi perderò sempre volentieri tra gli scaffali pieni di libri inglesi della rinomata e antica libreria Galignani di rue de Rivoli.

    Tratterò quindi di vicende singole e collettive, cittadine o internazionali, che lasceranno emergere origini lontane e leggendarie, curiosità e particolari stupefacenti che addirittura si nascondono dietro i nomi, a volte inconsueti, di famiglie e di taluni personaggi che hanno fatto grande Milano e la Lombardia. Il tutto senza avere la pretesa di esaurire qui l’argomento; anzi, con la speranza di poterlo successivamente integrare e riprendere, come si fa con tutte le cose che si amano.

    Terminavo quindi la minuta di questo libro in un caldo giorno ai primi d’agosto del 2015, mentre ero indotto ad aggiornarlo per l’evento dell’anno, ovvero il matrimonio di Beatrice Borromeo e Pierre Casiraghi, celebrato sull’isola di San Giovanni, nel Verbano. Qualche anno prima, nello stesso periodo estivo, mi trovavo a palazzo Borromeo in piazza Sant’Ambrogio, in una stanza dello Studio Legale di cui ero il più giovane allievo, e inviavo ad Alessandro Pisoni, archivista degli stessi Borromeo, l’ultima stesura di quel libro su Birago che in molte sue pagine era già forse una premessa alle mie future intenzioni.

    Matteo Turconi Sormani

    Nota dell’autore

    Si precisa al lettore che le famiglie sono normalmente trattate in ordine alfabetico, tuttavia i rami delle singole casate, sia quando sono esposti distintamente come nel caso dei Porro, degli Sforza e dei Visconti, sia quando sono illustrati all’interno di un’unica esposizione come nel caso dei Birago, dei Casati, dei Castiglioni, dei Litta, degli Odescalchi e di altre famiglie, non seguono l’ordine alfabetico, ma la prossimità del legame famigliare rispetto al capostipite o al personaggio più illustre. Inoltre, quando non vi è sufficiente prova del legame genealogico tra i capostipiti dei differenti rami si è preferito distinguere le famiglie in singoli paragrafi, come per i Porro e i Visconti, mentre negli altri casi, dove vi erano maggiori prove della connessione genealogica, i rami familiari sono stati trattati all’interno degli stessi paragrafi, come per i gli Odescalchi e i Litta. Infine, nel caso dei Borromeo, la trattazione pur narrando la storia dei singoli rami, è divisa in brevi capitoli che seguono squisitamente un ordine cronologico, anche per mettere in maggior evidenza l’epoca dei due cardinali.

    A

    Abiati o Abbiati

    Stemma: in origine bandato di argento e di azzurro, con l’argento caricato da sei stelle d’otto raggi di rosso poste in banda 1, 3, 2. Stemma più recente: troncato nel 1° con l’aquila, nel 2° sbarrato d’argento e d’azzurro come sopra.

    Antica famiglia del patriziato, apparsa in Milano nel xvi secolo, probabilmente originaria di Abbiategrasso e successivamente diffusasi in diverse regioni d’Italia. Un ramo ha accolto l’eredità di Giovanni Forieri, giungendo al titolo comitale sul feudo di Castellamonte. Ebbe decurioni, dottori del Collegio, canonici ordinari del duomo. Il ramo principale si estinse verso la fine del xviii secolo; di questo, Francesco Maria fu vescovo di Bobbio dal 1618 al 1650.

    Acerbi

    Stemma: semipartito e troncato, al 1° d’argento, alla ruota di santa Caterina di rosso, al 2° d’oro all’aquila di nero, al 3° di rosso alla stella d’argento.

    Antica e nobile famiglia originaria di Ferrara che con Borso i ai primi del Cinquecento si trasferì a Milano. Tra i suoi nipoti si ricorda Borso ii, che vendette il feudo di Cisterna alla famiglia Dal Pozzo, ma trattenne il titolo di marchese e fu capostipite di una linea estinta nel 1722 con la morte del marchese Luigi, il quale lasciò erede Pietro Giussani per il patrimonio libero e il cugino Nicolò (ridotto a falegname) per il patrimonio sottoposto a fedecommesso. Fratello di Borso ii, Ludovico nacque verso la seconda metà del xvi secolo, si laureò in legge e fu iscritto al Collegio dei giureconsulti di Milano. Nel 1595 si recò a Napoli per rimanerci fino al 1598, ricoprendo la carica di reggente. Tornato a Milano nel 1600, fu nominato senatore e più tardi, nel 1619, divenne presidente del magistrato ordinario e morì nell’aprile del 1622. Nel 1615 aveva acquistato da Pietro Maria Rossi, conte di San Secondo, il palazzo oggi in corso di Porta Romana, facendolo ristrutturare in stile barocco e arricchendo gli ampi saloni interni con marmi, statue e dipinti fra i più belli dell’epoca. L’edificio è famoso proprio per Ludovico, che negli anni della peste organizzava stupefacenti feste e si muoveva per la città con fastoso seguito di servitori in livrea, alimentando il sospetto del popolo che sosteneva che in quel palazzo abitasse il demonio. Sebbene le feste si susseguissero senza sosta, aumentato il contatto tra le persone e quindi il rischio di contagio, nessuno dei frequentatori di quei bagordi si ammalò di peste. Di tempi più recenti, sotto una palla di cannone che sta infissa nella facciata dall’epoca del suo lancio, una targa ricorda la data delle gloriose giornate di Milano in cui avvenne il fatto: 20 marzo 1848. Giacomo, fratello di Ludovico, fu capitano al servizio del re di Spagna ed ebbe molti figli. Il nipote Camillo Cosimo, perse al gioco tutte le sostanze della famiglia, riducendosi in povertà. Giuseppe e Nicolò, figli di quest’ultimo, per vivere aprirono una falegnameria che chiusero solo nel 1728, quando concretamente pervenne loro l’eredità fedecommissaria del cugino Luigi; ebbero diversi discendenti che andarono a vivere nel tortonese, lontani dai fasti di Ludovico.

    Adda o d’Adda

    Stemma: fasciato ondato a onde grosse di nero e d’argento; col capo d’oro carico di un’aquila di nero coronata del campo.

    Nobile famiglia milanese la cui ascendenza si fa risalire a Rinaldo sposato con Costanza Litta e vissuto a metà del xiv secolo. Suo figlio Antonio fu tesoriere ducale e il nipote Pagano cortigiano del duca Ludovico Sforza. Gaspare di Pagano fu giudice; dalla moglie Margherita Rabbia ebbe Giacomo († post 1580) che fu capitano di cavalleria sotto il duca Francesco ii Sforza. Ricordato come benefattore, Giacomo nel 1561 fondò a Trivulzio un orfanotrofio e a Varallo un seminario per chierici. Iscritto nel Libro d’Oro con diritto di cittadinanza varallese per sé e i suoi discendenti in perpetuo, fu fabbriciere del Sacro Monte e principale finanziatore della costruzione della cappella di Adamo ed Eva; con testamento dispose un legato di quattromila lire per la ripresa dei lavori al Monte. Giorgio (1596†1661), nipote di Giacomo e figlio di Giovanni Antonio (1559†1603), dal 1614 cavaliere di Malta, ottenne da papa Urbano viii licenza di tenere e portare con sé reliquie di santi. Nel 1627 donò alcune reliquie alla città di Varallo e al seminario. Nel 1634 ottenne dal cardinale Ferdinando d’Austria, allora governatore di Milano, il privilegio di poter far scavare miniere d’oro, d’argento e altri metalli sulle montagne della Valsesia (presso Alagna). Nel 1639 ottenne l’estensione di questa facoltà a tutto lo Stato di Milano. È anche ricordato per essere l’autore di un trattato per lo sfruttamento delle miniere d’oro e d’argento. Nel 1655 edificò un’ala destinata al ricovero dei sacerdoti infermi presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano, dove morì. Da Ludovico, altro figlio del suddetto Gaspare di Pagano, discese il ramo dei d’Adda Salvaterra; il secondo cognome fu aggiunto da Giuseppe, erede del questore Giovanni Salvaterra e creato marchese, conte e barone. Rinaldo, fratello di Gaspare di Pagano, si arricchì dapprima con il commercio delle lane, quindi con l’attività bancaria, quale grande finanziatore del governo milanese; dalla moglie Margherita ebbe i figli Pagano ed Erasmo, ammessi all’ordine decurionale di Milano. Già titolare del dazio delle biade di Como e dell’imbottato di Crema e Lodi (1536), Pagano comprò il feudo di Cassano, ma dovette cederlo nel 1549; successivamente ebbe anche il feudo di Pandino da Francesco Duarte. Fu quindi eletto a difendere le ragioni della città di Milano nella compilazione dell’estimo generale del 1543. Con testamento fondò una primogenitura, ma non ebbe discendenza maschile oltre i figli. Nel 1569 Erasmo, con il figlio Giovanni Battista, vendette al conte Guido Gallarati la giurisdizione di Turbigo con le rendite e l’osteria. Tra gli altri discendenti di Erasmo si annoverano: Ambrogio, marchese di Pandino dal 1600, ricordato per aver lasciato al Luogo Pio di Santa Corona 15.000 pertiche milanesi di terra; e Benedetto, che fu noto banchiere. Quest’ultimo dalla moglie Margherita, figlia di Febo Colleoni, ebbe Febo i (†1681), che fu marchese di Pandino per la transazione del 1656 con il fisco, dopo aver versato la somma di millecinquecento ducati, ereditando così anche il fidecommesso di Pagano. Febo i fu capitano della milizia urbana e questore del magistrato ordinario. Figlio di altro Benedetto, Febo ii fu confermato al patriziato di Milano nel 1720; ciambellano imperiale, dei xii di provvisione, giudice delle vettovaglie e decurione di Milano dal 1749, ebbe dalla moglie Ippolita, figlia del conte Vitaliano Biglia di Saronno, l’erede Giovanni Battista (1737†1784). Quest’ultimo nel 1781 comprò dal duca Bonelli il feudo di Cassano con il titolo marchionale e quello di Vaprio con il titolo comitale, per l’ingente somma di 16.000 scudi romani; fu dei xii di provvisione, decurione di Milano dal 1773, ciambellano imperiale, conservatore del patrimonio e degli ordini. Febo iii (1771†1836), figlio di Giovanni Battista, fu allievo del Parini e dopo la Restaurazione divenne vicepresidente del governo austriaco a Milano; ereditò dal cugino Francesco una parte del tenimento di Arcore. L’abate Ferdinando, erede dell’altra porzione di Arcore, concesse a Febo iii la possibilità di acquistare anche la sua parte e, infatti, Febo la acquistò nel 1808. Tra il 1820 e il 1825 incaricò l’architetto Arganini del rifacimento del palazzo di Milano sito in via Manzoni. Figli di Febo iii furono: Vitaliano (1800†1879) che fu consigliere dell’imperatore Francesco Giuseppe ed erede del tenimento di famiglia a Cassano; nonché Carlo (1816†1900) che fu di tendenze liberali e per questo esule dopo il 1848 e più tardi senatore. Ricchissimo, con patrimonio stimato in 640.000 lire austriache, Carlo alla morte della madre ebbe anche il patrimonio fondiario dei Khevenhüller che rese più considerevole dall’esercizio di filanda. A metà Ottocento trascorse lunghi periodi fuori dalla Lombardia, principalmente in Francia a contatto con Cristina di Belgioioso, presso la quale conobbe Cavour. Divenne anche amico di Bettino Ricasoli e d’altre personalità di primo piano. Altro figlio di Febo iii, Giovanni (1808†1859), ebbe in eredità il palazzo di Milano e il tenimento di Arcore, dove fece elevare la cappella con il celebre monumento funebre per la moglie, opera di Vincenzo Vela (1849); fu primo direttore delle poste del Lombardo Veneto, mentre il figlio di questo, Emanuele (1847†1911) fu senatore. I titoli di Vitaliano e di Carlo passarono rispettivamente nelle famiglie Borromeo e Brandolini, per i matrimoni di Maria Costanza (1842†1891) con Carlo Borromeo e di Leopolda (1847†1922) con Annibale Brandolini, dando origine alle famiglie Borromeo d’Adda e Brandolini d’Adda. Dell’altro ramo, da Francesco, fratello dei sunnominati Rinaldo e Gaspare, nacquero Agostino e Costanzo i, le cui ricchezze erano scaturite dal florido commercio di tessuti con la Spagna. Agostino e il fratello, ereditata l’attività paterna, alla stessa gradualmente sostituirono quella bancaria; infatti, prestavano soldi a cardinali, governatori, comunità e allo stesso imperatore, cercando però di non esporsi troppo direttamente. Fu così che insieme col cugino Pagano e con i genovesi Domenico Sauli e Tommaso Marini, Agostino divenne uno dei personaggi più importanti della tesoreria milanese. I due fratelli iniziarono anche a comprare immobili soprattutto a Settimo e Seguro, dove era collocata la dote della madre, Angela Balbi (sorella di quel Fabrizio che fece ricostruire la chiesa di Santa Margherita nel 1534). A Settimo, tra Cinquecento e Seicento, i d’Adda fecero edificare un grandioso palazzo, al quale fu aggiunto il palazzo detto Cà del mago perché vi abitava, secondo la tradizione, un personaggio che praticava la magia e rapiva le ragazze del paese, secondo uno stereotipo abbastanza diffuso nell’Italia popolare. Di certo nel palazzo fu ospite il cardinal Federico Borromeo e più di recente, vi soggiornò la principessa Mafalda di Savoia. Costanzo, divenuto erede anche del fratello, combatté contro i protestanti e con un congruo esborso comprò la contea di Sale nel Tortonese, che lasciò al figlio illegittimo Francesco, morto nel 1644 a Settimo, nella sua villa di delizia. Da Costanzo ii (1617†1652), terzo conte di Sale, figlio di Francesco, nacque il cardinal Ferdinando i (1650†1719) che fu anche nunzio apostolico presso Giacomo ii d’Inghilterra. Costanzo iii (1676†1749), figlio di altro Francesco (1647†1716), fu creato primo marchese di San Giovanni di Pomesana. Costanzo iii ricoprì anche le funzioni di giudice delle strade e fu dei xii di provvisione; infine, dal 1725 diventò decurione di Milano. Ferdinando ii (†1808), abate del monastero di Sant’Antonio, fondatore della Causa Pia D’Adda, visse principalmente nella villa di Arcore, dove la famiglia era presente già ai primi del Cinquecento. Alla sua morte, la linea dei D’Adda di Sale non aveva più discendenti e anche per questo decise di devolvere parte dei propri beni a un ente benefico; un’altra parte, invece, passò con alcune condizioni al cugino Febo D’Adda. Ferdinando è sepolto nella cappella ancora esistente sulla strada che da Settimo porta a Seguro.

    Agnesi

    Stemma: spaccato, al 1° d’oro, all’aquila di nero coronata del campo; al 2° d’azzurro, a due spade d’argento, manicate d’oro, passate in croce di sant’Andrea, le punte al basso, traversanti una spugna d’oro.

    Capostipite fu Giacomo, mercante di sete; suo figlio Pietro sposò Anna Brivio, figlia ed erede di Carlo Alfonso, cugino questi del conte di Brochles, feudatario di Montevecchia nella pieve di Missaglia, dal quale Pietro acquistò proprio il feudo Montevecchia. Maria Gaetana, figlia di Pietro, era soprannominata l’Oracolo Settilingue, perché conosceva oltre l’italiano, il tedesco, il francese, lo spagnolo, il greco, il latino e l’ebraico; per assecondare la volontà del padre, passò poi allo studio della filosofia e della matematica. Proprio in quegli anni il palazzo degli Agnesi era diventato uno dei salotti più ambiti di Milano, perché frequentato da molti intellettuali europei, tra i quali si ricorda Ludovico Antonio Muratori. Divenuta donna matura, si accentuò in Gaetana l’attrazione per la vita spirituale, ma non prese mai i voti, pur assumendo incarichi in materia teologica. Insegnò all’università di Bologna, dove morì nel 1799. Giuseppe, cavaliere, fratello di Gaetana, fu ammesso alla corte arciducale nel 1776. La famiglia aveva dimore per la villeggiatura a Bovisio e Montevecchia.

    Airoldi

    Stemma: grembiato d’azzurro e d’argento; al capo d’oro con l’aquila di nero, coronata del campo. Altro stemma: troncato di rosso e argento, al leone dell’uno e dell’altro, accantonato da quattro stelle a sei raggi dell’uno e dell’altro.

    Gli Airoldi sono attestati nella matricola dei nobili del 1377, ma è possibile risalire ad alcuni loro antenati vissuti alla fine del x secolo. Ebbero sicuramente le proprie radici nel territorio di Lecco. Nel xv secolo ricoprirono diversi incarichi alla corte ducale e spesso sono attestati anche quali notai, attivi nei territori di Milano e Como fra il xiv e il xvii secolo. Molti di loro ottennero cariche religiose, come Domenico, il quale alla fine del xv secolo fu abate generale dell’ordine benedettino a Milano. Mercanti e fini banchieri, dalla metà del Seicento ben quattro di loro occuparono la carica di tesoriere generale di Milano e altri undici della famiglia riuscirono a ottenere altri uffici. Nel 1647 Marcellino, figlio di Giovanni Battista e di Drusiana Invitti, acquistò dal fisco i feudi di Lecco e Bellagio e ottenne poi da re Filippo iv di Spagna il titolo di conte. Fu proprio Marcellino ad affidare a Giacomo Antonio Santagostino la realizzazione del ciclo mariano conservato nel santuario della Vergine del Fiume a Mandello del Lario. Agli inizi del xvii secolo un cadetto della famiglia, Giovanni Battista di Cesare, si trasferì in Sicilia e nel 1711 acquisì il titolo di marchese di Santa Colomba. Altro Cesare, marchese di Santa Colomba dal 1732, morì giovane e senza figli a Milano; suo fratello Giuseppe (†1799) si piccò di riuscire a organizzare un ricco matrimonio per il figlio Giovanni Battista, che effettivamente sposò Concetta Gravina, figlia ed erede di Pietro, duca di Cruyllas. Un altro cadetto, Stefano, vissuto nella seconda metà del Settecento, fu magistrato corrotto e insofferente a ogni controllo; usurpate importanti attribuzioni vicereali in Sicilia, assolse con grande scandalo due dei tre fratelli Palazzo, rei di omicidi e rapine. Implicato anche nello scandalo della falsificazione di titoli di credito, riuscì a farla franca. A Giovanni Battista successe il figlio Pietro (†1850) che sposò Lucrezia Calascibetta. Il figlio primogenito di questi, altro Giovanni Battista, fu terzo duca di Cruyllas e sposò Costanza Pignatelli (1828†1867), figlia del principe Giuseppe e di Bianca Lucchesi Palli. La coppia ebbe due figli maschi che però morirono senza eredi, pertanto i beni passarono a Cesare (†1887) che sposò nel 1853 Flavia Marino. Altro Cesare nel 1901 fu riconosciuto duca di Cruyllas, marchese di Santa Colomba, conte di Lecco e signore di Bellagio. Dalla moglie Stefania ebbe Cesare, che premorì al padre, nonché Francesco, erede dei beni e dei titoli (confermati nel 1929), il quale sposò Francesca Branciforte. Della stessa famiglia è Flavia (1902†1984) che sposò il marchese Francesco Arezzo, da cui ebbe Giulia, madre di Vincenzo Paternò, marchese di Regiovanni; quest’ultimo tra gli altri, ebbe Silvia, moglie dal 1987 del principe Amedeo di Savoia. Diversi furono gli Airoldi sepolti nella chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro in Robbiate; tra questi ricordiamo Desiderio (1541†1606) con buona parte dei suoi discendenti. Degli Airoldi di Robbiate è stato anche il curioso prete Ambrogio che morì d’infarto il 2 novembre del 1695, il quale avrebbe nascosto un prezioso tesoro di quattromila zecchini d’oro nella casa del cantone o nel torchio o altrove in Robbiate. Ritrovato forse da un contadino, del tesoro si perse comunque traccia, ma il ricordo è ancor oggi vivo in Brianza. Tra i membri di quest’altro ramo si ricorda inoltre Paolo (1793†1882), tenente maresciallo nell’esercito austriaco, consigliere intimo e gran maggiordomo dell’imperatore Ferdinando, confermato nell’antica nobiltà assieme ai fratelli Carlo e Michelangelo nel 1858; Paolo fu insignito dei titoli di cavaliere e barone dell’Impero austriaco con trasmissione ai discendenti maschi e femmine. L’omonimo nipote Paolo (1863†1932), figlio di Luigi, sposò l’ereditiera Bice Arnaboldi Gazzaniga (1869†1955) contessa del Pirocco, dalla quale ebbe Giovanna (1895†1981), sposata a un Federici, nonché Emilia contessa del Pirocco, sposata a Virgilio Brichetto di Genova, il cui figlio Paolo assunse il cognome Brichetto Arnaboldi Gazzaniga. Quest’ultimo, dopo l’8 settembre fu partigiano bianco; militò nella Resistenza nell’Organizzazione Franchi e grazie alla conoscenza dell’inglese e del tedesco facilitò i contatti con lo Special Operation Executive, che fu fornitore di approvvigionamenti e di armi alle formazioni di Sogno. Arrestato e rinchiuso a Dachau, dopo la liberazione ebbe la medaglia d’argento al valor militare. Figlia di quest’ultimo Paolo è Letizia Brichetto Arnaboldi Gazzaniga sposata Moratti (voce Arnaboldi Gazzaniga). Da Luigi Airoldi di Robbiate nacque anche il barone Luigi (1868†1937), generale dell’esercito, il cui figlio fu il meno noto Gian Luigi. Altri personaggi di questo ramo furono Eugenio, noto colonnello, nonché altro Eugenio (1903†1958), che fu tenente colonnello di cavalleria e sposò Letizia Caracciolo dei principi di Avellino. Nel 1982 i fratelli Paolo e Luca, figli del precedente Eugenio, donarono l’archivio di famiglia a quello di Stato di Milano. Paolo morì senza eredi, mentre Luca ebbe altro Eugenio.

    Ala Ponzoni

    Stemma: partito, al 1° di rosso al leone d’oro, tenente un semivolo d’argento con la zampa destra; al 2° inquartato di rosso e oro.

    Molti della famiglia, nota in Cremona sin dal 1082, appartennero al decurionato. Nel 1655 Daniele ottenne da Filippo iv diversi feudi; suo nipote Gian Francesco, figlio di Nicolò, sposò Beatrice dei conti Ponzoni, erede della sua famiglia. Pietro Martire, figlio dei precedenti, fu marchese di Castelletto, decurione e capitano della milizia urbana di Cremona; sposò Margherita Archinto, dalla quale ebbe due figli: Alberico e Gian Francesco. Giuseppe Sigismondo (1761†1842), figlio del marchese Alberico, ultimo della sua linea, fu educato presso il Collegio Pio Clementino di Roma, poi studiò diritto a Pavia; si interessò di scienze naturali, arti, archeologia e numismatica. Lasciò erede in parte l’imperatore Ferdinando i e con l’altra parte dispose la fondazione di una scuola di scultura che doveva avere a disposizione le collezioni del suo palazzo. Ma le volontà del marchese non ebbero attuazione sino al 1877, quando purtroppo buona parte del patrimonio risultava dispersa. Gian Francesco sposò Paola Cattaneo, la quale ereditò un cospicuo patrimonio; il figlio Daniele nel 1804 aveva sposato Maria Visconti Ciceri, erede della sua famiglia. Filippo, figlio dei precedenti, nel 1842 successe anche nei titoli di primogenitura del cugino Giuseppe Sigismondo Ala Ponzone, morto in quell’anno senza eredi. La famiglia si estinse definitivamente nel 1885 con la morte di Filippo, al quale sopravvissero due figlie: Paolina, sposata al conte Federico Cimino di Valenzano, e Adele, sposata a Charles Macé.

    Alari

    Stemma: d’azzurro, al destrocherio di carnagione, movente dal fianco sinistro, e tenente una lancia al naturale in palo, armata d’argento, frangiata di rosso, e alata presso la frangia; le ali d’oro frammiste di penne d’azzurro.

    Famiglia milanese di cui si hanno precise notizie solo dal 1702, quando Giacinto (1668†1753) possedeva poco più di cento pertiche di terra presso il naviglio della Martesana a Cernusco, dove l’anno seguente iniziarono i lavori di costruzione della grande villa suburbana, col progetto affidato all’architetto Giovanni Ruggeri: tre piani, due padiglioni per la servitù, un giardino alla francese di 200 mila metri quadrati. Descritta e illustrata da Marc’Antonio Dal Re nel 1743 nel suo celebre volume Ville di delizia o siano Palagi Camparecci nello stato di Milano, la villa, tra le più ricche e prestigiose del milanese, fu affittata per quattro anni (1771-1775) dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo, figlio dell’imperatrice Maria Teresa e governatore della Lombardia, che la utilizzò come residenza estiva, fino alla costruzione della villa di Monza. Le ingenti spese sostenute per l’edificazione e la decorazione della villa avevano però assottigliato il patrimonio della famiglia, pertanto gli Alari meditarono di venderla agli arciduchi, ma l’affare non andò in porto. Il sarcastico Pietro Verri scrivendo al fratello Alessandro, precisò la somma necessaria per l’affare: "Casa Alari ha chiesto 53 mila zecchini". Una pretesa smisurata per la tirchia Maria Teresa che, offesa, incaricò il Piermarini di valutare l’acquisto di villa Greppi, ma anche lì la trattativa non andò a buon fine, così nel 1777 l’arciduca e l’architetto scelsero Monza. Gli Alari riebbero la loro villa col mobilio ridotto in pessimo stato, però si accontentarono del modesto indennizzo offerto dall’imperatrice: una tabacchiera d’oro e 400 fiorini per ciascuno degli eredi. Giacinto fu fatto conte nel 1731, con titolo appoggiato sul feudo di Trebbiano da lui appena acquisito; ebbe lunga vita e sopravvisse ai figli Francesco e Saulo, morti entrambi in età giovanile. Alla morte di Giacinto, le proprietà e i titoli passarono al terzogenito Giuseppe, canonico, e ai nipoti Francesco (n. 1730) e Saulo (n. 1747). Anche Saulo Agostino fu fatto conte nel 1775, con titolo poggiato sul feudo di San Damiano, e con altro Saulo (1778†1831), figlio del precedente, che fu barone e scudiero di Napoleone i, la famiglia si estinse. Di quest’ultimo è monumento funebre in marmo bianco di Carrara che racchiude un tondo con il ritratto di profilo del conte Saulo, le insegne della Corona ferrea di cui il defunto era cavaliere, e l’iscrizione commemorativa. La proprietà della villa di Cernusco fu ceduta dal conte Saulo alla moglie Marianna San Martino della Motta che, vedova, sposò in seconde nozze Ercole Visconti di Saliceto.

    Albani di Bergamo

    Stemma: spaccato di rosso e d’azzurro, alla fascia d’oro attraversante sulla partizione, accompagnata da tre stelle dello stesso, 2 in capo, e 1 in punta.

    Famiglia di origini bergamasche presente in Bergamo fin dal secolo xi; nel xiii dette alla patria tre consoli. Nel 1459 gli Albani furono creati conti del Sacro Romano Impero. Nel 1512 Francesco fu uno dei dodici cui Bergamo, abbandonata dai Francesi, affidò il proprio governo. Giangirolamo (1509†1592), sposò Laura Longhi, erede del castello visconteo di Urgnano. Vedovo, abbracciò la carriera ecclesiastica che poteva sembrare stroncata quando il primo aprile 1563 i suoi figli Giovanni Domenico, Giovanni Francesco e Giovanni Battista, insieme a Manfredo Landi e numerosi sicari, uccisero a pugnalate Achille Brembati durante una celebrazione in Santa Maria Maggiore, segnando così un nuovo episodio della faida che da decenni divideva le due potenti famiglie. Tratto in arresto con i figli, con l’elezione del nuovo pontefice guadagnarono tutti la libertà e lui nel 1570 fu creato cardinale da Pio v. Suo figlio Giambattista era già stato eletto patriarca di Alessandria nel 1568. Delle tre figlie di Giangerolamo: Giulia fu moglie del letterato Enea Tasso, cugino di Torquato, e Lucia fu poetessa dell’Accademia degli Occulti. Bonifacio fu eletto arcivescovo di Spalato nel 1667 e morì nel 1678. La famiglia si estinse nei Medolago, donde i Medolago Albani ai quali, per eredità dei Rasini, spettò la villa suburbana di Limbiate, nel milanese.

    Albani di Roma

    Stemma: d’azzurro, alla fascia d’oro accompagnata nel capo da una stella di otto raggi d’argento, e da un monte di tre cime d’oro movente dalla punta. Lo scudo sormontato dal gonfalone e dalle chiavi pontificie poste nel mantello di scarlatto foderato di armellino, frangiato d’oro, accollato dall’aquila bicipite spiegata di nero, membrata, imbeccata, e sormontata della corona imperiale d’oro.

    L’albanese Giorgio, celebre condottiero al servizio di Roberto Malatesta di Rimini e di Francesco i di Urbino, si stabilì in Italia, ma la famiglia crebbe d’importanza solo con l’elezione a pontefice di Giovanni Francesco, col nome di Clemente xii, avvenuta nel 1700. Da questo momento la casata ebbe altri quattro cardinali: Annibale creato nel 1711, Alessandro nel 1721, Gianfrancesco nel 1747 e Giuseppe Clemente nel 1801. L’importante dimora romana della famiglia fu costruita entro il 1758 per il cardinale Alessandro (1672†1779), su progetto dell’architetto Marchionni, divenendo uno dei più importanti centri culturali del mondo occidentale. Il pur magnifico giardino all’italiana non è l’attrazione principale: la villa cela, infatti, una collezione di bassorilievi, sculture antiche, affreschi e quadri dal valore inestimabile. L’imperatore Giuseppe i innalzò quindi gli Albani al rango di principi dell’impero nel 1710, conferendo questa dignità al cardinal Annibale col diritto di trasmissione a tutta la famiglia. Carlo (1687†1724), marchese di Soriano al Cimino, feudo elevato a principato nel 1721, sposò Teresa Borromeo Arese. Le nozze furono celebrate per procura il 4 aprile 1714 dal vescovo di Novara Giberto Borromeo, nella cappella del palazzo del presule in parrocchia di Santa Maria Podone di Milano: lo sposo era rappresentato dal conte Giovanni Benedetto Borromeo Arese, mentre testimoni furono Uberto Stampa, Giacomo Dal Verme e il principe Antonio Teodoro Trivulzio. Dalla Borromeo ebbe i seguenti figli: Elena, che sposò il principe Michelangelo Caetani; Giulia, che sposò il principe Agostino Chigi; nonché l’erede Orazio (1717†1792), che sposò la principessa Maria Anna Matilde Cybo Malaspina di Massa. Orazio ebbe molti figli, tra i quali: Carlo Francesco (1749†1817) di cui fu erede la figlia Elena Giuseppa sposata Litta Visconti Arese; nonché Filippo Giacomo (1760†1852), che fu quarto principe Albani di Soriano al Cimino e del Sacro Romano Impero e lasciò i suoi beni ai cugini Chigi. Le attuali eredi degli Albani pertanto sono due famiglie: i Castelbarco Visconti Simonetta (voce) eredi del principe Carlo, e i Chigi eredi del principe Filippo.

    Albertoni Picenardi

    Stemma: troncato, nel 1° tre scaglioni di rosso su oro, nel 2° leone passante di rosso su oro sopra una fascia di rosso. Altro stemma: inquartato al 1° e 4° degli Albertoni; al 2° e 3° di Valdiscalve ovvero: d’azzurro a tre abeti nutriti della pianura erbosa con un orso passante, attraversante ed intrecciante tre tronchi, il tutto al naturale.

    Famiglia decurionale di Cremona, divenuta nota con Michele vissuto nel corso del Quattrocento. Un discendente, Domenico, fu eletto decurione nel 1560; dal fratello di quest’ultimo, Pietro, discese quel Francesco che nel 1771 fu investito del feudo di Macherio. L’omonimo nipote Francesco (1796†1848) sposò Maria Amalia Erba Odescalchi, dalla quale ebbe Carlo (1824†1896), sposato a sua volta con Maria erede dei Picenardi. Carlo nel 1845 era nelle guardie nobili del Lombardo Veneto, ma scoppiati i moti insurrezionali nel 1848, entrò nella cavalleria del Piemonte. Fu anche aiutante di campo del generale Cucchiari. Suo figlio Francesco (1853†1902) sposò Cecilia Conturbia e fu padre di Carlo e Arturo. Dell’altro ramo, Alberto, fratello del primo Carlo, fu conte di Scalve e sposò Sofia Barbò, dalla quale ebbe i figli Emerico e Muzio; il primo figlio sposò Anna Rangoni Macchiavelli, il secondo Antonietta Meli Lupi di Soragna. Quest’ultima coppia ebbe tre figli maschi: Alberto sposato con Ippolita Greppi, dalla quale ha avuto Muzia e Marco; Bonifacio con Ottilia Grosch Auer; Lucio sposato con Maria Giovanna Pirelli (voce), dalla quale ha avuto quattro figli; Lorenzo sposato con Fernanda Sottocasa. Rivestì un indubbio fascino a Milano la madre di Fernanda, Gabriella Levi, nata nel 1875 a Reggio Emilia da una famiglia ebraica triestina e moglie del conte Gerolamo Sottocasa. Donna dai molteplici interessi, tenne un ambito salotto nella sua casa milanese di corso Venezia che nel Ventennio divenne il più frequentato della città. Qui si potevano ritrovare Ada Negri e Margherita Sarfatti, nonché D’Annunzio, Pirandello, Palazzeschi, Panzini, Marinetti e Boccioni. La contessa Sottocasa, famosa per la sua capacità di predire il futuro attraverso la lettura della mano, stando ai ricordi del nipote Muzio Albertoni, lesse la mano anche a Mussolini. Al Duce predisse gloria e successo, ma anche una fine tragica. Di Mussolini agli eredi della contessa resta un autografo di ringraziamento datato 1922, dove si legge Alla contessa Sottocasa, reggitrice nel futuro, con deferente cordialità, Mussolini. Il predicato di Val di Scalve si deve al decreto di conferma del 1879, col quale re Umberto i concedeva ad Antonio, figlio secondogenito di Francesco, la facoltà di assumere il titolo comitale concessogli con decreto del 1875 da Vittorio Emanuele ii.

    Albuzzi

    Stemma: d’azzurro, al castello torricellato di due torri d’argento, aperto e finestrato del campo, accompagnato da una stella di otto raggi d’oro fra le due torri; col capo d’oro, caricato da un’aquila di nero, coronata d’oro. Altro ramo: d’oro, a tre fasce di rosso, attraversate da una banda del medesimo.

    Apparve nel Cinquecento a Milano e nel milanese con diversi nuclei familiari, probabilmente derivanti dallo stesso capostipite. Un Gianguido (1508†1583) fu fisico collegiato nel 1577; dalla moglie Luisa Lampugnani ebbe i figli Fabio che fu medico e Francesco, uomo di lettere, nominato cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro. La tomba di questo ramo si trova nella chiesa di Sant’Eustorgio. Un Aurelio fu erede di Ludovico Porro e con la famiglia abitava nel castello di Lentate a metà del Seicento.

    Alciati

    Stemma: partito, al 1° d’argento, al castello di rosso aperto del campo e torricellato di due pezzi, ciascuna torricella finestrata del campo e merlata di due pezzi alla ghibellina, sormontato da un’aquila di nero linguata di rosso e coronata d’oro coi piedi sostenuti dalle due torricelle; al 2° fasciato d’argento e di rosso.

    Questa famiglia fu compresa nella matricola del 1377; fra i suoi uomini celebri si deve annoverare Francesco dottore del Collegio di Milano e cardinale vissuto nel secolo xvi; nonché soprattutto Andrea (1492†1550), anch’egli dottore di Collegio e senatore, insigne giurista e storico. Nato a Milano e unico figlio noto di Ambrogio e di Margherita Landriani, dopo aver ottenuto nel 1516 la laurea in Ferrara in entrambe le leggi, nel 1518 andò ad Avignone a insegnare diritto. Le sue lezioni erano frequentate da giuristi, letterati, chierici e politici; persino il re Francesco i di Francia vi assistette e le lezioni che videro presente il re furono date alle stampe a Basilea nel 1582. Dopo aver insegnato anche a Bourges e a Bologna, le autorità di Milano gli imposero il rientro a Pavia. Morì il 12 gennaio 1550, dopo aver nominato suo erede il citato cardinal Francesco che gli succedette nella sua cattedra. Ebbe un monumento funebre nella chiesa di Sant’Epifanio, trasferito poi nel corso del Settecento nel cortile dell’Università di Pavia. Giovanni Paolo fondò il Collegio Alciato in Pavia. Altro Francesco fu riconosciuto patrizio milanese sul finire del secolo xviii, ma morì improvvisamente, senza lasciare posterità, trovandosi presso i Rosales a Monguzzo.

    Alemagna

    Stemma: partito, a destra d’oro, all’aquila spiegata di nero uscente dalla partizione; a sinistra d’oro, a tre bande di rosso.

    Oriunda di Varese, dove nel Seicento abitava Pietro Antonio con la moglie Maria Masnago; questa coppia ebbe molti figli, tra cui Giuseppe, che sposò Elisabetta Rovida di Lugano. Altro Giuseppe, giureconsulto, nipote diretto del precedente e figlio di Pietro Giacomo, divenne feudatario di Bucinago e Roncello nel 1756 e l’anno seguente ebbe il titolo di conte dall’imperatrice Maria Teresa. Dal matrimonio con Giulia, figlia del marchese Cigalini di Como, Giuseppe ebbe Giacomo e Carlo (1765†1847), quest’ultimo creato cavaliere della Corona Ferrea e barone dell’impero da Napoleone i. Dal matrimonio del conte Giacomo nacquero quattro figli: Carlo; Alessandro; Marianna che sposò un Baruffini; infine, Leopolda. Altri personaggi di rilievo furono: Alberto, figlio del conte Pietro Giacomo, il quale fu eletto dal Bonaparte a membro della congregazione di Stato, ma poi ebbe sequestrato il proprio patrimonio dagli austriaci; nonché il conte Emilio (1833†1910), che fu famoso architetto e progettò il parco Sempione. In stile prevalentemente neobarocco, progettò anche palazzi nobiliari e ville in Milano e nei contadi attorno alla città. Fabbricò inoltre in Lonigo la villa Giovanelli e, a Milano, la facciata della chiesa di San Francesco di Paola. Suoi anche i progetti del nuovo scalone del palazzo Trivulzio in Sant’Alessandro a Milano, della villa d’Adda ad Arcore, della villa Esengrini a Varese. Ora la famiglia risulta estinta per assenza di discendenza maschile, ma continua in linea femminile attraverso gli Aletti Alemagna, per il matrimonio tra un Aletti e Elisabetta di Alberto, di Riccardo, di Giuseppe di Gian Giacomo. Carlo Alberto Aletti Alemagna, pittore, abita nella sontuosa villa di famiglia a Barasso, presso Varese.

    Forse d’altra famiglia, Gioacchino (1892†1974) fondò l’omonimo gruppo dolciario, passato poi all’iri. Il figlio Alberto (1924†1995) fu presidente egli stesso della società prima della definitiva vendita all’iri; perì per i postumi di un incidente stradale. Dopo il sequestro del figlio Daniele, rapito all’età di sette anni il 23 ottobre 1974 e rilasciato il ventinove dello stesso mese, dietro pagamento di un riscatto di due miliardi di lire, la famiglia di Alberto Alemagna trasferì la residenza a Crans sur Sierre, in Svizzera.

    Alfieri

    Stemma: d’azzurro, al semivolo d’argento, ferito da una freccia d’oro posta in banda colla punta al basso.

    Tommaso da Napoli si recò a Milano al seguito del condottiero Francesco Sforza. Il figlio Giacomo, documentato nell’ultimo quarto del xv secolo, fu segretario ducale e sposò Orsina Anguissola. Altro Tommaso, figlio di Giacomo, cameriere ducale ai primi del xvi secolo, sposò Alfonsina Acquaviva figlia del conte Corrado di San Valentino, dalla quale ebbe quella Giovanna, che sposò Gianfrancesco de Medici, nonché i figli Galeazzo Maria e Antonio Maria, capostipiti di due distinti rami. Galeazzo Maria, questore del magistrato straordinario nel 1533, dalla moglie Caterina del Conte ebbe tre figli: Giacomo, che fu segretario ducale; Gian Pietro, che fu giureconsulto e vicario in Cremona; infine Gerolamo, che fu cameriere ducale e continuatore del suo ramo. Figlio di Chiara Moroni e di Gerolamo, altro Giacomo ricoprì diversi uffici e nel 1609 fu eletto senatore di Milano. Dei due figli maschi di Giacomo, Martino fu arcivescovo di Cosenza e Gian Andrea successe al padre nell’ufficio di senatore nel 1639. Giacomo Maria, figlio del precedente, sposò Isabella Castiglioni e fu il primo conte di Azzate dal 1657. Il figlio Gian Andrea morì ultimo del suo ramo nel 1712, lasciando erede del patrimonio allodiale la figlia Antonia, sposata a Giuseppe Vimercati. Della linea di Antonio Maria, il figlio di questi, Gian Gaspare, e il nipote Ascanio ricoprirono incarichi in uffici minori dello Stato di Milano. Gaspare, figlio di Ascanio, invece, già giureconsulto collegiato dal 1602, fu vicario di provvisione nel 1633. Altro Ascanio, figlio di Gaspare, fu dei lx decurioni; dal matrimonio con Ippolita Imbonati ebbe tre figli: Filippo, canonico del duomo, Giacomo e Francesco. Ascanio, figlio di Francesco, fu bandito dallo Stato per aver tentato di uccidere il conte Barnaba Barbò e per aver avuto illecito connubio con la moglie di quest’ultimo; con lui si estinse la famiglia.

    Aliprandi

    Stemma: grembiato di rosso e d’argento, al bisante posto in cuore d’oro.

    Una leggenda nata probabilmente con il consueto scopo di dar lustro al casato, la fa derivare dal re longobardo Liutprando (†744), sotto il quale in effetti viveva il nobile Aliprando, che nel 744 per mano di Rachis divenne duca di Asti. In epoca comunale esercitarono la signoria sulla città di Monza. Di questa famiglia fu anche la beata Caterina. In ogni caso, sin da epoche antiche la famiglia si divise in numerosi rami, tutti ben documentati. Un ramo degli Aliprandi si trapiantò a Cremona ed ebbe folta discendenza a partire da Giovanni, decurione nel 1387. Anche a Verona si ebbero gli Aliprandi, che presero poi il nome di Cartolari; mentre un ramo si trasferì in Penne, negli Abruzzi, ove ottenne il locale patriziato. Atri rami furono presenti anche a Bergamo e Mantova. Il ramo milanese è documentato dalla lunga iscrizione sepolcrale del 1131, collocata nella chiesa di Santa Maria delle Grazie in Monza per volontà di Ariberto e Bertarido, figli di Rodolfo. Giovanni, vivente nel 1220, figlio di Manfredo, di Giovanni, di Bertarido, ebbe tre figli: Arnolfo, Garibaldo e Bertarino. Pinalla, figlio di un Garibaldo detto anche Rebaldo o Balaldo, entrò giovanissimo nell’esercito di Azzone Visconti e nella primavera del 1329 riconquistò Monza, cacciando le truppe di Ludovico il Bavaro. Nell’aprile del 1333, invece, già podestà a Bergamo, condusse seicento fanti in soccorso di Ferrara, assediata da Bertrando del Poggetto, e insieme alle truppe scaligere, gonzaghesche e fiorentine, disperse l’esercito papale. Nel 1336 su ordine di Azzone Visconti devastò Piacenza e il suo contando, che capitolò nelle mani dei viscontei. Nel 1339, quando Lodrisio Visconti mosse contro Milano, Pinalla gli sbarrò contro cinquecento cavalieri, vincendolo però solo a Parabiago. Tenuto in disparte dall’erede di Azzone, Luchino, nel 1341 entrò a far parte della congiura ordita contro costui dai Pusterla e da altri nobili milanesi, ma scoperto, fu arrestato, torturato e fatto morire di fame. Enrico, figlio di Astolfo e discendente da Bertarino, nel 1322 divenne signore di Monza. Francio, figlio di Enrico, fu ambasciatore presso il papa ad Avignone; Giacomo i, altro figlio di Enrico, si distinse nei tornei organizzati dai Gonzaga e nel 1355 fu chiamato a far parte del

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