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Tutte le parti del mondo
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E-book522 pagine6 ore

Tutte le parti del mondo

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Info su questo ebook

2002 il mondo è ancora scosso dagli attentati dell’11 settembre del 2001 e gli U.S.A. hanno condotto una guerra contro il regime dei Talebani in Afghanistan e successivamente contro l’Iraq guidato dal dittatore Saddam Hussein. La C.I.A. ha intrapreso una operazione segreta a livello internazionale, denominata “Extraordinary renditions”, una serie di rapimenti mirati e clandestini ai danni di persone ritenute vicine o facenti parte di organizzazioni terroristiche, al fine di ottenere informazioni utili a evitare nuovi attentati e scardinare le organizzazioni stesse. I rapiti, alcuni catturati in Europa e anche in Italia, sono condotti in altri paesi, molti di essi mediorientali, e interrogati utilizzando la tortura. “Tutte le parti del mondo” racconta una di queste vicende, tra Roma e Algeri, una storia che coinvolge donne e uomini diversi per origini, età, esperienze di vita, ma uniti tra loro da trame di potere, da ideali traditi o da sentimenti d’amore che tentano di resistere alla violenza della Storia.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2023
ISBN9791222432472
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    Anteprima del libro

    Tutte le parti del mondo - Franco Limardi

    1

    Il colpo di vento era arrivato rapido, improvviso. Aveva scosso i rami degli alberi con una violenza breve, secca come una frustata.

    La foglia del platano ormai priva di linfa, ocra, era sembrata accartocciarsi ulteriormente, quasi un ultimo tentativo di aggrapparsi al ramo spostato dalla folata rabbiosa; poi si era staccata, iniziando una discesa che aveva disegnato nell’aria un percorso breve, una spirale stretta, prima di finire sul marciapiede che costeggiava il muro di un grigio molto simile all’asfalto.

    Il binocolo si spostò dalla foglia e risalì verso le chiome di alberi che s’intuivano appena dietro la sommità di quel muro, costellata di pezzi di vetro fissati con il cemento.

    Senza staccare gli occhi dal binocolo, l’uomo spostò lo sguardo verso i due capi della strada; prima a sinistra, poi a destra.

    Si soffermò sul furgone bianco parcheggiato all’estremità nord della via, sulla cabina il cui interno non era ancora perfettamente distinguibile nella luce pallida e fredda del primo mattino. Aspettò qualche istante; poi un movimento breve, appena percettibile, gli disse che gli uomini all’interno dell’abitacolo erano svegli, in attesa, pronti.

    L’uomo riprese a fissare la strada, cercando alla sua destra, in direzione sud, la berlina argento metallizzato all’altro capo della via. Una nuvola di fumo salì verso l’alto dal finestrino dell’auto. Attraverso le lenti riuscì a vedere l’uomo al posto di guida portare alla bocca più volte la sigaretta e aspirarla con tirate brevi ma profonde, a giudicare dal fumo biancastro e spesso che si rovesciava al di fuori dell’abitacolo. Accanto al fumatore, un altro uomo dormiva con la testa appoggiata al montante della portiera.

    Restò a fissarli per qualche minuto, quelli sufficienti a che il fumatore prendesse un’altra sigaretta dal pacchetto e l’accendesse col mozzicone della precedente.

    L’osservatore abbassò il binocolo; i tratti del suo volto erano fermi, duri; i suoi occhi erano animati da una luce fredda.

    Si voltò verso il tavolo al centro della stanza; su un panno scuro e spesso era adagiato il Remington M40A1 e accanto al fucile giaceva il mirino telescopico ancora smontato.

    Guardò l’orologio, erano passati tre minuti dopo le sei. Nella mente ripassò in fretta la scansione dei tempi; se tutti avessero corrisposto a quelli fissati durante gli appostamenti, la faccenda sarebbe iniziata tra un’ora o poco più.

    Il pensiero che gli attraversò la mente, essenziale, netto, fu questo, la faccenda inizierà tra un’ora. Non potè definirla in altro modo e subito l’abbandonò, lasciò la situazione in procinto di accadere per tornare a concentrarsi sul quadrante dell’orologio, quindi sul fucile posato sul tavolo.

    Si sfilò la giacca che poi posò ordinatamente sulla spalliera di una sedia.

    Sciolse il nodo alla cravatta e la tolse. Sbottonò il colletto della camicia, avvertendo subito che il suo respiro si era fatto più libero.

    Cercò con lo sguardo il borsone scuro che aveva portato con sé. Ne trasse un gilet che aveva una sorta di spallina, un rinforzo, all’altezza della clavicola destra.

    Lo indossò e fissò con attenzione le strisce di velcro che ne costituivano la chiusura. Provò dei movimenti con le braccia; allentò di poco le strisce, quindi si avvicinò al tavolo e prese con delicatezza l’ottica e la avvicinò al castello del fucile. Con un movimento attento e deciso fece scivolare il supporto del mirino lungo il sottile binario metallico fino a fissarlo sull’arma. Si assicurò che fosse ben fermo, e poi provò alcune volte a imbracciare il fucile e puntarlo.

    Il gilet non gli impediva i movimenti e di nuovo sul suo volto comparve un’espressione soddisfatta; poi si avvicinò alla finestra e senza aprirne i vetri, puntò attraverso il cannocchiale. Solo per un istante rammentò le immagini della sera prima, quando aveva preparato meticolosamente il fucile, aggiustando l’ottica affinché la canna silenziata e il reticolo della lente fossero perfettamente coassiali.

    Fece scorrere indietro il cilindro dell’otturatore; il meccanismo si mosse senza ostacoli, con dolcezza. Osservò con attenzione l’interno dell’arma, poi estrasse dal borsone una scatola di cartone quadrata; la aprì e tra le sue dita comparve l’opaco luccicore di un proiettile 7,62. Lo guardò con attenzione poi lo infilò nel Remington e infine il cilindro dell’otturatore spinse la munizione nella camera di sparo.

    Posò delicatamente il fucile sul tavolo dopo averlo messo in sicura.

    Altri quattro proiettili finirono nella cartucciera sul fianco destro del gilet. Controllò nuovamente l’orologio; le 6:25. Ci sarebbe il tempo per un caffè, pensò, ma ricacciò indietro quel desiderio perché il caffè italiano è troppo forte, gli avrebbe fatto aumentare i battiti cardiaci e la velocità del respiro, guastandogli sicuramente la mira.

    Si sedette su una poltrona davanti alla finestra e cercò di rilassarsi; qualche minuto e sarebbe stato in azione. Respirò profondamente mentre teneva gli occhi chiusi, concentrandosi sul suo compito.

    Il rumore di chiavi nella serratura della porta dell’appartamento interruppe la sua concentrazione. Si voltò verso l’ingresso, senza alzarsi, ma teso in ogni muscolo del corpo.

    2

    Quella luce fredda, piatta, di un mattino nuvoloso nel pieno dell’autunno, sembrava spandere su tutto uno strato uniforme di grigio.

    Una luce che non era mai piaciuta a Massimo Ritter; da sempre aveva urtato il suo senso estetico, la sua personale passione per i colori, per la tonalità calda e dorata del sole pieno, capace di animare anche con un semplice tocco l’aspetto di edifici e palazzi.

    Quel grigio poi, non lo liberava da quella sensazione di disagio, di gelido fastidio, di trovarsi in un posto che lo guardava, sì lo guardava, con freddezza.

    Perché la convinzione più profonda dell’architetto Massimo Ritter è che gli ambienti, le case, i luoghi rispondano all’uomo che li abita, che li attraversa e che quegli ambienti gli restituiscano sensazioni e stati d’animo.

    Pensa sempre molto a quest’aspetto l’architetto Ritter quando progetta, che sia la villa al mare di un imprenditore, la ristrutturazione di un’elegante casa umbertina del centro di Roma da adattare a ufficio per un’importante società o la riorganizzazione degli ambienti in qualche edificio pubblico che doni comunque, ai cittadini che lo frequenteranno, la sensazione di trovarsi in un luogo moderno e funzionale, ma al tempo stesso umano e accogliente.

    Ecco, quello che mancava all’appartamento di Silvia Ferretti era proprio questo, la capacità di essere accogliente. Di sicuro elegante nella sua essenzialità e razionale nella distribuzione degli spazi, ma freddo, distante e mai ospitale, appena mitigato nel suo distacco dalle luci soffuse alla sera, in grado di ammorbidire la durezza delle sue linee.

    Ora però era mattino presto e la cucina dell’appartamento di Silvia appariva come un trionfo di mobili di un candore assoluto, profilati da un acciaio gelido, illuminati da luci bianche altrettanto fredde.

    Tutto sembrava rivolgersi a Massimo Ritter ponendogli un maleducato interrogativo: Ma quanto ci metti a finire quel caffè? Quanto ci metti ad andartene?

    E se non fosse stato, invece, più semplicemente, il disagio di trovarsi a casa della propria amante, collega di studio di quindici anni più giovane, a pochi chilometri dalla propria casa, dove una moglie lo aspettava convinta che invece Massimo Ritter stesse per scendere dal treno che lo riportava a Roma da una trasferta di lavoro milanese?

    Questo pensiero, fastidioso, si era affacciato alla mente dell’architetto Ritter ma era stato ricacciato indietro come altre volte, seppure con una fatica che diventava ogni volta crescente.

    Nessun imbarazzo no, nessun disagio, si disse, se non quello determinato da una sensibilità estetica così acuta, da rovinargli quegli ultimi minuti d’intimità con Silvia.

    «Sei già pronto?»

    La voce di Silvia attraversò il silenzio prendendolo di sorpresa. Ritter si distolse dal panorama di tetti del rione Sallustiano contenuti nel riquadro della finestra e si voltò verso l’interno della cucina. Silvia si muoveva rapida e sicura tra il frigo e i fornelli; non gli dedicò nemmeno uno sguardo, mentre l’architetto era rimasto immobile con le mani strette intorno alla tazza del caffè.

    «Mi sono svegliato presto. Tu dormivi e non volevo darti fastidio.

    Non sapevo che fare e così mi sono preparato.»

    «Uhm… ti ha preso l’insonnia… forse colpa di troppi pensieri.»

    Ritter percepì una nota sarcastica nella voce della donna. Lei gli dava le spalle, ma l’architetto era sicuro che sul suo viso fosse comparsa quell’espressione tagliente che altre volte le aveva visto, la stessa che sembrava esaltare la sua bellezza pressoché perfetta e, a volte, distante. Tuttavia cercò d’ignorare il sarcasmo, sperando così di annullarlo.

    «No… nessun pensiero, anzi. Abbiamo ottenuto quella commessa dai milanesi, è un progetto grosso, redditizio e di prestigio. Sei contenta anche tu, no?»

    «Ah già, il contratto con i milanesi… ma forse è il viaggio da Milano che ti preoccupa.»

    Silvia si era voltata e quelle parole le aveva pronunciate guardandolo negli occhi con quell’espressione beffarda che sì, era realmente distesa sui suoi tratti regolari e perfetti, resi ancora più levigati dalla luce lattiginosa del mattino.

    Ritter incassò il colpo. Si rabbuiò in volto, ma dovette attendere qualche istante prima di riuscire ad abbozzare una risposta.

    «Ne abbiamo parlato tante volte e sai quanto questa cosa mi dispiaccia, quanto mi umili… sì, mi umili. Sappiamo anche che è una situazione momentanea e che finirà, l’abbiamo detto tante volte.»

    «Appunto Massimo, tante volte e la situazione momentanea dura ormai da due anni. Come tempi tecnici, chiamiamoli così, sono un po’ lunghi, non trovi?»

    Ritter sentì crescere il gelo intorno a lui. Ebbe la sensazione che la stanza si allargasse, che le pareti si allontanassero, lasciandolo al centro di uno spazio largo, troppo largo.

    «Senti architetto, mi prendo la mattinata. Verrò in studio oggi pomeriggio, tanto con il lavoro sono nei tempi e non devo correre appresso a nessuno. Spero non ti dispiaccia se non ti accompagno a Termini.»

    Massimo Ritter avvertì distintamente in quelle parole il fastidio che la donna provava per lui in quel momento. Qualcosa di molto vicino al disprezzo. A sua volta sentì in sé una rabbia istintiva, un astio nei confronti della donna che lo fronteggiava con lo sguardo fermo e distante.

    «No, non importa. Prendo le mie cose e vado.»

    La tensione che si leggeva nelle parole di Ritter ammorbidì l’atteggiamento di Silvia.

    «Ti chiamo un taxi.»

    «Lascia stare, non importa. Sono sicuro di trovarne facilmente qualcuno qui vicino.»

    Ritter non le lasciò il tempo di aggiungere altro. Uscì dalla cucina e percorse rapidamente il corridoio che conduceva alla stanza da letto. Con pochi gesti gettò nella piccola valigia il pigiama e lo spazzolino. S’impose di non guardare il letto disfatto, ma il ricordo del suo corpo disteso accanto a quello di Silvia gli restituì una nuova ondata di malessere.

    «Buona giornata» disse senza entusiasmo dalla porta della cucina.

    Non attese risposta e il ciao di Silvia lo inseguì nel corridoio fino alla porta d’ingresso, che attraversò in fretta senza badare se la donna si fosse affacciata sul corridoio.

    Fuori, sul pianerottolo, gli sembrò di poter respirare più a fondo, anche se l’aria che gli riempì i polmoni aveva lo stesso gelo che saliva dal marmo del pavimento.

    Scese le scale nel silenzio dell’elegante palazzo. Nulla, dietro le solide porte color mogano, faceva intuire tracce di vita.

    Quando fu uscito sulla strada, alzò gli occhi al cielo che si era rischiarato impercettibilmente. Pensò al percorso che avrebbe fatto fino alla stazione Termini, fino al taxi da cui si sarebbe fatto portare a casa.

    Guardò l’orologio, le lancette segnavano una manciata di minuti alle sette; il treno sarebbe arrivato da Milano alle 7:15, il tempo giusto per quella passeggiata, per dare un senso alla commedia che si apprestava a recitare.

    3

    Aveva lavato accuratamente con acqua pura prima le mani, poi la bocca e il naso, quindi il resto del volto, le braccia, la testa le orecchie e i piedi.

    Lo aveva fatto cercando di concentrarsi totalmente sui versetti della prima Sura, circondato dal freddo del mattino appena iniziato, che sembrava ancora più tagliente amplificato com’era dalle vecchie mattonelle di un bianco sporco che dal pavimento salivano fino a metà dei muri.

    Ayoub Djafer sentì rumori provenire dagli appartamenti vicini. Il suono di un qualsiasi mattino di risvegli, del rumore di scarichi, delle musiche impastate a voci indistinte, forse di uno speaker radiofonico, forse di un padre irritato con un figlio pigro e lento ad alzarsi.

    Cercò di concentrarsi ancora di più sulla preghiera mentre si vestiva meticolosamente, indossando il completo nero e la camicia candida. Chiuse il colletto e con un gesto sicuro ne aggiustò le ali. Incontrò il proprio sguardo nello specchio, il viso dai tratti regolari, i capelli tagliati corti e la barba che ancora stentava a crescere in modo da donargli l’aria austera che avrebbe voluto.

    Si rimproverò, perché quell’occhiata lo aveva distratto e per qualche istante si era fatto prendere dal compiacimento per il proprio aspetto, da quella vanità inutile e colpevole. Distolse gli occhi dalla superficie dello specchio e il suo viso fu percorso da una tensione sottile.

    Mentre usciva, il suo sguardo cadde sul vecchio termosifone e sul paio di slip femminili che vi erano appesi. Sul suo viso, alla tensione, si aggiunse un rossore improvviso che gli colorò le guance.

    «Ci vorrebbe un altro bagno… anzi, ci vorrebbe un’altra casa. Qui è stretto e le cose ci cadono addosso.»

    Ayoub fissò con severità sua sorella Hawwa. Gli era venuta incontro in pigiama, senza curarsi di coprire almeno con una vestaglia la sua figura.

    «Ora mi toccherà fare una corsa per riuscire a uscire da casa in tempo» riprese la ragazza. «Se perdo l’autobus, dovrò aspettare almeno mezz’ora.»

    «La purificazione è un obbligo del credente. Lo sai benissimo e io non posso e non voglio trascurarla.»

    Ayoub aveva parlato con tono calmo ma scandendo bene le parole e Hawwa aveva perfettamente percepito il rimprovero che la sua frase conteneva.

    «E io non posso trascurare il mio lavoro. È già stato difficile trovarlo e ci vuole poco a perderlo.»

    «Non sarebbe male se tu lo perdessi. Non mi piace che tu stia in quel negozio in mezzo… in mezzo…»

    Un sorriso sarcastico illuminò le labbra della ragazza.

    «Proprio una bella idea. E di cosa vivremmo se perdessi il lavoro?»

    Il viso di Ayoub assunse un’espressione dignitosa e compresa, mentre il giovane raddrizzava le spalle, quasi volesse sottolineare anche con il corpo l’importanza della sua risposta.

    «C’è la mia borsa di studio e quello che ci mandano i parenti.» Il sorriso di Hawwa si fece ancora più largo.

    «Certo, i quattro soldi che ti passa il centro culturale e quella miseria che arriva da Algeri. Te lo dico io come finiremmo, a mangiarci i mobili di questa catapecchia, prima di essere buttati fuori dal padrone di casa. Adesso fammi passare, sono già in ritardo.»

    «Non dovresti parlarmi così, sono tuo fratello e mi devi rispetto.»

    Il sorriso scomparve dal volto di Hawwa. Un lampo di rabbia illuminò il suo sguardo e i suoi tratti regolari e raffinati disegnarono una maschera altera e distante.

    «E tu ne devi a me, sono la maggiore tra noi, te lo ricordo.»

    Ayoub era divenuto livido, fissava a sua volta la sorella con occhi accesi, taglienti.

    «Ti dovrei rispetto se tu non fossi occasione di scandalo. Io prego affinché gli amici e chi ci conosce non ti incontrino per strada, vestita in modo indecente, alla stessa maniera di queste donne senza timore di Dio. Col tuo… lavoro, col tuo stare insieme a questa gente, tu disonori la tua famiglia.»

    Hawwa si avvicinò al fratello con uno sguardo di fuoco. Rimasero così, una di fronte all’altro per un lunghissimo istante, prima che la ragazza dicesse con un tono di voce che tradiva la tensione: «Se qualcuno offende gli insegnamenti che ci hanno dato i nostri genitori, quello sei tu. Cosa direbbero sentendoti parlare così? Cosa direbbe nostro padre?»

    Un’ombra di sgomento attraversò lo sguardo di Ayoub, che abbassò gli occhi a terra.

    «Lascia stare nostro padre… lascialo stare. Quello che pensava, quello che diceva, che ci diceva, è forse la causa di ciò che Dio ha deciso per lui.»

    La rabbia sul volto di Hawwa si tramutò prima in incredulità, poi in un dolore evidente che riempì di lacrime gli occhi della ragazza.

    «Ayoub… è di nostro padre che parli. Lui ha fatto in modo che ci salvassimo, che potessimo venire qui.»

    Ora anche il volto di Ayoub era attraversato dalla tensione provocata dai ricordi, dal dolore. Il giovane cercò di mascherare il suo stato d’animo distogliendo lo sguardo, forzandosi di riprendere il controllo e la freddezza di poco prima.

    «La salvezza non è tra questa gente, non è tra di loro. Nostro padre si sbagliava, quando guardava a questo mondo come al proprio.»

    La tristezza s’impadronì dei tratti di Hawwa. La ragazza portò le mani al viso, a coprire la bocca, mentre grosse lacrime presero a scenderle lungo le guance. Guardò suo fratello senza più rabbia, ma con una muta disperazione, come sempre accadeva quando tra loro si materializzavano i fantasmi del passato.

    «Devo andare» disse seccamente Ayoub, ma anche nella sua voce c’era la traccia di un dolore lacerante, di una pena a stento trattenuta.

    Gli rispose un singhiozzo soffocato. Il giovane percorse lo stretto corridoio su cui il vecchio lampadario stendeva un velo uniforme di luce giallastra; indossò un giaccone scuro e prese una borsa da lavoro gonfia e pesante. L’eco del tonfo della porta d’ingresso galleggiò nell’appartamento rimbalzando sui muri, superando la cucina e le stanze, fino a raggiungere Hawwa.

    La ragazza ricacciò indietro le lacrime, si asciugò il volto col palmo delle mani, mentre sui suoi tratti tornava un’espressione determinata. Lanciò un’occhiata all’orologio; attraverso un velo di lacrime vide che intanto il tempo era trascorso indifferente e implacabile. Con una sensazione di vuoto al centro del corpo, con una stanchezza maligna che si era impadronita di lei, si costrinse a entrare nel bagno fino a fermarsi davanti allo specchio dove fissò, smarrita, la sua immagine riflessa.

    4

    Michael Pearlman entrò nell’appartamento seguito dall’uomo che portava a spalla una larga borsa da fotografo.

    I due percorsero il corridoio illuminato solo in parte dalla scialba luce che si riversava all’interno da due finestre le cui serrande erano state sollevate.

    Pearlman aveva l’aria tesa e concentrata; i suoi occhi si accorsero della sagoma nascosta nell’angolo buio, solo quando fu a pochi passi.

    Pearlman si bloccò fissando l’uomo che indossava uno strano gilet e teneva, nella mano distesa lungo il fianco, un coltello da combattimento dalla lama brunita.

    Lo sguardo dell’uomo con il coltello si spostò rapidamente sull’uomo con la borsa da fotografo, per poi tornare velocemente su Pearlman.

    «È tutto a posto Ned. È con me.»

    Pearlman aveva parlato con un tono insieme asciutto e rassicurante.

    Ned Hellstrom allentò la tensione dei muscoli e con un gesto semplice fece sparire il coltello nel fodero che nascondeva dietro la schiena, fissato alla cintura.

    «Buongiorno signore» disse Ned facendosi da parte e lasciando che i due nuovi arrivati percorressero l’ultimo tratto del corridoio.

    La sala era illuminata dalla luce fredda del mattino. Ned Hellstrom raggiunse con due passi il tavolo e coprì con il panno il fucile che vi era adagiato, e su cui si era posato lo sguardo curioso dell’uomo con la borsa da fotografo.

    «Sei arrivato prestissimo, Ned.»

    «Mi sono fermato qui stanotte, signore. Ho preferito non correre il rischio di ritardare.»

    Michael Pearlman annuì; conosceva perfettamente la scrupolosità di Hellstrom, eppure non poteva fare a meno di rimanerne ogni volta stupito.

    L’uomo con la borsa da fotografo si avvicinò alla finestra e cominciò a guardare in basso lungo la strada. Si spostò più volte per tutta la lunghezza dei vetri, cambiando spesso angolazione rispetto alla finestra.

    Hellstrom lo osservava con uno sguardo atono, che però non lo lasciava un istante.

    «Lui è un collegamento, puoi chiamarlo Fog. Nell’operazione questo è il suo nome e deve fotografare tutto.»

    Hellstrom fece un cenno col capo, poi rispose.

    «Capisco, signore. Faccio solo notare che ho già stabilito la mia posizione ottimale, quella da cui copro tutta la strada. Se devo lasciare spazio a lui, non posso più garantire l’efficacia del mio intervento, se dovesse servire.»

    Duttile come il granito, pensò Pearlman osservando Ned che non aveva mutato espressione. Era passato un anno da quando avevano distaccato Hellstrom al suo gruppo, e per fortuna Ned aveva smesso di salutarlo irrigendosi sull’attenti, anche se continuava a portarsi a spasso quei capelli tagliati a spazzola, quella specie di marchio di fabbrica.

    «Hai la priorità Ned, sta’ tranquillo. Ognuno di noi qui ha il suo compito e tutti lavoriamo in squadra.»

    «Certamente, signore» disse appena Hellstrom. Fog si piazzò nell’angolo opposto a quello scelto prima da Ned.

    «Io mi metto qui» disse con un sorriso tirato, mentre estraeva dalla borsa una macchina su cui montò un teleobiettivo con gesti rapidi e sicuri.

    Pearlman indossò un paio di occhiali dalla montatura d’acciaio e poi guardò l’orologio.

    «Il ballo sta per cominciare. Vediamo se i suonatori sono al loro posto.»

    Pearlman cavò dalla tasca dell’impermeabile un sottile walkie talkie; lo accese e l’apparecchio gracchiò debolmente.

    «Ufficio spedizioni a fattorini. Verifica partenza spedizione.»

    «Fattorino uno a ufficio spedizioni. Sono pronto. Gli aiuti fattorino sono davanti a noi, pronti anche loro.»

    Dalla finestra, Ned vide lampeggiare i fari del furgone parcheggiato in cima alla strada e, dopo un istante, quelli dell’auto ferma al lato opposto. Una sigaretta volò fuori dal finestrino, accompagnata da una voluta di fumo. Hellstrom scrollò la testa.

    «Fattorino due a ufficio spedizioni, stiamo arrivando per la consegna.»

    Pearlman alzò gli occhi in direzione dell’estremità sud della strada. Un furgoncino si accostò al marciapiede e ne scesero tre uomini in tuta che subito si avviarono verso un tombino; lo aprirono, dopo averlo circondato con una transenna rossa che chiuse la strada.

    Pearlman annuì con aria soddisfatta. Poi si rivolse a Hellstrom.

    «Ned, che mi dici?»

    «Pronto, signore.»

    Hellstrom spalancò la finestra fissandone le ante. Una folata di aria gelida entrò nella stanza facendo rabbrividire Pearlman e Fog. Ned sembrò non accorgersene nemmeno. Si avvicinò al tavolo, scostò il panno e prese il Remington. Ne allentò la cinghia e la fece passare lungo il gomito sinistro. Imbracciò il fucile con un gesto sicuro; il suo sguardo attraversò il cannocchiale, la canna si abbassò sulla strada e con un lento movimento regolare ne percorse il tracciato da destra verso sinistra per poi tornare al punto di partenza.

    Ned distolse gli occhi dal cannocchiale, poi adagiò il fucile tra le braccia, come volesse cullarlo e, infine, fissò il suo superiore. Michael Pearlman fece un cenno di assenso, poi portò il walkie talkie alle labbra.

    «Va bene, siamo pronti per ritirare il pacco. Il prossimo contatto per confermare la partenza della spedizione.»

    «Ricevuto» risposero in rapida sequenza due voci, poi rimase in sottofondo il lieve ronzio dell’apparecchio.

    «Aspettiamo» disse piano Pearlman. Fog mise tra le labbra una sigaretta e fece per accenderla; Ned lo fissò gelido e Pearlman si rivolse al fotografo con un’espressione dura.

    «Niente da fare. Dà fastidio al mio uomo. Fumerai più tardi.»

    Fog rimase per un istante interdetto, poi annuì e la sigaretta scomparve in una tasca. Ned tornò a guardare la strada: i suoi occhi la percorsero per l’ennesima volta, controllando ancora ogni particolare, ogni possibile ostacolo sulla sua linea di tiro.

    5

    L’aria pungente del mattino si era fatta incontro ad Ayoub già sul portone del palazzo. Lo aveva colpito sul viso, si era insinuata tra gli abiti facendolo rabbrividire e insieme alla luce opaca del sole velato, gli aveva dato un’impressione di immobilità, di sospensione.

    Il giovane si era stretto nelle spalle, mentre cominciava a camminare lungo via Nerva incrociando rari passanti; i suoi passi sul marciapiede risuonavano sordi nell’aria gelata, a volte appena attutiti dalle foglie ingiallite e bagnate che, sovrapposte le une alle altre, coprivano l’asfalto in larghe macchie.

    L’ennesima discussione con Hawwa lo aveva innervosito, amareggiato. Non gli piaceva discutere con sua sorella, con l’unico affetto che gli era rimasto; certo, di parenti ce n’erano altri ad Algeri, ma nessuno che rappresentasse per Ayoub veramente la sua famiglia, nessuno che, come Hawwa, avesse con lui un legame così stretto, così profondo.

    Nella sua mente cominciarono a scorrere immagini della loro infanzia, di sua sorella sorridente e premurosa, capace di gettarsi in una zuffa di ragazzini per difenderlo, di rubare dalla dispensa i biscotti alla mandorla per poi scappare nel giardino di casa e dividerli con lui, magari passando di corsa, trafelati, davanti alla stanza dove il loro padre scriveva o leggeva, avvolto da una nuvola di fumo o dal suono di un oud che proveniva da uno dei suoi amati dischi.

    Ecco, Ayoub si rivide bambino fermare la sua corsa lungo il corridoio e affacciarsi sulla porta dello studio a fissare suo padre, Kaddour, che stava lì, il capo chino sulla macchina da scrivere, lo sguardo stretto per il fumo che saliva dalla sigaretta consumata, appoggiata in un equilibrio precario sulle labbra, all’angolo della bocca. Ricordò ancora quelle occhiate sbieche e divertite che Kaddour gli lanciava attraverso quel velo sottile, fingendo di non averlo visto, fingendo di non vedere quei biscotti che gli riempivano le mani.

    Ayoub avvertì una stretta nel petto, un groppo alla gola, ma ricacciò indietro le lacrime con rabbia, con risolutezza. Cercò di liberare la mente da quelle immagini, pensò a quel bambino fermo in un corridoio con vergogna, arrivò a provare disprezzo per quella debolezza che lo aveva sopraffatto per un istante.

    Si ripeté più volte che era suo dovere dedicarsi esclusivamente alla causa, a niente altro, che quello era il suo dovere e che la sua vita, trascorsa, presente e futura, non poteva avere altra ragione se non la difesa della fede.

    Così, mentre attraversava via Boncompagni, si concentrò sui compiti che Jibril gli aveva assegnato per quella mattina. La sua guida spirituale gli aveva ordinato di trascrivere le bozze del commento che aveva scritto sulla ventunesima Sura, quella detta Dei Profeti.

    Le aveva con sé nella borsa da lavoro, mescolate con altri documenti, confuse ad arte per sfuggire a sguardi indiscreti, curiosi, perché fossero lette e poi comprese solo da fratelli fidati, da coloro che avevano capito l’importanza di dedicarsi completamente alla missione. Nella mente di Ayoub risuonò la raccomandazione che Jibril aveva fatto a tutti i fratelli.

    «Diffidate. Diffidate di coloro che vi sono accanto. I nostri nemici sono molti, tanti e purtroppo sono anche tra coloro che dovrebbero essere, invece, al nostro fianco. I nemici sono tra quelli di noi che vengono alla preghiera col cuore impuro, con la mente e l’anima sporcata dal marciume che domina questo mondo lontano da Dio. Sono quelli a cui pesa continuare a seguire la sua parola. Diffidate di loro e siate pronti alla lotta, siate pronti al sacrificio.»

    L’espressione sul volto di Ayoub si fece ancora più dura. Aveva ormai raggiunto l’incrocio tra via Puglie e via Sicilia con passo deciso e veloce, ignorando l’aria gelida che continuava a sferzarlo. Vide in lontananza l’incrocio con via Campania e sullo sfondo il tratto delle vecchie mura che nascondeva viale del Muro Torto. Guardò l’orologio, era riuscito a guadagnare tempo, ormai era sicuro, non avrebbe tardato alla preghiera del mattino.

    6

    Povero coglione! Che ridicolo imbecille…

    Come in una specie di mantra, Massimo Ritter continuava a chiudere i suoi ragionamenti con gli stessi insulti. Li rivolgeva a se stesso, dopo aver esaminato uno dietro l’altro, puntigliosamente, tutti gli istanti del suo commiato da Silvia.

    A questi si erano aggiunti poi quelli del loro ritorno da Milano, con le tante piccole e puntute manifestazioni d’insofferenza che la donna aveva mostrato verso le sue parole, i suoi gesti.

    La mente di Ritter sembrava essersi illuminata improvvisamente; l’atteggiamento di Silvia di poco prima, a casa sua, sembrava aver svelato particolari che gli erano sfuggiti o che la sua presunzione gli aveva fatto ignorare.

    Ecco cosa lo feriva di più, la constatazione di essersi illuso di poter controllare la situazione, di poter condurre quella relazione da una posizione dominante.

    È un incontro, niente di più. Una bella intesa di cervelli e di letto. Quando uno dei due si sarà stufato finirà da sé, senza strilli, senza casini, da persone civili ed evolute.

    Ricordava bene quelle parole, se l’era ripetute una quantità di volte quando aveva cominciato a vedere Silvia fuori dallo studio.

    Le aveva pensate quelle cose, mentre usciva dalla casa di lei in piena notte, la prima volta che avevano fatto l’amore.

    Era successo dopo una serata e una cena in un ristorante dalle parti di Ponte Milvio, organizzata per convincere dei possibili clienti francesi a firmare un contratto. Silvia si era presentata con la sua bellezza elegante e un po’ altera resa ancora più attraente dalla raffinata semplicità del suo abito.

    I francesi erano rimasti a bocca aperta e per tutta la serata non avevano distolto la loro attenzione dal sorriso studiato della giovane architetta.

    Qualcuno di loro si era complimentato discretamente con Ritter; davano per scontato che fosse la sua amante, e nella mente di Massimo, un pensiero aveva cominciato ad affacciarsi con sempre maggiore insistenza, mentre anche per lui, ormai, diventava sempre più difficile staccarsi dal sorriso di Silvia.

    Quando l’aveva riaccompagnata a casa, aveva provato una tensione crescente. Aveva accennato senza convinzione al contratto che ormai era certo; aveva elencato tutte le possibili difficoltà del lavoro, ma poi aveva lasciato cadere il discorso, perché Silvia aveva continuato a fissarlo in silenzio nel buio dell’abitacolo tagliato dalle luci della strada. Anche ora Ritter ricordava perfettamente la sensazione della sua vicinanza e il suo profumo. Davanti alla porta del suo appartamento, Silvia si era voltata verso di lui, con quel lieve sorriso che le increspava appena le labbra.

    «Abbiamo fatto un ottimo progetto» aveva detto Ritter sorridendo. Poi aveva continuato: «Ma anche se non lo fosse stato, avrebbero firmato ugualmente. Li hai stregati, Silvia.»

    Lei non aveva risposto. Aveva continuato a fissarlo con quel sorriso che sembrava insieme un invito e una sfida e Massimo aveva sentito il sangue scorrere più forte fino a stringergli la gola in un nodo, fino a costringerlo più vicino a lei, fino a fargli dire con voce bassa e roca che era bellissima.

    Si era portato addosso il suo profumo e il suo calore fino a casa. Era entrato con la massima cautela e aveva provato la strana sensazione che le mura del suo appartamento gli rubassero quel calore che aveva resistito alla notte e alla strada.

    Si era spogliato malvolentieri. In bagno, prima di lavarsi le mani le aveva portate al viso; il profumo di Silvia gli aveva restituito anche la sensazione della consistenza del suo corpo.

    Aveva dormito a fatica perché sentiva dentro di sé un’energia che non provava da tempo e quell’energia lo aveva poi accompagnato in studio nei giorni seguenti, nei mesi successivi.

    Cercò di liberarsi da quelle immagini, mentre camminava lungo via Lucania, ma Ritter sentiva crescersi dentro un malessere freddo: aveva la certezza ormai che qualcosa tra lui e Silvia si fosse spezzato.

    L’immagine di se stesso che lo aveva accompagnato lusinghiera fino a quella mattina si era frantumata improvvisamente e inaspettatamente, lasciandogli solo quella rabbia devastante.

    Ritter procedeva con passo regolare, lo sguardo indifferente ai pochi passanti infreddoliti o alle poche auto che rompevano il silenzio delle strade.

    Arrivato all’angolo con via Puglie, quasi si scontrò con un giovane vestito di scuro, il volto contornato da una barba rada, che camminava in fretta in direzione delle mura, verso viale del Muro Torto.

    I loro sguardi s’incrociarono per un istante, entrambi stupiti, entrambi infastiditi che lo sconosciuto che si trovavano di fronte avesse interrotto il flusso dei loro pensieri.

    Ritter bofonchiò uno «Scusi», l’altro fece appena un cenno col capo, poi proseguì.

    Chissà perché, l’architetto lo seguì con lo sguardo e nel suo campo visivo entrò il piccolo furgone bianco accostato al marciapiede e i tre operai che trafficavano su un tombino scoperto. Una folata di aria fredda distrasse l’architetto, che di riflesso rabbrividì, per poi riprendere il suo cammino verso la stazione.

    7

    «Fattorino due a ufficio spedizioni. La consegna è in arrivo.»

    Il walkie talkie adagiato sul tavolo aveva gracchiato leggermente, prima che la voce dai toni metallici risuonasse nella stanza.

    Pearlman si era alzato dalla poltrona di scatto, malgrado la mole, e aveva afferrato l’apparecchio mentre si avvicinava alla finestra. «Qui ufficio spedizioni, fattorino uno confermi arrivo consegna?» Il ronzio del walkie talkie riempì il silenzio per qualche secondo.

    «Fattorino uno a ufficio. Consegna confermata.»

    Pearlman lanciò uno sguardo a Hellstrom, che subito spalancò la finestra. Ned percorse rapidamente con lo sguardo la strada e le finestre dei palazzi, ma vide solo un uomo di spalle che camminava in direzione opposta al giovane vestito di scuro. Prese il Remington, aggiustò la cinghia sul gomito sinistro e imbracciò il fucile. Respirò profondamente prima di far aderire la guancia al calcio dell’arma e fissare lo sguardo nel mirino telescopico.

    «Ho il bersaglio, signore» disse Ned, mentre la canna del fucile si spostava lentamente seguendo la figura che procedeva sul marciapiede.

    «Bene Ned. Non lo mollare. Intervieni solo se la consegna va male, ricordalo.»

    «Sì, signore. Se dovessi intervenire… qual è il livello?»

    Pearlman esitò un istante; anche lui seguiva con lo sguardo la figura che si muoveva sulla strada.

    «Signore?»

    Pearlman sembrò riemergere dai suoi pensieri.

    «Sì, Ned… se toccasse a te, stendilo. Non abbiamo la possibilità di gestire un ferito.»

    «D’accordo» disse appena Hellstrom, e si concentrò sul suo bersaglio.

    Pearlman si voltò verso Fog. L’uomo, in parte nascosto da una tenda, aveva già cominciato a scattare fotografie in rapida sequenza.

    Michael Pearlman lanciò un’occhiata verso il capo sud della strada, alla berlina argento metallizzato parcheggiata con a bordo due uomini.

    Proprio in quel momento, il tipo che camminava in direzione della stazione sfilò accanto alla macchina.

    Qualcosa attirò lo sguardo di Massimo Ritter su quella vetrina, forse la porzione di specchio dietro a un manichino che restituiva l’immagine della strada, dei passanti, in quel momento la sua. Si fermò a studiare il suo volto con implacabile attenzione, in maniera diversa da come aveva fatto per decine, centinaia, migliaia di mattine prima di uscire per il lavoro o dopo essersi vestito con cura prima di una serata. Stavolta il suo sguardo cercava senza misericordia le tracce dell’età, le tracce della sua debolezza, quella di uomo ormai maturo ma con ancora l’illusione di poter governare il fuoco senza rimanerne scottato.

    «Fattorino due a ufficio spedizioni. Attenzione, soggetto estraneo in zona consegna.»

    Fog abbassò la macchina e guardò verso il lato occupato dal furgoncino bianco, subito imitato da Pearlman.

    «Cristo!

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