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Il caso Della Rovere: Squadra Indagini Riservate
Il caso Della Rovere: Squadra Indagini Riservate
Il caso Della Rovere: Squadra Indagini Riservate
E-book428 pagine6 ore

Il caso Della Rovere: Squadra Indagini Riservate

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Info su questo ebook

L’ispettore capo Virginia Visconti non si aspettava un segretissimo, quella sera. Eppure la chiamata arriva nel cuore della notte dal suo superiore, Carlo Dragoni: la S.I.R. è stata attivata, e loro dovranno recarsi al più presto nella villa dell’ex ministro Giulio Della Rovere per far luce su alcune misteriose aggressioni. Non ci metteranno molto a capire la difficile situazione che gli si presenta. Giulio è un uomo tanto ricco quanto cinico e possessivo, convinto che tutti coloro che abitano nella sua villa siano di sua proprietà. Come nei vecchi gialli d’autore, la risoluzione del caso arriverà grazie alle straordinarie capacità deduttive dei due poliziotti e, soprattutto, ogni personaggio avrà un ottimo movente per odiare Della Rovere. Dalla quarta di copertina: Il Ministero dell’Interno invia una speciale squadra investigativa alla villa di Giulio Della Rovere, per far luce su alcune aggressioni subite dall’influente politico. Tra perversioni e menzogne, l’ex ufficiale dei Servizi Carlo Dragoni e l’ispettrice capo Virginia Visconti affronteranno un caso che cambierà per sempre il loro destino
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788835392514
Il caso Della Rovere: Squadra Indagini Riservate

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    Anteprima del libro

    Il caso Della Rovere - Marco Borromeo

    Parte prima

    Colui al quale il delitto porta giovamento,

    quello ne è l’autore.

    Seneca

    Sabato

    Prime ore del mattino

    Champagne rovesciato, sudore e profumo Chance di Chanel.

    L’odore acido e dolciastro di quel miscuglio pervadeva con insistenza il salottino in pelle della limousine. Il cliente, quella sera, aveva preteso di scoparla direttamente in macchina.

    L’aveva portata a cena, poi aveva ordinato all’autista di girare per la città, mentre lui, nascosto dai vetri fumé, si sarebbe goduto il climax del suo investimento da cinquecento euro.

    L’aveva sbattuta per un tempo interminabile. Si era accorta che l’autista aveva fatto per tre volte lo stesso giro. Venti minuti a giro. Le era stato addosso per quaranta minuti, in completa sovraeccitazione, le pupille dilatate dalla cocaina, senza fermarsi un minuto. Per due volte aveva rischiato di svenire, schiacciata sui sedili dal peso dell’uomo, la gola stretta dalle sue mani. Nella frenesia della dominazione, senza alcun freno, non si era fermato nemmeno per bere, continuando a prenderla, bevendo direttamente dalla bottiglia, bagnandole di champagne cosce e ventre. Il vino ghiacciato l’aveva rinfrescata, ridando un po’ di sensibilità al suo corpo fradicio di sudore. Negli ultimi dieci minuti non riusciva più nemmeno a rendersi conto di dove la stesse penetrando. Ma le andava bene così.

    Non glielo avrebbe mai confessato, ma quell’uomo la faceva godere e l’aveva lasciato fare, anche quando l’aveva ammanettata alla portiera e schiaffeggiata brutalmente. Era la terza volta che ci usciva e conosceva quello che gli piaceva. Sapeva che era attratto da lei, forse anche innamorato e questo la eccitava da morire. Gli permetteva cose che agli altri uomini sarebbe stato proibito anche solo proporre.

    Con un lamento che salì dal profondo del petto, finalmente lui raggiunse l’orgasmo. Un istante dopo, appagati, si lasciarono scivolare entrambi sui sedili umidi, allentando la tensione di muscoli e mente. Continuarono a girare per altri venti minuti, il tempo di rivestirsi, riprendere fiato e scambiarsi qualche carezza. Poi l’uomo comunicò un indirizzo all’autista e si rilassò sui divanetti.

    La berlina scura scivolò silenziosa nella notte accostandosi al marciapiede. Qualche secondo di attesa con le luci rosse dei freni accese, poi la portiera si aprì. La donna scese con decisione dalla macchina e senza più voltarsi indietro s’incamminò velocemente verso l’entrata del palazzo. Indossava un cappotto nero corto che le arrivava a metà coscia, lasciando le gambe atletiche ed eleganti libere di essere ammirate. L’ancheggiare sinuoso sui tacchi a stiletto di un paio di stivaletti alla caviglia faceva ondeggiare i lunghi capelli rossi che, colpiti dalla luce dei lampioni, scintillavano fino a metà schiena come fili di rame. La portiera posteriore rimase aperta ancora qualche istante, poi quando la donna raggiunse il cancelletto del giardino si richiuse e la berlina ripartì, scivolando nell’oscurità così come era venuta, confondendosi nello sfavillio tremolante della notte.

    Quando raggiunse la porta d’ingresso del palazzo, la donna inserì la chiave nella serratura e prima di entrare si guardò intorno rapidamente. Il condominio era immerso nel sonno.

    Allungò il collo e lanciò una breve occhiata sul terrazzino verandato del suo appartamento, sull’angolo sinistro dello stabile. Le ombre delle sue piante si profilavano confuse sui vetri illuminati dai lampioni. Tutto era immobile. Si accovacciò e si tolse gli stivaletti rimanendo scalza. Entrò nell’androne senza accendere le luci delle scale e salì al secondo piano nel silenzio più assoluto. La luce biancastra della strada illuminava i gradini quel tanto che le serviva per non dover salire a tentoni.

    Arrivò davanti alla porta del suo appartamento, ma prima di prendere le chiavi di casa rimase in silenzio, osservando la porta di fronte alla sua. La fessura in basso e lo spioncino erano entrambi bui. Nessun rumore. I suoi vicini stavano dormendo. Rapidamente e con movimenti sicuri fece scattare la serratura ed entrò in casa rimanendo per qualche secondo in silenzio, appoggiata alla porta nella più completa oscurità. Fece qualche respiro profondo poi accese la luce del corridoio.

    Dalla tasca del cappotto tirò fuori due cellulari e le cinque banconote da cento euro. Poi se lo sfilò rimanendo con un abito nero attillato ancora più corto e con un gesto rapido si tolse la parrucca ramata. Si fissò seria nello specchio a figura intera che dominava l’ingresso.

    Era alta un metro e settanta circa e il viso poteva ricordare tratti scandinavi, affusolato, con zigomi accentuati e occhi verdi, sottili. I capelli biondi e lisci, ormai liberi dalla parrucca, le cadevano sulle spalle. Ciò che colpiva maggiormente della donna, però, non era semplicemente la sua bellezza nordica ma l’armoniosità delle forme che la rendevano oltremodo sensuale e provocante. Si ammirò nello specchio ancora per un po’, voltandosi di schiena e inarcando le spalle, poi dalla cassettiera prese un pacchetto di sigarette alle erbe Nirdosh, ne accese una e si sdraiò sul divano della sala. Aspirò una profonda boccata gustandosi il sapore della cannella e dei chiodi di garofano. Quelle sigarette, prive di nicotina e tabacco, erano l’ultimo disperato tentativo di smettere di fumare, ingannandosi di tenere fra le dita una vera sigaretta. La cosa positiva era che almeno poteva scegliere la fragranza e sentirsi avvolta nei profumi delle piante e delle erbe che preferiva. Il problema era che, da fumatrice, il livello di soddisfazione era pari allo zero e la voglia di accendersi una delle Camel che teneva nella stessa cassettiera era fortissima. Cercò di autoconvincersi che stava fumando per davvero e accese il portatile.

    Lo schermo s’illuminò sull’homepage di un sito di escort. Inserì le credenziali e cliccò su login. La foto principale della sua pagina la ritraeva con la stessa parrucca rossa, sdraiata su un tappetto indiano con indosso una vestaglia di seta nera trasparente e un paio di sandali dal tacco in acciaio. La fotogallery indicava che 145 persone stavano guardando le sue foto hot, mentre la casella dei messaggi lampeggiava di un viola acceso. Dodici buste indirizzate a Tanjia aspettavano di essere aperte. Guardò l’ora. L’una e cinque. Troppo presto per dormire ma troppo tardi per un altro appuntamento. Trasformare una di quelle buste in un’altra botta di adrenalina significava stare in piedi tutta la notte, senza contare schiena e polsi indolenziti. Spense uno dei due telefoni lasciando l’altro sulla cassettiera. Chiuse il computer e aspirò stizzita una lunga boccata di finto fumo aromatizzato.

    Era venerdì e quella settimana non aveva saltato un giorno. Iniziava a diventare pericoloso e patologico, come sempre. Anche mettere l’annuncio in un’altra città a un’ora di strada e incontrare i clienti solo dopo un primo contatto telefonico non poteva garantirle la certezza di non trovarsi davanti qualcuno che la conosceva, anche solo di vista. E non poteva permetterselo. Non era certo un nome finto a proteggerla. Tanjia le piaceva molto, le era sempre piaciuto. Lo trovava sexy.

    In ogni caso già quella sera aveva fatto un’eccezione facendosi venire a prendere e riaccompagnare da un cliente che conosceva. Doveva fermarsi. Non poteva rischiare. Sentì una morsa allo stomaco e spense la sigaretta ancora a metà nel portacenere. Avrebbe finito la settimana. L’appuntamento del giorno dopo, sabato, non poteva annullarlo. Era fuori discussione. Al solo pensiero iniziò a eccitarsi. Ci aveva pensato molto prima di accettare, più per una questione di gioco delle parti che per altro. Il gioco a tre le era sempre piaciuto e aveva giocato con diversi partner in più occasioni. Ma qui era diverso. Accettare un incontro con due clienti contemporaneamente poteva trasformarsi in una situazione difficile da gestire, specialmente se era lei la prima a perdere la misura dei limiti. E questo purtroppo le succedeva ogni volta, l’ultima nemmeno un’ora prima. Comunque, ormai la serata era organizzata.

    Si maledisse e maledisse anche quella sensazione di benessere e di potere che sapeva l’avrebbe inondata non appena avesse iniziato a tenere in sospeso i due uomini. Nulla la faceva stare meglio che vedere gli uomini pagare per averla. E più la pagavano, più lei li trattava male e più loro la desideravano. Odiava gli uomini ma erano l’unico suo vizio, il suo unico anestetico cerebrale. Quei periodi fatti di adrenalina, sesso, menzogne e maschere, si formavano nel suo animo come una tempesta tropicale. Più si sentiva male con sé stessa, più aumentava la potenza del suo demone, fino a esplodere materializzandosi in settimane come quella che stava vivendo. L’amore per un uomo, quello vero, per due volte aveva provato a farle cambiare la visione del rapporto uomo-donna, ma entrambe le volte il risultato era stato terribile. Tradita la prima, illusa la seconda.

    La seconda volta aveva tentato in ogni modo di capire il perché l’uomo che lei amava non riusciva ad andare oltre, non riusciva a decidere che sarebbe stata lei la sua donna, l’unica donna. Aveva aspettato che i tempi fossero maturi, si era messa da parte durante la separazione, una separazione che si lasciava dietro una scia dolorosa che andava oltre la fine del matrimonio, della quale era proibito parlare.

    Aveva ingoiato bocconi di gelosia e giornate da invisibile ma ci credeva. Credeva che alla fine tutto si sarebbe sistemato nel migliore dei modi. Nell’unico modo possibile. Una normale storia fra un uomo e una donna che si amano. Non era successo.

    Quando finalmente lui era uscito dal matrimonio, la loro storia era scivolata verso una routine di weekend passati a letto e niente più. Si era resa conto di essergli servita soltanto come spinta per sgattaiolare fuori casa. Le voleva bene, certo. Ma il sentimento finiva lì. Aveva provato in tutti i modi a rimanere a galla, arrivando a rendersi ridicola e infantile. Non era servito a nulla. Alla fine, si erano allontanati quasi senza dirselo, così come si erano baciati la prima volta. Era convinta che nel profondo dell’anima quell’uomo nascondesse un dolore cupo, insanabile, un dolore che lo aveva profondamente trasformato. Aveva tentato più volte di affrontare l’argomento: lui lo aveva sempre schivato con violenza, arrivando ad accusarla di cercare nelle sue debolezze la scusa per trattenerlo a lei. Poi si era arresa.

    L’unico grande problema era che si era innamorata davvero, e anche se erano passati ormai quasi due anni dalla fine della loro storia lui rimaneva sempre lui.

    E lui, periodicamente, sentiva il bisogno di vederla. Sembrava che lei fosse il suo elisir. «Solo una cena», le diceva, per poi finire a letto e sentirsi sussurrare all’orecchio che solo con lei faceva l’amore così. Una notte. Il mattino dopo l’incantesimo si era già spezzato, facendola sprofondare nella depressione e cancellandole l’autostima.

    Ed era questo che le faceva odiare così tanto gli uomini. L’incapacità di resistere a quell’uomo le scatenava l’impulso di usare altri uomini come burattini. Certo, usavano il suo corpo e la trattavano da puttana, ma questo non le interessava, anzi, il più delle volte le piaceva.

    Era piacevole perché sceglieva lei chi, quando e dove. Era piacevole perché li vedeva in difficoltà di fronte alla sua bellezza e alla sua disinvoltura. Ed era piacevole anche a letto, perché tutti volevano essere qualcosa di speciale. In più, la pagavano.

    Si alzò dal divano e iniziò a spogliarsi. Sapeva di alcol e di sesso. Voleva lavarsi. La serata ormai era finita. Il cellulare sulla cassettiera iniziò a vibrare. Irritata, prese il telefono sapendo che all’una e dieci non poteva essere certo la telefonata di un’amica. Quando vide chi la stava cercando, chiuse gli occhi provando a riacquistare la solita freddezza e si sedette sul divano. Sul display lampeggiavano tre lettere: S.I.R.

    Quella sigla significava Squadra Indagini Riservate, e se il capo la cercava in piena notte dal numero dell’Ufficio Principale non sarebbe stata una telefonata di cortesia. Sicuramente c’era un problema. E lei non aveva voglia di problemi.

    «Pronto?», rispose secca.

    «Identificativo, prego.» La voce dell’uomo era calda e ferma.

    «17-08», rispose la donna.

    «Qui parla 17-03. Devi venire subito nel posto da dove ti sto chiamando. Mi è arrivato tre ore fa un fascicolo, un segretissimo. Devo attivare la squadra, conosci la procedura.» La donna sospirò senza farsi sentire.

    «È quasi l’una», disse con poca convinzione. Tutti e due sapevano che quel dettaglio non aveva alcuna importanza.

    «Conosci la procedura», ripeté l’uomo, «17-09 sarà qui fra pochi minuti. Ti aspetto. A dopo.» Riattaccò, lasciandola con il telefono appoggiato all’orecchio e lo sguardo fisso sulla parete di fronte. Innervosita e irritata, uscì in veranda, il suo piccolo rifugio casalingo.

    Nonostante fosse un piano terra, aveva scelto quell’appartamento quasi esclusivamente per lo spazio esterno. Nel giro di poche settimane l’aveva trasformato nel suo giardino privato, invadendolo di vasi, rampicanti e piante aromatiche. Era la sua inesauribile fonte di vita. Si rigenerò respirando a fondo poi richiuse la porta scorrevole mandando un bacio alle piante.

    Era inutile perdere altro tempo. Prima usciva, prima sarebbe tornata. Si sfilò il vestito nero, si rinfrescò rapidamente, indossò una tuta sportiva attillata che le disegnava perfettamente ogni centimetro del corpo e un paio di stivali in pelle a tacco basso con un giaccone nero. Ritornò davanti allo specchio del corridoio e solo allora si accorse di avere gli occhi segnati, stanchi. Viveva di notte più adesso che aveva trentacinque anni di quando era all’università. Sorrise scuotendo la testa. Esercitò poi una leggera pressione sul lato di un pannello della cassettiera che apparentemente era soltanto un pezzo del mobile fra due cassetti. Il pannello scattò e un piccolo vano segreto si aprì di qualche centimetro. La donna lo aprì, prendendo il portadocumenti con la placca della Polizia di Stato e la fondina da cintura dalla quale usciva il calcio di una semiautomatica nera. Se la sistemò in vita sotto al giaccone e senza badare troppo al rumore e alle luci uscì di casa sbattendo la porta, non prima di essersi infilata in tasca con decisione il pacchetto di Camel.

    Guidò per una ventina di minuti nel traffico cittadino del venerdì sera, fino a quando lasciò i viali della circonvallazione per infilarsi nella zona a traffico limitato del centro storico. Arrivò in un piazzale dominato da un imponente palazzo con le bandiere istituzionali ben in vista e un paio di volanti accostate al portone d’ingresso. Non parcheggiò nel piazzale ma fece il giro del palazzo, parcheggiando la macchina in un vialetto residenziale sul retro dell’edificio. Prima di scendere si diede una spruzzata con il campioncino Chanel di riserva che teneva sempre in macchina. Doveva azzerare definitivamente ogni residuo della serata, anche se senza adrenalina in circolo iniziava a sentirsi come se le fosse passato sopra uno schiacciasassi.

    Scese e si guardò intorno, rendendosi conto che a quell’ora e in quella zona della città avrebbe potuto spogliarsi nuda e nessuno l’avrebbe notata. L’unico segno di umanità attiva era la finestra illuminata al primo piano del palazzo. 17-03 la stava aspettando.

    Strisciò il badge nella serratura elettronica e appoggiò il pollice destro sullo scanner. Uno scatto metallico e la porta blindata di servizio si sganciò. Senza indugiare oltre si infilò nella pancia del palazzo ministeriale, lasciandosi alle spalle la luce giallastra dei lampioni in ferro battuto che illuminavano il vialetto. Percorse un lungo corridoio avvolto quasi completamente nell’oscurità, accompagnata soltanto dal rimbombare dei passi nel silenzio della notte. Con le movenze sicure di chi conosce l’ambiente girò a sinistra e percorse un secondo corridoio più stretto del primo, fino a raggiungere la porta dell’ufficio che stava cercando. Sapeva che i suoi passi avevano avvisato con anticipo il suo arrivo, quindi non si prese il disturbo di bussare ed entrò.

    L’ufficio era ben illuminato da una lampada da scrivania in ottone e vetro verde e da una piantana sistemata nell’angolo vicino alla finestra. Sembrava più uno studio di un avvocato che un ufficio pubblico. L’uomo seduto alla scrivania stava leggendo alcuni fogli e quando la porta si aprì alzò le sopracciglia, poi sorrise chiudendo il fascicolo che aveva davanti.

    Era seduto nella penombra, ma da un primo sguardo era difficile non notarne il fisico ben strutturato e la notevole altezza. Il collo largo e i capelli rasati color argento gli conferivano solidità e gli donavano un naturale carisma. Dimostrava una cinquantina d’anni ben portati. Dalla carnagione bruna e dagli occhi color castano scuro, lo si poteva scambiare tranquillamente per un israeliano o un libanese.

    «Ciao Virginia. Grazie per essere venuta così in fretta», la salutò accennando un sorriso. Era da tanto tempo che Virginia non sentiva di persona quella voce calda e confortante. Parlava privo di qualunque accento e certamente nessuno avrebbe saputo individuare le sue vere origini. Virginia sapeva che era nato in Sicilia e quindicenne era emigrato in Piemonte con la famiglia. Dopo le superiori era entrato in Polizia iniziando a peregrinare per l’Italia. Nient’altro. Dal canto suo, lui era stato sempre molto vago sulla sua famiglia, i suoi amici e i suoi ricordi. Spesso parlava con una specie di accento romano, retaggio del decennio trascorso nella capitale. A volte sembrava torinese, altre volte campano, mentre la Sicilia usciva fuori nei momenti di nervosismo. Ogni passaggio della carriera del dirigente della Polizia di Stato Carlo Dragoni aveva lasciato la sua eredità. Virginia andò a sedersi in una delle due poltrone davanti alla scrivania.

    «Ciao Carlo. Venire non è stato un favore e lo sai. Sei fortunato che non sia come te con il cellulare, altrimenti ti avrei risposto fra due giorni», rispose asciutta.

    «E sticazzi. Io il cellulare lo uso per telefonare, non ci vivo sopra.»

    «I tempi cambiano. Rassegnati. Anche tu usi cellulare, navigatore e tutto il resto. Siamo obbligati», rispose Virginia. Carlo scrollò la testa.

    «Non dire stronzate. Siamo obbligati a mangiare e dormire, non a usare i social e le altre minchiate. La gente passa la vita a scrivere, fotografare, condividere cose inutili. Cagate senza senso. Ancora oggi, mentre camminavo in centro, vedevo persone di ogni età che parlavano e scrivevano con la faccia schiacciata sui telefoni, che puoi anche crepare che nessuno se ne accorge. Ma come cazzo facevamo prima?» Il tono era diventato ruvido, rancoroso.

    «Sono obbligato a usare il cellulare per lavoro, occappa, e il navigatore è installato di serie sulla macchina ma appena posso spengo tutto e non posto la buonanotte. Per non parlare dei bastardi che rovinano la gente. Non sono schiavo dei commenti dei vostri veri amici virtuali.» Terminò di parlare con gli occhi fissi sul portamatite in legno di fronte a lui. Tutto d’un tratto lo sguardo aveva perso la fierezza tipica della sua espressione, come se fosse entrato in una specie di blackout. Virginia forzò un sorriso stranito.

    «Sì, ma rilassati, cosa vorresti dire? Che perdo tempo con finti amici? Cosa ne sai tu dei miei amici?» Carlo la osservò rassegnato, addolcendo i lineamenti, guardandola come un padre guarda una figlia.

    «Non offenderti. So molto di più di quello che avrei voluto sapere sui finti amici, credimi. Hai ancora il secondo telefono?» Lei lo fissò seria, sorpresa da quella domanda improvvisa.

    «È quello personale. Avere due telefoni non vuol dire essere malati di social.»

    Carlo fece una smorfia. «Puoi pensarla come vuoi ma non sei una manager di una multinazionale. Comunque, per quel che mi riguarda ognuno è libero di perdere tempo come vuole. Io preferisco leggere o fare altro e mi manca il buon vecchio telefono fisso.» Virginia sbuffò.

    «Dinosauro. I migliori uomini dello Stato, direttamente dal Paleolitico.»

    «Può darsi, ma almeno una volta ti chiamavano e se eri in ufficio rispondevi, altrimenti ciao. C’era più rispetto e le persone usavano il telefono per dire qualcosa di sensato. I cellulari c’hanno rovinato, ormai è tutto lecito, tutto normale. Distruggere una vita è un attimo, capisci cosa voglio dire? Le persone valevano di più e si apprezzavano le cose.» Una campana all’esterno rintoccò i tre quarti e Virginia accennò uno sbadiglio.

    «Ok, l’argomento è molto interessante ma siccome sono le due meno un quarto, facciamo in fretta che vorrei andare a letto a farmi l’ultimo selfie della giornata.»

    «Più che interessante direi preoccupante. Ci ritorneremo su, comunque. Posso almeno dirti che mi fa piacere vederti? È passato un po’ di tempo dall’ultima volta», rispose Carlo ignorando l’ironia di Virginia. «Eri a casa?», le chiese alzando la cornetta del telefono sulla scrivania. Non ricevendo risposta alzò lo sguardo. Virginia lo fissava seria.

    «Dunque? Eri a casa? Ti ho svegliata?» Lei prese il pacchetto di sigarette dalla tasca del giaccone e ne accese una. Carlo corrugò la fronte guardandola con aria interrogativa.

    «Hai già mollato le canne bio?», chiese divertito. Virginia arricciò il naso, cercando di nascondere il piacere che stava provando nel sentire la nicotina entrarle in circolo.

    «Alterno. Mi piace cambiare, lo sai. Sì, mi hai svegliata e vorrei tornare a letto. Cosa c’è nel fascicolo?» Lui compose un numero breve sul telefono. Attese qualche secondo, poi fissandola negli occhi disse:

    «Carlo Dragoni, identificativo S.I.R. 17-03. Fascicolo SS-1701-21, preso in carico alle ore ventidue e diciotto di venerdì 27 ottobre. L’ispettore capo Virginia Visconti ha preso conoscenza dell’esistenza del fascicolo alle ore due e zero zero di sabato 28 ottobre presso l’Ufficio Principale da me presieduto. L’ispettore Alex Zanni ha preso conoscenza dell’esistenza del fascicolo alle ore una e quaranta. Riunione operativa fissata con la squadra S.I.R. al completo per le ore nove e trenta. Comunicazione di inizio attività inoltrata.» Virginia si alzò e appoggiò il pollice destro sopra un piccolo scanner a fianco della tastiera del telefono. Un led verde si accese confermando l’impronta e inoltrando l’informazione. Dragoni riagganciò e lei tornò a sedersi.

    «Vai a dormire sempre truccata così bene? È per via dei selfie improvvisi?», domandò con un misto di freddezza e sarcasmo. Virginia si sistemò sulla poltrona e fece cadere a terra la cenere della sigaretta. «E se fosse? Da quando ti interessa come dormo?»

    Lui fece una smorfia con la bocca. «Sarebbe molto più interessante sapere con chi dormi.»

    Lei alzò un sopracciglio increspando le labbra. «Sei sicuro di volerlo sapere? Non mi sei sembrato molto interessato negli ultimi quarantadue giorni.» Carlo la fissò con quella forma di sconcerto che non dava mai l’impressione di essere del tutto sincero, poi sorrise.

    «Lo sai come stanno le cose, non è così facile come sembra. Ho sempre preferito l’intensività all’estensività.» Virginia aspirò una profonda boccata di fumo soffiandolo poi di lato contro la finestra.

    «Bella questa, devo segnarmela. Dà un tono. Scusa, dimenticavo che è molto più leggera una scopata che una relazione fra persone adulte.» Lui rimase immobile, poi scosse la testa.

    «Non sotterri proprio mai l’ascia di guerra, eh? Comunque, non siamo qui per questo. Conosci la procedura. Quando un nuovo fascicolo viene aperto tutti gli incarichi dei componenti della squadra sono temporaneamente sospesi. Come hai sentito, domani mattina, anzi tra…», guardò l’orologio da polso, «…sette ore e mezza per la precisione, ci rivedremo qui anche con Zanni per i dettagli operativi. Domande?» Virginia indicò con il mento il fascicolo rosa sulla scrivania. Da sempre il timbro con la doppia S non riservava mai a nessuno niente di buono.

    «Era da un bel po’ che non ci arrivava un segretissimo. Cos’è successo?»

    Aveva le gambe accavallate ed era seduta leggermente di sbieco, con il giaccone slacciato. La tuta attillata la fasciava, accentuandone le forme ed evidenziando la sua sensualità. Dragoni si appoggiò alla poltrona. Volutamente, prima di risponderle, indugiò sulle gambe e sul seno, per poi risalire con lo sguardo, trovando i sottili occhi verdi che conosceva bene ad attenderlo interrogativi. Si fissarono per qualche secondo poi lei abbassò gli occhi, spegnendo la sigaretta nel portacenere. Si maledisse all’istante per aver distolto lo sguardo. Sapeva che davanti a lui era come un gesto di sottomissione. Ma non riusciva a tenergli testa e anche in queste piccolezze dimostrava la sua soggezione nei confronti del suo diretto superiore. Nei confronti di quell’uomo. Carlo, con un’espressione che non nascose la propria soddisfazione, mollò la presa.

    «È arrivato questo pomeriggio direttamente dalla D.C.P.P. e mi è stata raccomandata la massima attenzione dal sottosegretario in persona. Si è mossa la politica Vivì, dobbiamo stare attenti a non fare cazzate.» Virginia annuì. Sentirsi chiamare Vivì da Carlo le piaceva. Le era sempre piaciuto. Il fatto che però addirittura il sottosegretario incaricato alla Direzione Centrale Polizia di Prevenzione si fosse scomodato non la lasciava tranquilla. Non era soltanto una questione di segretezza istituzionale da fascicolo SS ma significava che gli interessi e le persone coinvolte erano di primo livello.

    «Di chi parliamo? Magistrati, preti o semplici amici degli amici?», domandò. Carlo sorrise socchiudendo gli occhi.

    «Tecnicamente di nessuna di queste tre categorie. È un politico, diciamo piuttosto che si tratta di una persona che conta, anzi di una persona che conta molto per tante altre persone, mettiamola così. Inutile parlarne adesso. Più tardi avrai le informazioni complete.» Virginia sbuffò profondamente un paio di volte, fissando la luce tremolante di un lampione in strada.

    «Cosa c’è?» chiese Carlo a bassa voce. Conoscendola, non si aspettava una risposta morbida.

    «C’è che ogni volta che arriva un fascicolo per la S.I.R., che sia segretissimo o semplicemente riservato i progetti saltano! Ne ho le palle piene, Carlo. Sono quattro anni che faccio questa vita e ogni volta sempre la stessa storia. Possibile che quelli della Direzione non riescano a capire che non siamo semplicemente numeri ma che siamo anche persone? Avevo in programma di stare via fino a martedì.»

    «Vai da tuo padre?», chiese Carlo serio cercando di nascondere la curiosità.

    «No. Vado un paio di giorni al solito posto», rispose Virginia guardando fuori dalla finestra.

    «Ah, il tuo solito posto. Ci vai ancora?» Questa volta il tono si fece più interessato.

    «Ci vado quando mi serve. Adesso mi serve.» La risposta fu secca e decisa.

    «L’operazione inizierà mercoledì prossimo, quindi puoi andare dove vuoi, se il problema è questo» rispose Carlo calmo. Lei si tolse il giaccone.

    «Il problema non è solo questo, è che se…»

    «Il problema è cu’ si ‘nni futti delle tue ferie» la interruppe Carlo appoggiando i gomiti sulla scrivania e alzando il tono di voce che mantenne comunque piatto. Ecco la Sicilia, pensò Virginia.

    «Fai parte della S.I.R. non per caso» continuò poi tornando calmo. «Sei stata scelta per capacità e servizio. Sei stata voluta direttamente da me e i fatti mi hanno sempre dato ragione.»

    Tornò ad appoggiarsi alla poltrona. «Potevo scegliere uno qualunque dei papaveri che sbavavano davanti a quella porta ma li conosco troppo bene e tra le mele marce c’è poca scelta. Ma conoscevo anche te. Sei il funzionario di polizia più giovane e brillante che conosca e credimi, non sei qui solo per il cognome che porti. Non mi è mai interessato chi è stato tuo padre e cosa ha fatto. Per me conta solo il tuo cervello e come sei tu, Vivì. Questa squadra senza di te non può esistere. Sapevi cosa ti aspettava, sono stato sincero con te e hai accettato. Sai bene quali porte può aprire questo ufficio e sei abbastanza intelligente da capire anche che non durerà in eterno.»

    Virginia si alzò dalla poltrona sistemandosi la pistola in vita e rifacendosi la coda ai capelli ma evitando di guardarlo, perché sapeva che gli occhi di Carlo sicuramente stavano guardando altro di lei. Appositamente, con calma, si stirò gonfiando il seno e inarcando la schiena. Poi di scatto girò la testa e lo fissò. Gli occhi di Carlo erano fissi sui suoi. Si sentì ridicola.

    «Sai cosa mi sento invece?» Il tono di Virginia si era inasprito e lui la lasciò parlare.

    «Mi sento come una che non ha mai potuto scegliere niente della propria vita. Dall’entrare in polizia fino a questo incarico, questo incarico prestigioso. Tutti scelgono per me, per il mio bene, per la mia vita. Ma sarò in grado io di sapere qual è il mio bene, non credi? Su una cosa hai ragione, Carlo. Non durerà in eterno, credimi.»

    «Se vuoi dopo la riunione prendiamo un caffè, facciamo due parole. Tranquilli, al bar», aggiunse alzando le mani come per arrendersi.

    «Ci vediamo alle nove e mezza», fu la risposta di Virginia infilandosi il giaccone e andando verso la porta.

    «Vivì, ancora ‘na cosa.» Virginia si fermò con la mano sulla maniglia. «Ti profumi sempre così quando vai a dormire?» Lo fissò per un istante senza muovere un nervo poi gli fece un sorriso malizioso.

    «No, me l’hanno chiesto.» Uscì dall’ufficio sbattendo la porta nel buio del palazzo.

    Quando il rimbombo della porta si spense nell’edificio, Carlo prese una penna dal portamatite e aprì il fascicolo, leggendone a voce alta l’intestazione: «Fascicolo SS-1701-21, Giulio Della Rovere.»

    Mattina

    Alle nove e mezza esatte, un uomo sui trent’anni vestito da teenager, con una felpa dal cappuccio grigio calcato in testa, un paio di jeans sgualciti con il cavallo al ginocchio e un piumino smanicato entrò nell’ufficio di Carlo Dragoni. Richiuse la porta e senza dire una parola andò a sedersi nella poltrona a fianco a quella occupata da Virginia Visconti, senza distogliere lo sguardo dallo schermo dello smartphone che teneva in mano. Carlo, seduto alla scrivania, lo fissò serio.

    «Ispettore Zanni, buongiorno. Scusa se tra noi puerili civili manteniamo ancora la brutta abitudine di salutarci», lo apostrofò. Virginia sorrise e Zanni ricambiò con un cenno della testa, sfilandosi il cappuccio e liberando una massa enorme di capelli biondi, quasi bianchi, che ricaddero sulla fronte e sulle spalle, trasformandolo in una specie di vichingo. Anche le sopracciglia e il pizzetto erano dello stesso colore. Se non fosse stato per gli occhi di un blu intenso e la pelle abbronzata, avrebbe potuto essere scambiato per un albino. Dragoni passò oltre. Conosceva Zanni ormai da qualche anno, dopo averlo visto all’opera in una complicata indagine di cyber-terrorismo. Alcuni hacker avevano attaccato delle importanti piattaforme informatizzate di rilevanza nazionale e la Polizia Postale aveva calato sul campo i suoi assi. Uno di questi era Alex Zanni. Dragoni era rimasto colpito, oltre che dalla preparazione tecnica, anche dalla capacità di risolvere i problemi pratici che si possono presentare in un’indagine, dalla logistica agli equipaggiamenti non in dotazione. Zanni aveva anche un trascorso nella scientifica della sua città, che gli permetteva di poter chiedere favori e agevolazioni qualora fosse necessario, oltre che una conoscenza tecnica indispensabile. Era per questi motivi che Dragoni lo aveva proposto per la S.I.R. numero 17, assicurandosi il supporto di una specie di genio ribelle, un poliziotto che di notte suonava con la sua rock band in infimi locali ma era astemio, un esperto di deep web senza televisore in casa. Zanni era la persona che tutti i comandanti vorrebbero nelle loro squadre, il jolly che ti può rimediare un’informazione da un tossico suo amico e allo stesso tempo fare una conference call sull’ultimo programma applicativo crittografato con un collega di Londra. Carlo e Virginia erano vestiti come poche ore prima e avevano entrambi i segni del sonno arretrato sotto gli occhi.

    «Passi il non saluto, ormai ti conosciamo Alex, ma metti via quel telefono o te lo lancio fuori dalla finestra, chiaro?» Zanni digitò ancora un paio di secondi poi con una specie di grugnito infilò mani e telefono nelle tasche della felpa. Nello stesso momento il suono di un campanellino metallico uscì dalla tasca interna del giaccone di Virginia. Carlo la fulminò con lo sguardo e lei di rimando incenerì Alex.

    «Oh, vediamo quando deve finire ‘sta camurria!», sbottò Carlo. Virginia sapeva che quando partiva una parola in siciliano era meglio tacere.

    «Vi sembrerà strano ma l’umanità è sopravvissuta e ha prosperato anche senza messaggiare stronzate continue. Quindi se non volete raccogliere i pezzi dei vostri telefonini della minchia contro il muro, spegneteli, mangiateli, fate quello che volete ma al prossimo suono mi incazzo veramente. Sono stufo di combattere contro ‘sti aggeggi.»

    «Combattere? Cosa fai, la guerra ai cellulari?» sorrise Virginia. Carlo rimase serio, apatico.

    «Sì, una guerra che ho perso anni fa e comunque non sono affari tuoi.» Nessuno dei due rispose. Rimasero entrambi immobili con le mani in tasca. Virginia si sentì improvvisamente in colpa, come se avesse detto qualcosa che non avrebbe dovuto neanche pensare.

    «Chiunque può aspettare a meno che non sia il Presidente del Consiglio per me o io per voi. Occappa? Discorso chiuso. Dunque» attaccò poi calmandosi, «ho letto il segretissimo che ci hanno scaricato addosso e posso dirvi che si preannuncia una bella menata, direi. Gli scienziati del ministero sono tutti preoccupati della situazione che si è creata intorno al commendatore Giulio Della Rovere.» Il tono di Dragoni cambiava decisamente quando entrava nel ruolo di comandante della S.I.R., assumendo linguaggio e modo di fare classici del poliziotto.

    «Quel Della Rovere?», domandò Virginia. Dragoni annuì meccanico aprendo il fascicolo.

    «Proprio lui. Giulio Della Rovere, 72 anni. Discendente diretto del ramo ligure dei nobili Della Rovere, rinunciatario ormai da anni al titolo per ovvi motivi. Capite che facendo l’imprenditore e il politico, era ridicolo continuare a farsi chiamare marchese. Attualmente è a capo di un impero finanziario da centinaia di milioni l’anno. Le sue società si occupano principalmente di grandi opere edilizie un po’ in tutto il mondo; dighe, strade intercontinentali, bacini artificiali, ponti e qualunque roba smuova tonnellate di cemento e soldi.

    «La leggenda narra che abbia rinunciato alla vita agiata che le sue origini potevano garantirgli per comprare una draga e una concessione estrattiva una quarantina d’anni fa, iniziando a vendere ghiaia per i cantieri. Poi come sappiamo tutti, se sei un pezzente rimani un pezzente, se sei ricco lo diventi ancora di più e così è successo a Delle Rovere.» Sfogliò un paio di pagine del fascicolo.

    «Nell’87 entra in politica. Non sto qui

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