La mite + Il coccodrillo: Ediz. integrali
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La burocrazia e la società ottusa possono diventare veri e propri mostri in grado di inghiottire persone intere? Dostoevskij scrisse "Il Coccodrillo" nel 1865 regalandoci una storia surreale, visionaria e persino ironica, che lui stesso lasciò quasi volontariamente o provocatoriamente incompiuta. In un negozio del Passage, una galleria commerciale di lusso, Ivan Matveič viene inghiottito da un coccodrillo portato lì in mostra. Sua moglie e un suo amico rimangono prima paralizzati, poi sbalorditi nello scoprire che l’uomo non solo è rimasto vivo, ma addirittura si è sistemato comodamente nelle viscere dell’animale. Si tratta di un racconto di critica sociale e d’introspezione psicologica. Una lettura sorprendente e inquietante, che fa riflettere sulle conseguenze della cieca adesione alle regole e alla routine, e sulla necessità di difendere la propria umanità in un mondo che sembra averla persa.
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La mite + Il coccodrillo - Fëdor Dostoevskij
Fëdor Dostoevskij
image 1La mite
+
Il coccodrillo
Edizioni integrali
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A cura di Aleksei Bukowski
Edizione cartacea disponibile isbn - 9791254542583
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Indice dei contenuti
LA MITE
Nota dell'autore
Capitolo primo
1
2
3
4
5
6
Capitolo secondo
1
2
3
4
IL COCCODRILLO
1
2
3
4
Note
LA MITE
Nota dell'autore
Mi scuso coi miei lettori se questa volta, al posto del Diario
nella sua usuale forma, offro soltanto un racconto. Ma, in effetti, esso mi ha tenuto occupato molto nel mese. Invoco, in ogni caso, la benevolenza dei lettori.
Veniamo al racconto. L'ho definito fantastico
, nonostante io lo consideri assolutamente reale. Ma l'elemento fantastico esiste senza dubbio ed è presente proprio nella forma stessa del racconto, questione che io trovo necessaria da chiarire ancor prima dell’inizio.
Il fatto è che questo non è né un racconto né un memoriale. Prendete un uomo, e immaginate che accanto a lui giaccia, stesa su un tavolo, la moglie che qualche ora prima si è suicidata gettandosi dalla finestra. L'uomo è sconcertato e ancora non riesce a ordinare i propri pensieri. Passa da una stanza all'altra e si sforza di prender coscienza di quanto è accaduto, di sistemare i propri pensieri. Come se non bastasse, è un ipocondriaco irrecuperabile, uno di quelli che parla da solo. Già, parla da solo, si racconta la vicenda, la spiega a se stesso. Nonostante l'apparente sensatezza del discorso, egli si contraddice diverse volte sia nella logica che nei sentimenti. Ora si discolpa, ora accusa la moglie, ora azzarda spiegazioni estranee alla faccenda: in alcuni momenti manifesta una certa brutalità di mente e di cuore, in altri rivela invece un sentimento profondo. Poco alla volta, in effetti, riesce a spiegarsi la vicenda e a sistemare i propri pensieri. Alla fine, è proprio la successione dei ricordi da lui stesso evocati che lo conducono inevitabilmente alla verità ; e la verità ineluttabilmente eleva la sua mente e il suo cuore. Verso la fine, anche il tono del racconto cambia se paragonato con il suo caotico principio. La verità si rivela al disperato in modo abbastanza chiaro e preciso, quantomeno per quel che lo riguarda.
Ecco dunque il tema. Ovviamente lo sviluppo del racconto comprende diverse ore, procedendo a salti e in maniera discontinua, per di più in forma sconnessa: l'uomo a volte parla tra sé, altre è come se si rivolgesse a un ascoltatore invisibile, a una specie di giudice. Nella realtà accade proprio così. Se uno stenografo avesse potuto ascoltarlo e trascrivere ogni cosa, ne sarebbe uscito qualcosa di più conciso, di meno elaborato di quanto io abbia esposto, anche se, o almeno mi sembra, l'ordine psicologico sarebbe probabilmente rimasto lo stesso. E proprio l’idea dell'esistenza di uno stenografo che avrebbe preso nota di tutto (e a questo stenografo io sarei subentrato per dare una forma agli appunti) è quel che, in questo racconto, definisco fantastico. Ma un qualcosa di parzialmente analogo è già stato concesso diverse volte nell’arte: Victor Hugo, per esempio, nel suo capolavoro L'ultimo giorno d'un condannato a morte
, ha sfruttato un procedimento molto simile e, pur non chiamando in causa uno stenografo, si è permesso un'inverosimiglianza ancor più grande, immaginando che un condannato a morte possa (e ne abbia il tempo) prendere appunti non soltanto durante la sua ultima giornata, ma addirittura durante la sua ultima ora e poi anche nell'ultimo minuto. Ma, se egli non avesse sfruttato questa fantasia, l'opera stessa non esisterebbe, e non sarebbe la più reale, la più autentica tra quelle scritte da lui.
Capitolo primo
1
Chi ero io e chi era lei
...Allora, finché lei si trova qui, non va così male: mi avvicino ogni minuto e la guardo; domani, però, la porteranno via e a quel punto come farò quando sarò solo? Adesso lei è su un tavolo in soggiorno, hanno avvicinato due tavolini da gioco, ma domani arriverà la bara, bianca, e bianco sarà il gros de Naples [¹] , ma del resto non è di questo che volevo parlare... Non faccio che andare avanti e indietro, voglio capire bene quel che è successo. Ormai sono sei ore che voglio chiarirmelo in testa ma non riesco a fare il punto dei miei pensieri. Forse perché non riesco a smettere di andare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro... È così che è andata. Racconterò con ordine (l’ordine?). Signori, non sono certo un letterato, e voi lo state ben vedendo, ma non importa, racconterò la cosa come io stesso la capisco. E qui sta tutta la mia tragedia, nel fatto che io capisco tutto!
Se volete proprio saperlo, dovendo cominciare dall'inizio, era lei che, molto semplicemente, ogni tanto veniva da me per impegnare degli oggetti allo scopo di pagare la pubblicazione di annunci su Voce
, nei quali scriveva così: governante disposta anche a viaggiare, a dare lezioni a domicilio, eccetera, eccetera. Questo accadeva proprio all'inizio e io, ovviamente, non la distinguevo dagli altri: veniva come tutti, come accade spesso. Ma poi cominciai a ricordarmi di lei. Era esile, una ragazza bionda di statura media; sempre impacciata nei miei confronti, come se si vergognasse (sono convinto comunque che si comportasse così con tutti gli estranei e io, ovviamente, ero per lei uno qualunque, se mi si considera come persona, non come uomo del banco dei pegni). Non appena prendeva i soldi, si voltava e usciva. Sempre senza aggiungere nulla. Gli altri discutono, pregano, trattano perché vogliono di più; lei mai, quel che le veniva dato... Mi sembra di rendere tutto più confuso... Sì, mi colpirono soprattutto gli oggetti che portava; orecchini d'argento dorato, un piccolo medaglione di nessun valore, cose da pochi copechi. Ma d’altronde lei stessa sapeva bene che il loro valore era quasi nullo; io le leggevo negli occhi che per lei erano oggetti preziosi, ed effettivamente essi rappresentavano tutto quel che le era stato lasciato dal padre e dalla madre, come poi venni a sapere. Soltanto una volta mi presi la libertà di sorridere dei suoi oggetti. Vedete, il fatto è che io non mi lascio mai andare ad atteggiamenti del genere; con il pubblico assumo modi da gentiluomo: poche parole, con garbo e con severità. Severità, severità e ancora severità
[²] . Ma lei una di queste volte si era permessa di portare i resti (i resti per davvero) di una vecchia giacchetta di lepre; allora non riuscii a trattenermi e me ne uscii con una qualche battuta. Accidenti come si arrabbiò! I suoi occhi erano azzurri, grandi, pensierosi, eppure s’infiammarono! Ma non si lasciò scappare nemmeno una parola, raccolse i suoi resti e uscì. Fu quella la prima volta in cui la notai davvero e pensai di lei qualcosa di particolare, intendo qualcosa di davvero particolare. Sì, ricordo ancora la sensazione di quel momento, o, se volete, la sensazione principale, la sintesi del tutto: mi colpì il fatto che fosse estremamente giovane, tanto giovane da non aver più di quattordici anni. E invece in quel periodo le mancavano tre mesi per compierne sedici. Ma in realtà non era questo che volevo dire, non è affatto questa la sintesi. Il giorno seguente si presentò ancora. Venni poi a sapere che con quella giacchetta era andata da Dobronravov e da Moser, ma quelli, prendono soltanto l'oro e non le avevano dato retta. In precedenza, da lei avevo accettato un cammeo (di poco valore, in realtà) e in seguito, riflettendoci, me ne ero anche stupito: anch’io non prendo niente al di fuori dell'oro e dell'argento, ma da lei avevo accettato un cammeo. Ricordo che questo fu il secondo pensiero che mi venne sul suo conto.
Quella volta, vale a dire dopo aver tentato da Moser, venne da me con un bocchino d'ambra, una cosina niente male, da amatori, ma anche questa per noi era priva di valore, dal momento che prendiamo soltanto l'oro. Siccome era tornata dopo la ribellione
del giorno prima, la trattai con severità. La mia severità consiste in un tono secco. Tuttavia, dandole due rubli, non mi trattenni e le dissi leggermente irritato: Sia chiaro che lo sto facendo solo per voi , un oggetto del genere Moser non ve lo prenderebbe di sicuro
. Sottolineai in maniera particolare quel per voi
e lo feci con un intento ben preciso . Fui cattivo. Lei si arrabbiò, sentendosi dire quel per voi
, ma non fiatò, non rifiutò i soldi, li prese; a tal punto conduce la povertà! Ma come si arrabbiò! Capii di averla ferita. E quando se ne fu andata, mi chiesi d'un tratto: ma veramente quel trionfo su di lei valeva due rubli? Eh, eh, eh! Ricordo esattamente che me lo chiesi per ben due volte: Li vale? Li vale?
. E, ridacchiando, mi permisi di darmi una risposta affermativa. Quella volta fui fin troppo compiaciuto di me.