Il castello di Axel
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Il castello di Axel - Cristiano Pedrini
Capitolo Primo
Il castello dei sogni
La foschia iniziò lentamente a diradarsi, allontanandosi sconfitta al sopraggiungere del tiepido sole di quella nuova giornata, mostrando l’epilogo di un duello dall’esito già scritto agli occhi stanchi di Fabien. Uno spettacolo che riusciva ogni volta a colmare il suo cuore di infinite emozioni che non voleva più tentare di classificare. Bastava il loro sopraggiungere a dare il via a quella quotidianità che molti immaginavano vuota e ripetitiva. Ma lui sapeva che quel giudizio non corrispondeva affatto alla realtà e non si preoccupava minimamente di suffragarlo. Immerso in quel silenzio dal quale sapeva trarre un beneficio impagabile, vide il suo riflesso nelle acque che aveva davanti a sé. Poteva distinguerne i contorni ancora imprecisi, ma presto la luce li avrebbe svelati aggiungendo altri particolari a quel rito che da settimane si concedeva: attendere lo spuntare del sole sulla riva, con alle spalle la maestosa sagoma del castello di Bretesche, un luogo del quale Fabien si era innamorato da quando vi aveva messo piede. Nei giorni passati aveva cercato di comprendere cosa lo spingesse a riversare in quell’edificio tanta attenzione, molta di più di quella che era necessaria per adempiere al suo lavoro, e ancora una volta la risposta tardava a giungere. Forse non esisteva affatto, almeno non la risposta razionale e sicura che voleva trovare. Doveva tenersi stretto quell’unico pensiero scaturito dalle sensazioni che lo seguivano da quando, nel suo girovagare per il castello aveva messo piede nella torre dell’ala est e che ora tornava a osservare, adagiata su quelle placide acque nelle quali si specchiava al pari di un potente ed elegante alfiere che terminava con un tetto a punta. Le tegole di ardesia brillavano di quell’insolito tono azzurro unendosi al candore delle grandi pietre con la quale era stata costruita secoli addietro.
Lo sguardo di Fabien rimase incollato al balcone dal quale si era affacciato più di una volta, ma senza riuscire a cogliere la risposta che una parte di sé continuava a ricercare in modo ossessivo. Ispirò profondamente l’aria salmastra rimanendo rannicchiato sul bordo della riva, immerso nel giardino che si estendeva fino alle rive del lago, protetto dai solidi bastioni di pietra. Strinse le braccia attorno alle ginocchia, posandovi il mento per osservare gli ultimi istanti di quel mondo fiabesco e immateriale che scompariva, lasciando il posto a quello reale che lo reclamava.
«Sei sempre mattiniero» udì alle sue spalle. La voce pacata di Marine sembrò fondersi con il paesaggio che il ragazzo continuava a osservare per altri interminabili istanti prima di decidersi a rialzarsi. Si ripulì dalla polvere i jeans, salutandola con quel timido sorriso che riusciva a sfoggiare davanti a quell’energica donna di mezza età che gli ricordava la nonna materna con la quale era cresciuto. Avevano la stessa forma del viso, rotonda, di un rosato acceso e una parlantina invidiabile, ma le somiglianze terminavano qui. I capelli neri, tenuti ben raccolti in una lunga coda, fissati con l’immancabile fermaglio, il suo fisico robusto e la sua schiettezza instillavano in chiunque fosse al suo cospetto una sana dose di rispetto e timore.
E lui? Quello stesso Dio gli aveva concesso ben altro aspetto che inducevano a un diverso giudizio, a partire dal suo viso pallido, dai lineamenti che qualcuno, senza molti complimenti, avrebbe definito troppo aggraziati per un ragazzo e che tentava di nascondere, sforzandosi di lasciar crescere la barba che, in realtà, non voleva spuntare, nonostante i suoi ventuno anni, limitandosi a qualche sparuto peletto nero qua e là. Si passò le mani tra i capelli mori, una cascata che teneva in perenne disordine nella convinzione che gli desse un’aria più decisa e ribelle, un tentativo destinato a essere ridimensionato dall’azzurro profondo dei suoi occhi che riusciva a trasmettere una ingenuità spesso confermata dai suoi modi goffi che affioravano ogni volta che qualcuno tentava di fargli un complimento.
Marine doveva ammettere in quelle poche settimane dal suo arrivo a Bretesche, che quel ragazzo giunto per rispondere a un annuncio di lavoro, suscitava la sua curiosità. Sembrava il perfetto discendente di uno dei nobili che vi avevano soggiornato. Qualcosa nel suo modo di fare, nelle attenzioni che riversava in ogni lavoro che svolgeva, anche il più semplice e modesto, lo facevano apparire come la persona giusta al posto giusto. Vedeva nitidamente la sua gentilezza riempire ogni suo gesto.
«C’è una buona colazione che ti attende» disse la donna prendendolo sottobraccio, accompagnandolo verso il castello. «Oggi è una giornata speciale, finalmente il signor de Sauve si è deciso a tornare nella sua proprietà» aggiunse sottolineando la notizia con un profondo respiro, rassicurata e sorpresa al tempo stesso dal prossimo arrivo del proprietario di Bretesche.
«Che persona è? Oltre a essere ricca sfondata» domandò Fabien ricevendo in risposta un sorriso imbarazzato.
«Per la verità non lo so più. Dalla morte del padre Armand, che conoscevo assai bene, è il figlio Dorian che ora ha ereditato tutto. L’ho visto l’ultima sei anni fa, in estate quando venne qui per trascorrere qualche giorno di vacanza, ma se ne andò quasi subito. Credo che non ami particolarmente questo posto.»
«Ma ora vi ritorna, è un buon segno, non crede?» osservò Fabien fermandosi davanti alla portafinestra socchiusa.
«Me lo auguro - ammise Marine aprendola e invitandolo a entrare - in tutti questi anni Armand ha provveduto a mantenere la proprietà, pagandomi una generosa indennità e spero di poter continuare ad invecchiare tra queste mura.»
Percorsero in silenzio il corridoio che conduceva alla sala da pranzo. Essendo gli unici che vivevano al castello la preferivano nel quotidiano all’ampia e rustica cucina. Per la verità a Fabien, l’idea di sedersi a quel lungo tavolo di mogano, tanto lucido che poteva specchiarvisi, scatenava in lui una certa apprensione e neppure il sollevare lo sguardo verso le pareti alle quali erano appesi dei grandi arazzi riuscivano a rassicurarlo. La luce che penetrava dalle ampie finestre illuminava tutti quei mille particolari che il ragazzo credeva di notare per la prima volta. Ecco uno dei risvolti di quel luogo al quale faticava ad abituarsi: l’ostentazione di un passato indubbiamente blasonato della dimora davanti al quale si sentiva piccolo e insignificante.
Consumò la colazione velocemente. Bevve tutto d’un fiato il caffè latte, dopo aver ingoiato due fette di pane ricoperte della marmellata ai frutti di bosco la cui ricetta Marine conservava alla stregua di un segreto di Stato. Si rialzò veloce sfidando lo sguardo della donna che non aveva ancora toccato quello che era sul tavolo.
«Dovresti evitare di mangiare così velocemente. Non è salutare» osservò mentre cospargeva la confettura su una fetta di pane tostato.
«Ho molte cose da sistemare e vorrei farle prima dell’arrivo del signor de Sauve» si giustificò Fabien ripulendosi le labbra con il tovagliolo prima di uscire dalla stanza suscitando l’ilarità di Marine. In certe situazioni la vitalità di quel ragazzo aveva il potere di infrangere la quiete di quelle stanze ricordandole che il mondo fuori da esse aveva proseguito il suo inesorabile cammino. L’idea di condividere le sue giornate con un ragazzo così giovane l’aveva spiazzata. Proprio lei, che aveva vissuto a Bretesche, con la sola compagnia del vecchio Edmond che aveva curato i giardini del castello per oltre trent’anni, fino alla sua morte.
Sollevò la tazza, centellinando il latte, ritrovandosi a fissarne il candore e il caldo tepore che sprigionava. Lo stesso che aveva percepito dalla voce di Fabien quando se l’era visto davanti aprendo il portone dell’ingresso. Era la prima persona che si presentava per l’annuncio di giardiniere tuttofare e mai avrebbe pensato di trovarsi al cospetto di un giovane che dimostrava meno dei ventuno anni che aveva letto sul suo documento d’identità. Avrebbe potuto accampare un qualsiasi pretesto, come la sua poca esperienza, per soprassedere e comunicargli la sua inidoneità a quell’impiego, ma non riuscì. Lesse il suo breve curriculum e lo fece accomodare. Davanti a una tazza di tè non esitò a chiedergli perché desiderasse essere assunto per occuparsi dei giardini della grande tenuta trattandosi di un lavoro piuttosto faticoso.
«Mi piace lavorare all’aria aperta e poi, questo castello è un’oasi di pace» gli rispose voltandosi per osservare dalla finestra il lago che si estendeva a perdita d’occhio.
«Cosa te lo fa credere?»
Fabien non si aspettava quella domanda. Cercò di nascondere il suo imbarazzo bevendo un poco dell’infuso, ma lo sguardo in attesa di Marine non gli dava tregua. Posò la tazza sul tavolo della sala da pranzo, accompagnando quel gesto con un lieve colpo di tosse e sperando di non