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L'eroe di Roma - Combatti per Roma - La vendetta di Roma
L'eroe di Roma - Combatti per Roma - La vendetta di Roma
L'eroe di Roma - Combatti per Roma - La vendetta di Roma
E-book1.292 pagine19 ore

L'eroe di Roma - Combatti per Roma - La vendetta di Roma

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Info su questo ebook

3 grandi romanzi storici

Britannia, 59 d.C. Il potere di Roma sul territorio dell’odierna Inghilterra si sta indebolendo e l’ascesa dei Druidi sembra inarrestabile. I tremila soldati romani guidati da Gaio Valerio Verre stanno per affrontare la sanguinosa orda dei cinquantamila ribelli di Budicca, in una disperata quanto inutile resistenza. Valerio sarà l’unico a sopravvivere alla disfatta, guadagnandosi così il titolo di Eroe di Roma. 
Gaio Valerio Verre è appena tornato nell’Urbe dopo la campagna in Britannia. Ma Roma non è più come Verre la ricordava: lo scellerato governo di Nerone ha seminato il panico e i seguaci di Cristo alimentano la sedizione tra il popolo. Spetterà a Gaio Valerio catturare il capo dei ribelli, un uomo conosciuto come Pietro. 
Roma, 66 d.C. In Giudea, i ribelli hanno battuto l’esercito di Nerone; in Germania le legioni sul Reno sono in agitazione; in Spagna il governatore trama contro di lui. Ma la minaccia più pericolosa arriva da Oriente, dove Nerone teme che il generale Corbulone si stia preparando a marciare contro Roma. Gaio Valerio Verre, eroe di Roma, viene inviato ad Antiochia, ma una volta lì scopre che Corbulone non è affatto interessato a Roma, ma cerca anzi di contrastare la minaccia rappresentata dal re dei Parti, Vologase…

Un autore tradotto in 12 Paesi 
Una scrittura monumentale 

«Uno dei migliori autori di romanzi storici.» 
Daily Express 

«Se fossi Conn Iggulden o Simon Scarrow, sarei piuttosto preoccupato del nuovo arrivato…» 
Scotsman 

«Douglas Jackson è un maestro nel prendere per mano il lettore e trasportarlo nell’epoca di Caligola, dando vita a un affresco ricco di luci e ombre e creando un intreccio che appassiona e commuove.» 
Manda Scott, autrice di Sognando le aquile 

«Douglas Jackson darà filo da torcere ai maggiori scrittori di romanzi storici.» 
The Scotsman
Douglas Jackson
È un ex giornalista e nutre da sempre una grande passione per la storia romana. Vive in Scozia, con la moglie e tre figli. È autore, tra gli altri, dei romanzi Il segreto dell’imperatore, Morte all’imperatore!, L’eroe di Roma, Combatti per Roma, La vendetta di Roma, Nel segno di Roma, I nemici di Roma, La conquista di Roma e Per la salvezza di Roma, pubblicati dalla Newton Compton. I suoi libri sono tradotti in 12 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788822754974
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    Anteprima del libro

    L'eroe di Roma - Combatti per Roma - La vendetta di Roma - Douglas Jackson

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    2838
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    Queste sono opere di fantasia. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi, le organizzazioni e gli avvenimenti descritti sono il frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Ogni somiglianza con persone reali, esistenti o esistite, con aziende, con avvenimenti e luoghi è puramente casuale. L’editore non ha alcun controllo – e non si assume alcuna responsabilità – sui siti dell’autore o di terze parti e sui loro contenuti.

    Titolo originale: Hero of Rome

    © Douglas Jackson, 2010

    Traduzione dalla lingua inglese di Giampiero Cara

    Titolo originale: Defender of Rome

    Copyright © Douglas Jackson, 2011

    All right reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Valentina De Rossi

    Titolo originale: Avenger of Rome

    Copyright © Douglas Jackson, 2012

    All right reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Rosa Prencipe

    Prima edizione: marzo 2021

    © 2010, 2011, 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5497-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Corpotre, Roma

    Douglas Jackson

    L’eroe di Roma

    Combatti per Roma

    La vendetta di Roma

    A Beautiful Mess Series

    OMINO-OTTIMO.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    L’eroe di roma

    Prologo

    Capitolo uno

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    Capitolo trentanovesimo

    Capitolo quarantesimo

    Capitolo quarantunesimo

    Combatti per Roma

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    Capitolo trentanovesimo

    Capitolo quarantesimo

    Capitolo quarantunesimo

    Capitolo quarantaduesimo

    Capitolo quarantatreesimo

    Capitolo quarantaquattresimo

    Capitolo quarantacinquesimo

    Capitolo quarantaseiesimo

    Capitolo quarantasettesimo

    Nota storica

    RINGRAZIAMENTI

    La vendetta di Roma

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    Capitolo trentanovesimo

    Capitolo quarantesimo

    Capitolo quarantunesimo

    Capitolo quarantaduesimo

    Capitolo quarantatreesimo

    Capitolo quarantaquattresimo

    Capitolo quarantacinquesimo

    Capitolo quarantaseiesimo

    Capitolo quarantasettesimo

    Capitolo quarantottesimo

    Cenni storici

    RINGRAZIAMENTI

    GLOSSARIO

    l’eroe di roma

    Per Alison

    Quale fu la rovina di Sparta e di Atene, se non questa: che per quanto fossero forti in guerra, respingevano con sdegno come stranieri coloro che avevano conquistato?

    Claudio, imperatore di Roma, 48 d. C. 

    Nota storica

    L’eroe di Roma è un’opera di fantasia, ma la storia dei duecento uomini inviati da Londinium per rinforzare i veterani a Colonia, di fronte all’esercito vendicatore di Budicca, viene raccontata dallo storico Tacito nei suoi Annali.

    Prologo

    Mentre camminava nudo tra i fuochi gemelli, le fiamme si allungavano verso di lui come le braccia di un amante. Ne sentiva la calda carezza sulla pelle, ma sapeva che non potevano fargli del male, perché erano le fiamme del dio Taranis e lui era il suo servo. La pelle di chiunque altro si sarebbe bruciata e raggrinzita sotto il loro calore, ma lui restava illeso.

    Quando raggiunse il lato opposto della stanza, trovò ad attenderlo Aymer, l’alto sacerdote della setta, con indosso gli abiti che avrebbe portato per il suo viaggio, purificati e benedetti a loro volta. Il druido era molto anziano, un involucro umano rinsecchito, prosciugato e consumato da lunghi anni di duro lavoro, di studio e di astinenza nelle grandi sale dalle pareti di quercia di Pencerrig. Ma la forza vitale pulsava ancora in lui con grande intensità, e Gwlym la sentiva, insieme all’innegabile espansione della sua mente di fronte a quegli occhi scoloriti e lattiginosi che fissavano i suoi. Non furono pronunciate parole quando Aymer gli passò la conoscenza che lo avrebbe portato alla sua meta, ma lui vedeva già con chiarezza il percorso. Le montagne nere, con le gole profonde e i sentieri stretti lungo torrenti schiumosi e disseminati di rocce. Il grande fiume vorticoso, scuro e profondo, che Gwlym avrebbe dovuto attraversare senza farsi scorgere, per poi avventurarsi, rischiando ancora di più, sulla distesa verde del pascolo, con i suoi sentieri molto battuti e gli abitanti curiosi, prima di raggiungere, alla fine, il rifugio delle foreste e del mare lontano.

    «Tutto è compiuto», disse il sacerdote, con la voce resa più fragile dall’età. «La purificazione è completa».

    Gwlym si vestì in fretta e seguì il druido nell’oscurità dove li attendevano i cavalli. Si fecero largo nella notte lungo strade nascoste, finché non raggiunsero il limitare di una bassa scogliera che dava su un sottile lembo di spiaggia. Da sotto proveniva il leggero sibilo delle onde che s’infrangevano ritmicamente sulla riva ghiaiosa, e Gwlym vide una figura in ombra che lavorava alla fragile imbarcazione di legno e pelle di animali che lo avrebbe portato sull’altra sponda. La luce, o meglio la sua mancanza, rendeva il mare d’un color argento opaco e plumbeo, oltre il quale si scorgeva il contorno più scuro e più sinistro della terraferma. Esistevano percorsi più corti tra Mona, l’isola sacra dei druidi, e il paese dei Deceangli, ma sarebbero stati senz’altro controllati.

    «Verranno presto a cercarci». Le parole di Aymer si udivano a malapena. «Prima di allora dovrai aver ultimato il tuo compito».

    Gwlym annuì. Non c’era nient’altro da dire. Capiva che non avrebbe più rivisto Aymer dopo quella notte. Presto le legioni di Roma avrebbero attraversato quelle stesse gole per distruggere l’ultima roccaforte dei druidi e spezzarne per sempre il potere. Sentì il dolore sordo del rammarico, sapendo che non avrebbe condiviso il destino dei sacerdoti che l’avevano addestrato, alimentando la sua incessante ricerca di conoscenza. Ma doveva compiere la sua missione, che era una cosa ancor più importante. Perché anche quando le lance delle legioni si fossero abbattute su Mona, lui avrebbe riattizzato le ceneri ardenti del fuoco a lungo trascurato dell’orgoglio celtico e creato una conflagrazione in grado di distruggere i Romani e tutti i loro alleati sull’isola di Britannia. La vergogna, il risentimento e l’umiliazione sarebbero state le sue armi principali. Dopo sedici anni di sottomissione e di degrado, le tribù erano pronte a ribellarsi; avevano bisogno soltanto di una scintilla e di una guida. Gwlym sarebbe stato la scintilla, e gli dèi avrebbero inviato la guida.

    «Porta la parola. Portala lontano, ma con attenzione. Non devi lasciarti catturare». Aymer fece una pausa, dando tempo a Gwlym di riflettere sulla spiacevole realtà delle sue ultime parole. «Consiglia pazienza. Al momento giusto, gli dèi manderanno un segno: la collera di Andraste pioverà dal cielo e i popoli della Britannia si solleveranno dalla schiavitù per spazzar via gli usurpatori dalla nostra terra, in un vortice di sangue e fuoco».

    «La collera di Andraste». L’uomo più giovane sussurrò tra sé quelle parole come una preghiera, prima di scendere verso la spiaggia scegliendo con cura il percorso da seguire, senza mai guardarsi indietro.

    capitolo uno

    Valle del Severn, Siluria, settembre, 59 d.C.

    Erano davvero passati soltanto dieci minuti? Gaio Valerio Verre digrignò i denti mentre sorrideva, e fissò gli occhi del suo avversario, ma il messaggio dietro quelle palpebre socchiuse, se c’era, era l’opposto di ciò che lui avrebbe voluto leggere: quel bastardo lo stava prendendo in giro. Respirò forte dalle narici, assorbendo l’odore pungente del ceppo tagliato da poco su cui poggiava il gomito destro. Al tempo stesso sentì alleviarsi un poco il dolore che gli aveva attanagliato il bicipite. Incanalò il sollievo lungo l’avambraccio e l’interno del polso, fino alle dita della mano destra. L’aumento di forza doveva essere stato infinitesimale, tanto che anche lui se n’era accorto a malapena, ma poi notò un leggero movimento quando le sopracciglia di Crespo si contrassero, e si rese conto che anche il centurione l’aveva sentito. La mano che stringeva la sua, con il gomito appoggiato esattamente a sinistra del suo, era dura e callosa, e scottava come un mattone riscaldato a ipocausto. Dita simili ad artigli stringevano con una forza sufficiente a rompere ossa, ma lui resistette alla tentazione di accettare la sfida. Diresse invece tutta la propria forza nel tentativo di spostare il pugno di Crespo verso sinistra; qualunque movimento, anche minimo, sarebbe andato bene. Fino a quel momento, però, Crespo non gli aveva concesso neanche quello. Nemmeno lui, d’altronde, aveva ceduto di un millimetro. Il pensiero lo fece sorridere, e la folla di legionari intorno al ceppo d’albero gridò il proprio incoraggiamento di fronte a quel segno di fiducia in sé. Il braccio di ferro era uno dei passatempi preferiti nella Prima coorte della Ventesima legione. Bastava disporre di una superficie piatta e aver voglia di cimentarsi. Talvolta lo si faceva per divertimento. Talaltra per scommessa. Qualche volta, invece, ci si sfidava perché spinti da un odio reciproco.

    La Prima aveva occupato per sei giorni l’accampamento temporaneo nel lato riparato della fortezza collinare dei Siluri. Quando, due settimane prima, la pattuglia di cavalleria non aveva fatto ritorno, la reazione del legato era stata immediata, con una rappresaglia di massa. Tremila uomini – cinque coorti legionarie e un’unità mista di fanteria e cavalleria ausiliarie dalla Gallia e dalla Tracia – avevano marciato dietro le loro insegne giù per il Severn, poi verso ovest fino al terreno collinoso oltre quel fiume. Avevano trovato venti teste, con ancora gli elmi indosso, disposte come segnali su un sentiero. Alcuni sfortunati contadini celtici, prelevati lungo la strada e interrogati, li avevano condotti fin lì. Ci erano voluti cinque di quei sei giorni per scavare il fossato e il terrapieno intorno alla base della scabra collina che ora precludeva completamente agli abitanti della fortezza tanto eventuali aiuti quanto la possibilità di fuga. Quando non scavavano, i legionari passavano il tempo a fare la guardia, a esercitarsi o a pattugliare, ma durante gli occasionali periodi di riposo riuscivano a sedersi fuori dalle loro tende di pelle da otto e a fare le cose tipiche dei soldati: riparare e lucidare l’equipaggiamento, giocarsi d’azzardo la paga e lamentarsi degli ufficiali, oppure starsene semplicemente seduti a fissare il cielo e la foschia grigio-azzurra delle montagne lontane.

    Valerio si concentrò sul proprio braccio destro, tentando di infondergli più forza. Il grosso muscolo si gonfiava sotto la manica corta della tunica, come se stesse cercando di esplodere sotto la pelle; poteva vedere le vene scure contorcersi come serpenti sotto la superficie abbronzata. Era tanto gonfio da raggiungere le dimensioni di un piccolo melone, e uguagliava quello di Crespo, che pure veniva considerato l’uomo più forte di tutta la coorte. L’ampio avambraccio, invece, si affusolava verso il polso, dove i tendini sporgevano come radici di albero. Il polso era stretto saldamente intorno a quello di Crespo da un nastro di stoffa rossa, affinché nessuno dei due contendenti potesse spostare la presa e vincere con l’inganno. Ciononostante, sapeva che Crespo ci avrebbe provato lo stesso, perché era un imbroglione, un bugiardo e un ladro. Ma era anche un centurione anziano, e questo lo rendeva intoccabile. O quasi.

    Aveva visto Crespo picchiare una delle nuove reclute, il giovane Quinto di Ravenna, con il nodoso bastone di vite che portava come tradizionale segno distintivo del suo rango. Tutti i centurioni punivano i loro uomini, perché era la disciplina a rendere una legione degna di tal nome. Crespo, però, confondeva la disciplina con la brutalità, o forse, più semplicemente, gli piaceva la brutalità fine a se stessa, perché aveva picchiato Quinto fin quasi a farlo morire. Quando Valerio gli aveva ordinato di smettere, Crespo l’aveva squadrato con i suoi inespressivi occhi di ghiaccio. I due avevano dei conti in sospeso, basati più su una diffidenza animalesca che sull’ostilità fisica vera e propria. Il loro primo incontro era stato simile a quello di due cani che si incrociano su un sentiero stretto: drizzano i peli, valutano i reciproci punti di forza e di debolezza e si annusano in fretta per poi procedere oltre, senza però dimenticarsi l’uno dell’altro.

    Ora Valerio fissava i tratti somatici di Crespo da poco più di un cubito di distanza. Gli parve di percepire un po’ d’incertezza. Per gli dèi, sperava proprio di aver visto giusto. Il fuoco che era cominciato nel gomito stava salendo verso la spalla e verso la base del collo, e non somigliava a nessun dolore che avesse mai provato prima. Gli occhi sbiaditi di Crespo lo guardavano in cagnesco sul viso stretto e allungato che in qualche modo era riuscito a restare pallido, mentre il sole aveva abbronzato la maggior parte di quelli degli altri uomini. Valerio riuscì a scorgere una serie di butteri cosparsi sulla fronte e sul mento del suo avversario, segno di una malattia infantile a cui purtroppo era sopravvissuto. Aveva il naso lungo e ad angolo acuto, simile alla lama della scure di un geniere, sotto il quale stava come appesa una bocca che pareva quella di una vipera. Oh, era davvero un bell’uomo quel Crespo! Ma bello o no, era più alto di un’elsa di spada e, anche se Valerio aveva il petto e le spalle più ampi, il centurione poteva contare su una forza che solo quindici anni in una legione potevano dare. Di certo, una forza del genere non ti veniva facendo commissioni in tribunale. Ciononostante, il fatto di essere cresciuto nel podere di suo padre aveva dato a Valerio non solo una certa forza, ma anche la fiducia necessaria per usarla bene.

    Il sudore cominciò a colare dall’attaccatura dei capelli di Crespo: piccole perline di umidità quasi invisibili in mezzo ai disordinati capelli a spazzola che il barbiere della legione gli aveva lasciato. Come affascinato, Valerio guardava le goccioline ingrandirsi pian piano fino a unirsi tra loro, formando una goccia evidente che scivolò piano lungo la fronte sfuggente del centurione fino a raggiungere il punto in cui si univa al naso. A un certo punto, la goccia si fermò. Lui restò deluso. Quella goccia gli era sembrata un presagio. Era certo che, se avesse continuato a scendere giù per la lama della scure fino alla punta, avrebbe predetto la sua vittoria. Ma adesso non ne era più così sicuro. Era comunque segno di qualcosa. Un accenno di allentamento della presa gli diede come la sensazione che la forza dell’avversario, anche se apparentemente ancora implacabile, avesse superato il punto massimo. O forse Crespo lo stava attirando in trappola, facendogli pensare di aver vinto per poi lasciar esplodere l’energia che si teneva di riserva per il momento in cui sarebbe riuscito a sbilanciarlo appena? No. Doveva aspettare, pazientare.

    «Tribuno?».

    Valerio riconobbe la voce, ma cercò di non lasciare che lo deconcentrasse.

    «Tribuno Verre?». Il tono era un po’ più invadente di quanto si convenisse a un duplicarius nel rivolgersi a un ufficiale romano; ma visto che il soldato in questione lavorava per il comandante della Ventesima, sembrava ragionevole ignorare la potenziale mancanza di riguardo.

    «Non ne hai ancora avuto abbastanza, ragazzino?». Le labbra di Crespo si muovevano appena mentre sibilava quelle parole a denti stretti. Il pesante accento siculo ferì l’orecchio di Valerio quanto l’insulto.

    «Che c’è, soldato?». Il tribuno si rivolse all’uomo dietro di sé mantenendo gli occhi su Crespo e la voce ferma. I pugni uniti rimasero immobili, come scolpiti nella roccia.

    «Devi recarti dal legato, signore». Quell’annuncio provocò brontolii di delusione da parte della dozzina di legionari accalcati intorno al ceppo d’albero. Valerio avrebbe voluto mettersi a brontolare insieme a loro. Sentiva di poter vincere la gara. Ma non poteva lasciare in attesa il legato.

    Ciò comportava un problema: come liberarsi senza dare a Crespo qualcosa di cui vantarsi? Sapeva che, nell’istante in cui si fosse rilassato, il centurione gli avrebbe spinto giù il braccio per poi cantare vittoria. Sarebbe stata una cosetta da poco, una piccola sconfitta facilmente sopportabile, che gli avrebbe soltanto ferito un po’ l’orgoglio. Ma non era disposto a dare a Crespo neppure quella soddisfazione. Rifletté per qualche secondo, consentendo al suo avversario di pregustare il momento del trionfo; poi, mantenendo la presa, si alzò in piedi, trascinando con sé il centurione, confuso. Crespo represse un’imprecazione e fissò Valerio mentre il giovane tribuno usava la mano sinistra per sciogliere la stoffa che legava i loro polsi. «Ci sarà un’altra occasione. Ti avevo portato dove volevo».

    Valerio rise. «Hai avuto la tua opportunità, centurione, e ora ho di meglio da fare». Mentre si faceva largo tra la folla sghignazzante di legionari fuori servizio per seguire il messaggero del legato, sentì Crespo vantarsi con i suoi amici, gli uomini più anziani di cui aveva mantenuto la fedeltà assegnando loro compiti leggeri. «Troppo molle. Sono tutti uguali questi ragazzini ricchi che giocano a fare i soldati».

    A Valerio ci volle una ventina di minuti per lavarsi via il sudore dal corpo e per indossare l’uniforme sopra la tunica e le bracae, i tipici calzoni all’altezza dei polpacci che le legioni avevano adottato dopo il loro primo inverno in Britannia. Prima la sopratunica rosso scuro, poi la cintura intorno alla vita, con il grembiule decorativo dotato di cinghie di pelle borchiate che avrebbero dovuto proteggergli l’inguine, ma che in realtà non avrebbero fermato una piuma d’oca, figurarsi una lancia. Dopodiché il suo attendente l’aiutò a legare la lorica segmentata, l’armatura a piastre con tanto di giunture che gli copriva le spalle, il petto e la schiena, in grado di fermare una lancia ma anche abbastanza leggera da consentirgli di muoversi con rapidità e di combattere liberamente. Il gladio, con la sua corta lama, pendeva dal fodero sul fianco sinistro del tribuno, comodamente appoggiato sulla parte superiore della gamba e pronto a essere sguainato con quel sibilo musicale che gli faceva sempre rizzare i capelli sulla nuca. Infine, il pesante elmo lucidato, con le protezioni per il collo e gli zigomi, sormontato dal rigido pennacchio scarlatto di pelo di cavallo. Sapeva che stava mettendo alla prova la pazienza del legato, ma Marco Livio Druso era un generale dello stesso stampo di Gaio Mario, e avrebbe notato e ricordato qualunque cosa fuori posto.

    Quando fu soddisfatto, percorse a passo di marcia la breve distanza tra il bivacco che divideva con un altro dei sei tribuni militari della legione e il padiglione tendato che faceva sia da quartier generale del comandante sia da principia, il centro nevralgico della legione. L’ambiente circostante era confortevolmente familiare. File di tende ben definite, divise in unità di centurie e coorti, la via pretoria che si estendeva fino al punto in cui veniva divisa in due parti dalla via principalis, poco prima dei principia, o ancora oltre la zona di rifornimento, le tende dell’officina e le file di cavalli. Glevum, quartier generale permanente della Ventesima, si trovava a quaranta miglia di distanza a nord-est, ma da quando era arrivato in Britannia tanti mesi prima, giovane e nervoso, al porto sul fiume Tamesis, Valerio aveva trascorso più tempo in marcia o a svolgere compiti ingegneristici che all’interno del forte. Ormai accampamenti come quello, poco diversi l’uno dall’altro, gli erano più familiari della villa di suo padre. Sin dall’inizio, fare il soldato gli era riuscito forse non facile ma senz’altro naturale. In quei primi giorni, si era ritrovato spesso a giacere avvolto nel suo mantello, esausto dopo una lunga giornata di pattuglia, e a stupirsi di come il destino l’avesse portato proprio nel posto in cui sentiva di dover stare. Sapeva istintivamente che i suoi antenati avevano combattuto a fianco di Romolo, marciato con Scipione e sostenuto Cesare a Farsalo. Se lo sentiva dentro, in ogni nervo e in ogni tendine.

    Riconobbe nei due legionari di guarda all’esterno dei principia membri permanenti della guardia del corpo del legato. L’uomo a destra sollevò le sopracciglia, avvertendolo di come, con ogni probabilità, sarebbe stato accolto. Valerio gli sorrise a mo’ di ringraziamento, poi riprese la sua maschera inespressiva da soldato. All’interno, il generale era chino sopra un tavolo da campo, affiancato da un paio di aiutanti. Valerio si tolse l’elmo e rimase là in piedi per alcuni secondi, prima di battersi forte il pugno sul petto corazzato.

    «Tribuno Verre al tuo servizio, signore».

    Livio si girò con lentezza per guardarlo. Il calore del pomeriggio aveva reso l’aria all’interno dei principia consumata e umida, ma lui indossava lo stesso, sopra l’uniforme, il pesante mantello scarlatto che indicava il suo rango, e ormai il paffuto volto patrizio e il cranio sempre più afflitto dalla calvizie avevano quasi lo stesso colore.

    «Spero di non aver disturbato i tuoi giochi, Verre». La voce era troppo educata, con un tono quasi di sollecitudine. «Forse dovremmo far lottare nel fango i soldati comuni contro i nostri tribuni tutte le mattine. Di sicuro sarebbero felici di poter procurare qualche bernoccolo ai loro ufficiali. Potremmo anche perderne qualcuno, ma dopotutto i tribuni non servono a molto. Già, andrebbe bene per il morale delle truppe, ma non… per la disciplina!». Livio urlò l’ultima parte della frase con tutta la cattiveria che riuscì a infonderle. Valerio scelse un punto consumato della parete della tenda, dietro la spalla destra del legato, preparandosi a superare l’inevitabile tempesta.

    Il comandante dei legionari sputò le parole come una salva di dardi di balista. «La disciplina, Verre, ha permesso a Roma di conquistare ogni parte del mondo che valesse la pena di essere conquistata e di dominare il resto. La disciplina. Non il coraggio. Non l’organizzazione. E nemmeno le indicibili ricchezze dell’impero. La disciplina. Quella che permette a un legionario di continuare a tenere la linea anche quando i suoi compagni cadono a uno a uno intorno a lui. Che lo farà combattere finché avrà una goccia di sangue da versare. La disciplina che tu, Gaio Valerio Verre, col tuo infantile desiderio di far colpo, rischi di indebolire in maniera fatale. Credi di esserti reso più popolare sfidando Crespo? Vuoi essere simpatico ai soldati? Mostrami una legione in cui ai soldati piacciono i loro ufficiali e io ti mostrerò una legione destinata alla sconfitta. Questa è la Ventesima legione. La mia legione. E io manterrò la disciplina. Mentre tu, tribuno, non hai fatto altro che sminuire l’autorità di un centurione».

    Senza preavviso, il tono del generale si ammorbidì. «Non sei un cattivo soldato, Valerio; un giorno potrai diventare molto bravo. Tuo padre mi ha chiesto di prenderti tra i miei uomini per darti l’esperienza militare di cui hai bisogno per far carriera in politica, e io ho adempiuto al mio obbligo perché le nostre famiglie hanno votato insieme nel Campo Marzio per dieci generazioni. Ma l’unica cosa che ho appreso a contatto con te è che non sei un politico. L’adulazione e l’ipocrisia non sono nella tua natura, come non lo è il desiderio di accattivarsi favori. Manchi di una vera ambizione, che è essenziale, ma non di onestà, che invece essenziale non è affatto. Se seguirai la carriera politica, fallirai. Ho già cercato di dirlo a tuo padre, ma forse sono stato troppo sottile, perché lui pensa ancora che, un giorno, tu possa sedere in Senato. Quanti anni hai? Ventidue? Ventitré? Una carica di questore fra tre anni, in cima a qualche cumulo di letame nel deserto. Dodici mesi trascorsi a cercare di impedire al tuo rapace governatore o proconsole di rovinare la sua provincia e chi ci abita». Valerio restò così sorpreso da abbassare gli occhi, incontrando quelli del legato. «Oh sì, tribuno, ci sono passato anch’io. Ho contato tutti i sesterzi, restando senza fiato di fronte all’avidità di quell’uomo, per poi ricontarli, tanto per essere sicuro che non ne avesse fregati degli altri. E dopo? Un anno di nuovo a Roma, forse con una carica o forse no. Lì si deciderà il tuo futuro, che dopo sarà nelle tue mani».

    Valerio vide i due aiutanti che ancora fissavano il modello sul tavolo, facendo finta di non ascoltare. Il legato seguì lo sguardo del giovane tribuno.

    «Lasciateci soli». I due uomini salutarono e guadagnarono in fretta la porta.

    «Vieni». Il tribuno seguì il suo comandante lungo il pavimento di terra verso la tavola di sabbia. «Verrà il giorno, Valerio, in cui i tuoi soldati saranno solo delle monete da spendere. E allora cosa farai, quando saprai di dover ordinare loro di sprofondare negli abissi? La verità è che loro non cercano la tua amicizia, ma la tua guida. Qui». Indicò la tavola su cui c’era una perfetta riproduzione in miniatura della collina e della fortezza britanna.

    «Signore?»

    «È arrivato il momento di porre fine a questa storia».

    capitolo secondo

    Il capotribù dei Siluri guardò giù dalla palizzata verso le linee simmetriche dell’accampamento romano e lottò per reprimere una sensazione di panico che non gli era familiare. Era perplesso, ma anche spaventato. Non per sé, o per gli impetuosi guerrieri che l’avevano messo in quella situazione, ma per le persone che erano venute là in cerca di rifugio e che invece rischiavano l’annientamento. All’interno delle pareti della fortezza c’erano forse centocinquanta capanne rotonde col tetto di paglia, raggruppate a ridosso dei bastioni o intorno al piccolo tempio al centro dell’area cintata dedicata al dio Teutates. La sua gente coltivava i campi nella campagna circostante, si dedicava alla caccia e alla pesca, e scambiava le eccedenze con le comunità meno fortunate che, governate sempre da lui, popolavano le scabre colline a ovest. Normalmente il forte avrebbe potuto ospitare meno di cinquecento persone, ma quel giorno tutti i guerrieri che era riuscito a raccogliere, più altri mille profughi, cercavano disperatamente spazio tra le capanne e lottavano per riuscire a bere un po’ d’acqua dall’unica fonte disponibile.

    L’imboscata contro la pattuglia di cavalleria romana era stata compiuta agli ordini del Re Supremo dei Siluri, consigliato a sua volta dal druido, che senza dubbio aveva ricevuto analogo consiglio dai capi della sua setta nella lontana Mona. Lui si era dichiarato contrario, ma come poteva, da umile capotribù di confine, contraddire il suo re? In ogni caso, i suoi giovani combattenti erano ansiosi di dimostrare il loro ardore contro il nemico che sfilava da padrone sulle loro valli e colline. Ma il Re Supremo era molto lontano dai soldati che ora minacciavano la fortezza. Solo una tribù avrebbe provato sulla propria pelle la potenza della vendetta romana, e sarebbe stata proprio quella.

    Aveva sempre desiderato combattere; da ciò dipendevano il suo onore e la sua autorità. Sulle prime, però, aveva pensato di combattere e scappare. Non era la prima volta che vedeva una legione romana prepararsi alla battaglia. Dieci anni prima, in una valle distante meno di tre giorni a cavallo, si trovava con Carataco, il capo militare dei Catuvellauni, quando la lunga fila di scudi vivacemente dipinti aveva attraversato il fiume e l’ultima grande alleanza delle tribù britanne si era infranta contro di loro come onde contro una costa rocciosa. Sapeva di cosa i Romani fossero capaci. La sua perplessità era iniziata quando i legionari avevano cominciato a scavare; poi però, quando finalmente era arrivato a capire perché lo facevano, aveva già perso l’opportunità di scappare. Ormai il suo popolo si trovava in una fortezza all’interno di una fortezza. Intrappolato. Ma la perplessità si era trasformata in paura solo quando i messaggeri, che lui aveva mandato a negoziare i termini della resa e a offrire degli ostaggi, non erano tornati. Offerte del genere erano sempre state accettate in passato. Il motivo per cui quella, invece, era stata respinta divenne chiaro quando chi aveva guidato l’imboscata gli raccontò del destino dei soldati romani della cavalleria ausiliaria, e ancor più quando un catapulta romana restituì le teste dei suoi due messaggeri.

    «Padre?». Dapprima non riconobbe il melodioso e acuto richiamo, perché aveva bisogno di farsi coraggio il più possibile e sapeva che anche il solo fatto di guardarla avrebbe indebolito la sua determinazione. «Padre, ti prego». Finalmente si voltò. Gilda stava al fianco di sua madre: in parte bambina, in parte donna, con i liquidi occhi da cerbiatto dietro una frangia arruffata di capelli corvini. Per un istante la bellezza delle due donne rischiarò l’ombra lugubre che gli ottundeva la mente. Ma solo per un istante. Il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere loro nelle ore successive gli strinse un nodo in gola. Quando parlò, riconobbe a malapena la propria voce.

    «Ti ho detto di andare al tempio», disse a sua moglie che, per motivi che solo una donna avrebbe potuto capire, proprio quel giorno indossava il suo abito migliore. «Là sarete al sicuro». Si rendeva conto che lei non gli credeva, ma cos’altro poteva dirle? Un altro uomo le avrebbe dato un pugnale e insegnato a usarlo. Ma lui non era quel tipo d’uomo. Aveva parlato con tono più brusco di quanto intendesse, e Gilda gli lanciò un’occhiata di rimprovero mentre si allontanava mano nella mano con sua madre. Quando si voltò di nuovo verso il vallo, sotto il quale i Romani si preparavano, aveva la vista stranamente appannata.

    Valerio guardò in alto, verso la fortezza che si ergeva sulla collina dalla cima piatta. Aveva visto altre volte oppida indigene del genere, ma quella era di gran lunga la più grande e la meglio costruita. La studiò con attenzione, colpito dai suoi aspetti ingegneristici. Gli accessi erano stati abilmente progettati in modo da costringere gli assalitori ad attaccare le mura cintate obliquamente, esponendosi di più alle catapulte e alle lance dei difensori. In quel momento poteva vederli, quei difensori: una linea silenziosa di teste la cui sagoma si proiettava contro il cielo sopra il primo dei tre valli che cingevano un’area grande quanto due accampamenti di legionari.

    Il legato fece venire il suo primo ingegnere, convocato da Glevum quando un assedio si era reso inevitabile. «Può sembrare formidabile», brontolò Livio. «Ma questo posto non è Alesia, e io non ho la pazienza di Cesare. Quanto ci vuole prima che siano pronte le armi pesanti?».

    L’uomo si morse il labbro, ma Livio lo conosceva abbastanza bene da essere certo che avesse una risposta da dare. «Un’ora per gli onagri e le baliste, e forse altre due per le grandi catapulte. Abbiamo avuto un po’ di problemi quando abbiamo attraversato il fiume l’ultima volta…».

    «Hai due ore per mettere tutto a posto». Anche lui conosceva l’ingegnere abbastanza bene da sapere con certezza che si era lasciato un certo margine per essere in grado di rispettare la scadenza assegnatagli dal suo generale. «Due onagri, due baliste e un’unica catapulta tra ogni coppia di torri di guardia».

    In seguito, un sonoro fendente, riconoscibile all’istante come lo scarico di una balista, lo fece uscire dalla sua tenda. Quando il generale guardò il sole, un osservatore particolarmente sensibile avrebbe potuto notare l’ombra di un sorriso attraversargli i tratti severi. Due ore meno dieci minuti forse. Bene.

    «Un tiro troppo corto di una dozzina di passi, signore», annunciò l’ingegnere. «Abbiamo sprecato un dardo, ma stavolta faremo meglio. Più tensione sulla corda là!».

    Valerio si affrettò per raggiungerli e stette a osservare mentre il comandante dell’arma issava l’argano, con i due bracci frontali della balista ben piegati all’indietro mentre la ruota a cricco girava rumorosamente. Era davvero un grosso arco, capace di tirare imponenti frecce di cinque piedi con pesanti teste di ferro appuntite. Un grosso arco meccanico, racchiuso in una cornice di legno e montato su un carro per facilitarne il trasporto. Quelle frecce erano dette spacca scudi, e lui aveva visto come potevano distruggere una linea nemica. Risultarono altrettanto letali quando caddero tra i guerrieri britanni e sulla zoppicante massa di profughi che aveva cercato l’illusoria sicurezza delle mura del forte. Ormai quelle mura erano circondate da venti baliste e da altrettanti onagri, piccole catapulte in grado di lanciare grossi sassi. L’esperienza gli diceva che gli onagri avrebbero faticato a lanciare i loro proiettili da dieci libbre oltre le mura del bastione interno, ma avrebbero comunque fatto aumentare il caos e il panico. Le grandi catapulte, invece, non avrebbero avuto problemi del genere. Il lungo braccio di quindici piedi poteva lanciare un masso cinque volte più grande della testa di un uomo da un lato della collina all’altro.

    «L’arma è carica e pronta, signore».

    L’ingegnere corse sul retro della balista e, lungo la rampa di lancio, fissò la fortezza. «Aumentate l’elevazione».

    Il responsabile della balista sollevò la trave centrale dell’arma di una tacca, poi si tenne in disparte mentre l’ingegnere controllava di nuovo il punto di mira, con calcoli che gli facevano corrugare la fronte. Alla fine si voltò verso Livio. «A te l’onore, generale».

    Il legato annuì. «Balista… tirate!».

    Dall’ingresso orientale della sua fortezza, il capotribù dei Siluri udì un tonfo sordo ai piedi della collina e scorse un fremito sullo sfondo verde e marrone della terra sottostante. Nello stesso momento una forza smosse l’aria vicino alla sua spalla sinistra, tirando la pesante stoffa del suo mantello; un istante dopo udì un grido proveniente dall’interno della fortezza dietro di lui. Si voltò, ben sapendo cosa avrebbe visto. All’inizio non era certo di aver notato una persona soltanto o due contorcersi nella polvere. Dovevano trovarsi l’uno di fronte all’altra quand’erano stati colpiti. Madre e figlio? Fratello e sorella? Amanti? Ormai non importava più. Il dardo di balista aveva preso l’uomo al centro della schiena, perforandogliela mentre scendeva. L’impatto l’aveva scagliato in avanti, e la punta del dardo di cinque piedi aveva trapassato la parte inferiore del corpo della donna, così che ora entrambi si contorcevano, rantolavano e tremavano insieme, in un’oscena parodia dell’atto d’amore.

    L’attacco era cominciato.

    Livio fece cenno all’ingegnere di continuare e si volse verso Valerio. Squadrò il giovane tribuno dalla testa ai piedi. Sì, il ragazzo ce l’avrebbe fatta, rendendo onore a suo padre, che pure non faceva onore a lui. Di altezza media, ma di costituzione robusta, aveva capelli corvini tagliati corti sotto l’elmo lucido, mascella forte e mento scolpito, con uno spacco centrale appena visibile, ombreggiato da una barba appena accennata. Occhi seri di un verde profondo, acquoso, ricambiavano con fiducia lo sguardo. Ma bastava guardare un po’ più da vicino per notare qualcosa di inquietante in quegli occhi; nascosti nella loro profondità c’erano un accenno di crudeltà che avrebbe attratto un certo tipo di donna, e quell’inesorabile durezza che lo rendeva l’uomo giusto per la missione che gli era stata assegnata.

    Aveva già ricevuto i suoi ordini, ma non era sbagliato ribadirglieli. «In genere Roma non mette in pericolo i suoi tribuni, ma nel tuo caso ho deciso di fare un’eccezione. Attaccherai tra due giorni, all’alba. I nostri ausiliari gallici effettueranno un assalto diversivo all’ingresso occidentale, offrendoti l’opportunità di agire. Dopo che loro avranno ingaggiato il nemico e consumato le sue riserve, tu assalterai la porta orientale con tre coorti di fanteria pesante, più di millecinquecento uomini. Ho studiato bene la porta orientale. Quando le catapulte avranno fatto il loro lavoro, non ti resisterà a lungo. Ricorda, combattili finché non ci saranno più guerrieri da uccidere. Sarà il prezzo che pagheranno per aver assassinato i soldati di Roma. Le donne e i bambini verranno presi come schiavi. Chiunque sia troppo vecchio o troppo malconcio per marciare… Be’, tu sai cosa si deve fare. Per Roma!».

    Per le due notti successive, Valerio restò a osservare il bombardamento contro le difese dei ribelli. Aveva visto cosa poteva fare l’artiglieria con una casuale, arbitraria malevolenza che trasformava una famiglia in brandelli sanguinolenti buoni soltanto per i cani, per poi immolare, un istante dopo, una decina di guerrieri in un’avvolgente palla di fuoco che li trasformava in imitazioni annerite e fumanti della forma umana. Erano le grandi catapulte, naturalmente, con i loro macigni, a distruggere una parte di muro o di porta e chiunque ci stesse dietro, mentre i missili di fuoco, che puzzavano di pece e zolfo, consumavano allo stesso modo le capanne e la carne. L’assalto continuò a ritmi spasmodici per tutta la notte, con l’impatto di ogni portatore di morte preceduto dal suono distinto del suo passaggio: il potente impeto sibilante delle gigantesche rocce e il particolare suono ovattato delle palle di fuoco che, ruotando, fendevano l’aria. In confronto alla terrificante violenza delle catapulte, i ben più numerosi proiettili delle armi più piccole sembravano quasi insignificanti, eppure facevano i loro bei danni tra i ranghi stipati dei profughi e dei combattenti ormai condannati, che stavano sugli spalti in atteggiamento di sfida, come se la carne e il sangue, da soli, potessero fermare l’assalto romano. Il tribuno cercò di cancellare le immagini delle ossa scoperte di bambini fatti a pezzi, e di non immaginare le urla degli smembrati, degli impalati o degli accecati dalle schegge mentre le palizzate di legno e le porte, un tempo possenti, venivano abbattute.

    La mattina del terzo giorno, un’ora prima dell’alba, le tre coorti della forza di assalto si formarono sotto la luce tremolante delle torce sulla piazza d’armi dell’accampamento. Valerio stava in silenzio al centro della piazza, dietro l’aquila della legione e le singole insegne delle unità tenute in alto dai signiferi, avvolti da mantelli di pelle di lupo che ne sottolineavano il rango e il ruolo. Là ogni uomo aveva firmato per venticinque anni di servizio nelle legioni. Come tribuno militare, Valerio si era unito a loro per sei mesi, ma aveva prestato servizio per sedici perché quella vita gli piaceva, e sarebbe stato rimandato a casa entro altri otto mesi al massimo. Fece scorrere lentamente lo sguardo intorno alla piazza, tentando di valutare lo stato d’animo dei soldati, ma nell’oscurità ogni viso si perdeva nell’ombra del bordo dell’elmo. Sono alla testa di un esercito di morti. Prima che riuscisse sopprimerlo, quel pensiero gli entrò in testa e lo fece rabbrividire. Era un cattivo presagio? Fece il segno contro il malocchio e inspirò profondamente.

    «Mi conoscete tutti». La sua voce ferma si diffuse per la piazza d’armi. «E sapete che sono qui solo perché il vostro primus pilus si è distorto una gamba l’altro giorno. È dispiaciuto della propria assenza, ma non quanto me». Alcuni soldati risero alla battuta, ma non molti. Valerio sapeva che alcuni di loro erano contenti che il temuto primo centurione della legione non fosse lì a spingerli su per la collina, ma i veterani si rendevano conto che la mancanza di esperienza poteva costare vite umane. Vide Crespo, con il suo caratteristico elmo con il pennacchio ricurvo di traverso, aggrottare le sopracciglia. «Tutti voi avete già fatto tutto questo un centinaio di volte, e su quella collina non c’è nulla che dobbiate temere. Quando partiremo, lo faremo velocemente e non ci fermeremo di fronte a nulla. Chiunque resti ferito lungo la strada verrà lasciato indietro, ufficiali compresi. Rimanete ben serrati, perché più saremo serrati e meno rischieremo. Io sarò davanti con la Prima coorte e dove vi guiderò voi mi seguirete. Non si aspetteranno di vederci arrivare dalla porta principale, quindi dovrebbe essere facile». Stavolta i soldati risero, perché sapevano tutti che quella era una bugia. I lati della collina erano troppo ripidi per un assalto diretto alle mura. Solo i due ingressi a est e a ovest erano vulnerabili, e il nemico sarebbe stato ad attenderli dietro a entrambi. «Una volta entrati, è finita», concluse con decisione. «Magari questa gente sa combattere, ma non sa vincere. Noi, invece, sappiamo vincere».

    Lo acclamarono, e Valerio sentì l’orgoglio salirgli dentro come acqua da una sorgente. Sentì di avere con quegli uomini un legame più forte di quello di sangue; un cameratismo dello spirito, temprato dal calore della battaglia. Avevano marciato e combattuto insieme, e c’erano buone possibilità che, al levar del sole, sarebbero morti insieme, mescolando il loro sangue col fango di un fosso in Britannia. Tutti loro sapevano che alcuni degli uomini pronti a marciare su per quella collina non sarebbero poi tornati indietro. Ma invece di indebolirli, quella consapevolezza dava loro forza. Era quella forza a renderli quel che erano. Soldati di Roma.

    Diede istruzioni dettagliate a ognuno dei comandanti di unità, uno per volta, e infine si avvicinò a Crespo, che doveva guidare la Seconda coorte. Gli riuscì difficile nascondere l’antipatia che provava per quell’uomo, ma l’ora prima dell’attacco era un momento in cui bisognava mettere da parte le meschine rivalità. Poteva vedere gli occhi scialbi che luccicavano al buio, ma non riusciva a interpretarne l’espressione.

    «Che il tuo dio possa proteggerti, Crespo». Il centurione seguiva il culto di Mitra e da qualche parte nell’accampamento c’era l’altare nascosto dove aveva sicuramente dedicato un sacrificio allo sgozzatore del toro sacro. Era un culto segreto, ma chiunque sopravvivesse all’iniziazione meritava rispetto, quantomeno per il coraggio. I soldati facevano bene a non ignorare gli dèi, ma Valerio li venerava nel modo tipico della maggior parte degli uomini, facendo lo stretto necessario per non inimicarseli e invocandoli nel momento del bisogno. «Restate vicini quando entrate. Una volta oltrepassate le porte, la Prima terrà fermo il nemico mentre voi della Seconda ne perforerete la linea. Quando sarete dietro di loro, voltatevi, così li schiacceremo tra noi». Era un buon piano, ma il suo successo dipendeva da molti fattori diversi. Il giovane tribuno aveva già combattuto contro i guerrieri celtici della Britannia occidentale e, malgrado ostentasse sicurezza quando parlava delle loro debolezze, sapeva che erano combattenti coraggiosi, pronti a morire per difendere ciò che gli apparteneva. E quel giorno non avrebbero avuto scelta, perché non potevano scappare da nessuna parte.

    Crespo grugnì con fare sospettoso. «E così dobbiamo combattere e morire mentre voi vi nascondete dietro i vostri scudi e vi prendete tutta la gloria?».

    Valerio sentì la rabbia montargli dentro, ma riuscì a trattenere le parole con cui avrebbe voluto accompagnarla. Non aveva senso mettersi a discutere con l’inasprito siculo. «Sei pagato per morire, centurione», disse, quindi si voltò prima che Crespo potesse rispondergli.

    capitolo terzo

    Lo sbarramento si fermò e, per qualche secondo, la luce morbida, falsa, tipica del grigiore che precede l’alba, fu accompagnata da una calma soprannaturale, interrotta soltanto dal crepitio del legno in fiamme, proveniente dalla cima della collina. Alla testa dei suoi uomini, Valerio chiuse gli occhi e cercò di interpretare i suoni. Sulle prime non percepì nulla. Ma un istante dopo udì il brontolio attutito che, come lui ben sapeva, indicava l’inizio dell’attacco degli ausiliari. Tenne gli occhi chiusi ancora per un po’, godendosi un ultimo momento di pace, e quando li riaprì una freccia di fuoco disegnò un arco nel cielo come una stella cadente.

    Adesso!

    Condusse i legionari al trotto, disposti in file di otto nelle loro centurie. Il legato aveva posto uno schermo di arcieri a destra e a sinistra del punto di assalto e, mentre l’avanguardia dell’attacco li oltrepassava, proprio quegli arcieri lanciarono un nugolo di frecce che decimarono i difensori del primo dei tre valli. Valerio aveva trascorso due giorni a prepararsi per l’attacco, esaminando ogni palmo del pendio orientale, e aveva notato qualcosa che gli rodeva come un verme nel cervello. Il percorso più ovvio per raggiungere la porta aveva un punto d’ingresso molto chiaro, ma non si scorgeva alcuna uscita. Naturalmente, l’uscita poteva essere nascosta; magari era un tunnel, ma questo, anche in una fortezza di quelle dimensioni, avrebbe comportato un enorme sforzo per ottenere ben poco. Più l’osservava e meno la cosa gli piaceva. L’anomalia avrebbe potuto avere una spiegazione del tutto innocente ma, nell’esperienza di Valerio, nulla era innocente in guerra. In quel momento fece la sua scelta, sapendo che si stava giocando la vita dei suoi soldati. Fece superare rapidamente ai suoi uomini la prima apertura, guidandoli poi fino a una piattaforma obliqua che correva parallela alle mura della fortezza; e quando quest’ultima cominciò a salire bruscamente, decise di seguirla. Il percorso portò i primi legionari a portata delle lance scagliate dalla palizzata in cima al secondo vallo. «Formate una testudo!». Udendo quell’ordine, ogni uomo della prima centuria serrò il proprio scudo sopra la testa con quello del compagno vicino. Solo i soldati delle file davanti e dietro tennero gli scudi in verticale. Il risultato fu un carapace omogeneo che rendeva gli ottanta uomini all’interno della testudo invulnerabili agli attacchi dall’alto. Dietro di lui, Valerio sapeva che, nelle coorti d’attacco, ogni centuria avrebbe seguito il suo esempio. Ora stava agendo in base al puro istinto, seguendo il precario sentiero verso l’alto, e pregando che i Siluri non avessero messo altre false uscite o trappole nascoste; una dozzina di buche all’altezza del ginocchio avrebbero potuto distruggere una testudo in un tempo inferiore a quello che gli ci sarebbe voluto per estrarre la spada. No. Una fortezza di quelle dimensioni doveva essere un luogo di commercio oltre che un rifugio, e il commercio significava facilità d’accesso. Chiunque avesse disegnato le difese sarebbe stato costretto ad accettare quel compromesso.

    Valerio respirava con affanno; dover tenere il pesante scudo sopra la testa gli faceva dolere il braccio, mentre il fiato gli raschiava in gola. Il sudore lo accecava nel piccolo forno del suo elmo di ferro, con i grandi paraguance che gli limitavano il campo visivo senza poterlo salvare da un eventuale colpo alla gola. Ormai l’acciottolio di lance e frecce contro la superficie esterna della testudo era quasi costante, come le gocce di un forte acquazzone. La morte aleggiava tutt’intorno a lui, che pure non si era mai sentito così vivo.

    Pensò a suo padre, che marciva nel suo parziale ritiro nella tenuta di campagna della graziosa valle boscosa vicino a Fidene, impegnato a elaborare piani per ravvivare le fortune politiche della famiglia; al centro di quei piani c’era Valerio. L’anno successivo sarebbe dovuto tornare per riprendere la sua carriera giuridica, cercando di procurarsi piccole cause fuori dalla Basilica Giulia, prendendo al volo le briciole lasciate da menti più vivaci della sua. Non che non gli piacesse il diritto; stare seduto ad ascoltare uno dei grandi professionisti brandire la logica e la retorica come un grande reziario esibiva rete e tridente era uno dei piaceri della vita. Ma trovarsi di fronte a un tribunale non gli accendeva un fuoco nella pancia come pensava succedesse a Cicerone o a Seneca. Solo il combattimento gli faceva quell’effetto, e… La porta! Avevano raggiunto la porta!

    «Ariete di fronte». I proiettili avevano distrutto la struttura della porta, rendendola irriconoscibile, ma i Britanni avevano usato il legname fracassato per formare una barriera di fortuna. Non ci sarebbe voluto molto per smantellarla, ma avrebbe rallentato l’assalto, e lui aveva visto cosa succedeva quando si ritardavano gli attacchi. L’ariete ce l’aveva la seconda centuria, ma le legioni si addestravano a ripristinare la testudo sotto tiro fino a farla diventare quasi un’abitudine; così, i grossi scudi rettangolari formarono rapidamente un tunnel che permise alla squadra con l’ariete di avanzare. Per la maggior parte, i legionari erano piccoli, duri come il ferro, ma con più cartilagini che muscoli. In confronto a loro, i soldati che brandivano l’ariete della legione erano dei giganti dall’ampio torace; dovevano esserlo per maneggiare il tronco di quercia appositamente rinforzato con cui sbrigavano il loro compito. Ciononostante, ci volle troppo tempo, e Valerio sentì un crac e urla inevitabili, segno che i Britanni stavano facendo buon uso dei massi che le catapulte avevano scagliato contro di loro. Ora stavano lasciando cadere quelle pietre, alcune delle quali pesavano come un vitello, sulle testudines che lo seguivano. Le difese erano sicure contro le armi leggere, ma un grosso masso avrebbe aperto un buco altrettanto grosso negli scudi, dopodiché le lance e le frecce avrebbero potuto raggiungere i soldati là sotto. La testuggine si sarebbe riformata abbastanza in fretta, ma il tribuno sapeva che dietro di lui stavano morendo degli uomini.

    Finalmente! Si fece subito da parte per consentire all’ariete di fare il suo lavoro, con l’imponente testa di pietra intagliata libera di balzare in avanti con la forza dei venti uomini che la manovravano per spazzare via quella patetica ostruzione. Uno. Due. Tre. Sì, al tre ci riuscirono. «Prima coorte con me. Per Roma!».

    Quando si voltò per guidare l’attacco attraverso la breccia apertasi nelle difese britanne, dallo spazio tra i paraguance del suo elmo intravide una fila di ringhiose facce baffute. Uno scroscio di grasso bollente lanciato dalla sua sinistra gli inzaccherò le gambe, inducendolo a un’imprecazione. Ora si trovava all’interno della fortezza e, mentre i suoi uomini gli sfilavano davanti per formare la linea, lui si fermò a pensare, lasciando che l’addestramento militare prendesse il sopravvento.

    «Avanti!».

    Gli scudi dal bordo ricurvo della prima e della seconda centuria della coorte più avanzata si strinsero in un compatto muro difensivo, e il peso dell’attacco fu moltiplicato dall’aggiunta di altre due linee. All’estrema destra della prima linea, Valerio strinse l’impugnatura di legno sul retro della borchia del suo scudo, gonfiò i muscoli sotto le cinghie per le braccia e fece urtare il bordo del suo scudo contro quello dell’uomo alla sua sinistra. Sapeva che ogni soldato dietro di lui avrebbe tenuto in alto lo scudo per proteggere la prima linea dalle lance e dalle frecce scagliate dai difensori. I Romani avevano la loro lancia, il pilum, un’asta di frassino di quattro piedi con una punta di ferro temprato lunga quanto un braccio. Ma nessuno ne portava uno quel giorno, perché erano lunghi, pesanti e scomodi e avrebbero solo rallentato l’attacco, creando più danni di quelli che avrebbero inferto. Era una giornata più adatta alle spade.

    Lo slancio dello sfondamento iniziale aveva spinto indietro di una dozzina di passi i difensori, che ora però contrattaccavano in un’unica massa ululante di quattro o cinquecento uomini. Valerio indietreggiò quando una freccia intaccò il suo elmo, un dito sopra l’occhio destro, e si preparò all’impatto della carica, con gli occhi che cercavano tra le fila dei barbari l’uomo intenzionato a ucciderlo. Ce n’era sempre uno: il singolo individuo più assetato del tuo sangue di chiunque altro, che vedeva nella tua faccia tutto ciò che odiava di più al mondo. Gli ci volle un po’, perché l’occhio gli cadde, naturalmente, sui campioni britanni, i grossi guerrieri di alto rango resi ancora più imponenti dai capelli irrigiditi dalla calce per formare punte e corna; erano il fior fiore della loro tribù e brandivano lunghe spade di ferro o lance di frassino dall’ampia lama. Combattevano a torso nudo per dimostrare il loro coraggio e si decoravano la pelle con tatuaggi che raccontavano la storia dei loro antenati e dimostravano il loro coraggio in battaglia.

    Ma l’uomo che desiderava ucciderlo non era un campione. Basso, con i capelli lisci e flosci d’un biondo sporco e un fisico esile a cui era appesa una maglia lurida e stracciata, sembrava quasi innocuo in quella folla belligerante perché non portava una spada né una lancia, ma solo un pugnale ricurvo con una lama che riluceva d’azzurro per l’affilatura continua. Ma i suoi occhi raccontavano una storia diversa. Bruciavano di un’ostilità ben oltre l’odio: un’irrazionale promessa di morte violenta, dolorosa. Valerio notò tutto questo nel tempo che impiegò il suo nemico a fare un unico passo. Sapeva che la scarsa altezza dell’uomo poteva rappresentare un vantaggio in quel tipo di combattimento, e ciò lo rendeva doppiamente pericoloso. Perché la battaglia si combatteva sopra la cintura, mentre lui sarebbe arrivato dal basso, sotto il grosso scudo, e con la sua lama luccicante avrebbe cercato di colpire i genitali non protetti del Romano, oppure di azzopparlo. Valerio provò un brivido fin dentro le budella. Sì, lo avrebbe colpito proprio alle palle. Gli occhi tormentati raccontavano di una perdita insopportabile. Una perdita vendicabile soltanto infliggendo orrore a chi l’aveva provocata.

    Un potente fragore annunciò che i primi Britanni si erano scontrati con il centro del muro di scudi romano. Sentì l’impatto fremere lungo la linea, portando con sé un rombo simile al tuono mentre centinaia di spade cominciavano a martellare gli scudi di quercia dipinti, come se, cancellando l’emblema della Ventesima, rappresentante la carica di un orso, potessero annientarne i soldati. Sopra il bordo dello scudo, il tribuno osservò il suo nemico arrivare con l’estrema sinistra dell’attacco britanno. Alla destra dell’uomo c’erano guerrieri più grossi e meglio armati, ma l’istinto indicava a Valerio l’origine del vero pericolo. Quando gli occhi ardenti scomparvero sotto il livello dello scudo, il tribuno contò le proprie pulsazioni cardiache: uno, l’uomo era avanzato di un altro passo; due, si stava accovacciando, preparandosi a rotolare sotto lo scudo e a pugnalare verso l’alto, con la lama alla ricerca della grande arteria nell’inguine. Rinforzando il colpo con la spalla, Valerio spinse in avanti e verso il basso lo scudo, la cui borchia di ferro arrotondata colpì sopra il ponte del naso il Britanno che lo stava attaccando, sfracellando all’istante la carne; l’impatto spinse i bulbi oculari dell’assalitore fuori dalle orbite, mentre le schegge ossee del cranio penetravano in profondità nel cervello.

    La forza del colpo intorpidì il braccio sinistro di Valerio, ma il destro stava già sferrando un colpo fulmineo del gladio che squarciò la gola del suo nemico, producendo uno spruzzo scarlatto. Sentì la fiamma dell’esultanza esplodergli dentro, come gli succedeva sempre quando uccideva qualcuno, ma cercò di placarla, perché riteneva che quella gioia selvaggia, atavica, non gli facesse onore. Non avrebbe mai rivelato né cercato di spiegare una sensazione del genere al di fuori del cameratismo che si creava sul campo di battaglia. Solo chi l’aveva provata poteva capire la più elementare reazione alle più fondamentali tra le esperienze umane: uccidere per sopravvivere. Il fuoco interiore brillò di luce incerta prima di spegnersi, per essere sostituito in un istante dal freddo calcolo. Dalla sua sinistra, una lancia silurica cercò di colpire il punto debole sotto la sua armatura. Lui la respinse con il bordo rinforzato dello scutum e, ringhiando la sua sfida, tornò in linea, con il bordo dello scudo agganciato a quello del vicino.

    Con il fiato che gli raschiava nel petto, si mise in ascolto, tentando di valutare lo stato della battaglia e notando per la prima volta il puzzo di capanne e granai bruciati che riempiva la gola, nonché le pile di immondizia, di escrementi animali e umani sparpagliate a casaccio tutt’intorno. La forza principale dell’attacco britanno aveva colpito il centro della linea romana, ed era proprio lì che si concentravano le urla di rabbia impotente e i lamenti dei mutilati e dei moribondi. Per il momento, Valerio si accontentava che i suoi legionari riuscissero a contenere il nemico. Crespo non poteva essere lontano.

    Finalmente udì il richiamo che aspettava. «Cornicen!». Il trombettiere che era rimasto dietro la linea comparve al suo fianco. Valerio parlò con l’uomo alla sua sinistra, gridando per essere sicuro di riuscire a farsi sentire sopra il clamore della battaglia. «Al mio segnale, ruotate verso destra». Attese che l’ordine venisse trasmesso lungo il muro di scudi. «Suona il comando». Il trombettiere contrasse le labbra ed esitò per un secondo, prima che il corno circolare suonasse a tutto volume il suo messaggio.

    La manovra che Valerio aveva ordinato era complicata e potenzialmente pericolosa, e l’avrebbe chiesta soltanto a uomini cui sentiva di poter affidare la propria vita. L’intera linea romana avrebbe dovuto ruotare la sua posizione come una porta che si apriva. Semplice per il legionario due o tre uomini più in là rispetto al suo comandante, che poteva muoversi in avanti di solo mezzo passo, ma non per lo sfortunato soldato all’estrema sinistra della linea, che doveva mettersi lo scudo in spalla, spingere per farsi largo e avanzare di dieci passi, sia pure aiutato dai due uomini alle sue spalle, e tutto questo senza perdere mai il proprio posto nella formazione. Quei dieci passi, però, potevano fare la differenza tra la sconfitta e la vittoria.

    Perché attraverso la breccia – se aveva calcolato bene i tempi – in quel momento Crespo stava caricando con le sue centurie con una formazione a cuneo. Come arieti umani, i soldati si sarebbero fatti largo a forza tra le file nemiche, distruggendone completamente la coesione, per poi girarsi e attaccarli da dietro.

    Un aumento dell’intensità della battaglia gli fece capire che aveva ragione. Fece un passo indietro e consentì all’uomo alle sue spalle di rimpiazzarlo nella fila. A pochi passi di distanza, le rovine di una capanna circolare danneggiata gli offrivano un punto di osservazione da cui poter scorgere il forte britanno in tutta la sua lunghezza. Studiando la sommità della collina incoronata dal fumo, si rese conto che Crespo aveva apportato una modifica al suo piano, o forse aveva solo disobbedito apposta ai suoi ordini. Due dei suoi cunei di ottanta uomini si erano spinti fino alla porta occidentale, da cui gli ausiliari impegnati nell’attacco diversivo si stavano riversando all’interno del forte, uccidevano chiunque capitasse, senza distinguere tra i combattenti e le donne e i bambini che il legato aveva ordinato di fare prigionieri.

    I Britanni che Valerio aveva affrontato erano ormai in trappola; centinaia di guerrieri chiusi tra due forze legionarie e le pareti della fortezza. Alcuni tentavano di sfuggire arrampicandosi sul vallo, ma non avrebbero trovato riparo dagli arcieri appostati alla base della collina. Grida acute risuonarono tra coloro che erano rimasti, e il tribuno sapeva che stavano chiedendo pietà. Ma non ci sarebbe stata alcuna pietà. Solo il lungo sonno della pace romana.

    Una legione romana era una macchina da guerra, e ora lui la stava guardando all’opera. Il coraggio dei Siluri non avrebbe potuto cambiare l’esito della battaglia. In quel luogo angusto, i Britanni non avevano lo spazio necessario per manovrare le loro lunghe spade curve, e quando cercavano di farlo si sfiancavano contro i tre strati di legno duro che formavano lo scudo di un legionario. Il gladio era diverso. Conficcandosi tra gli spazi del muro di scudi, le corte spade dalle lame affilate come rasoi laceravano pance e inguini, per poi torcersi dentro ferite aperte che facevano pregare chi le subiva di poter morire al più presto. Poi i grandi scudi continuavano a spingere in avanti e le spade guizzavano di nuovo. I legionari della Prima coorte lavoravano con studiata concentrazione, senza distinguere tra vecchi e giovani, coraggiosi o timorosi. I Celti erano bestie da massacrare. Sulle prime Valerio rimase affascinato da questa disciplinatissima mancanza di umanità, dal ritmo incessante della morte che alla fine lasciava le future vittime a bocca aperta per l’orrore, indebolendone persino la volontà di difendersi. Ma il fascino spariva man mano che i singoli dettagli di quella macelleria s’imprimevano sulla superficie del suo cervello. E quando sentì che una fragile barriera nella sua mente minacciava di sbriciolarsi, si voltò e si allontanò in mezzo al caos della vittoria.

    Le donne e i bambini sopravvissuti si abbracciavano per proteggersi a vicenda in mezzo ai resti delle capanne rivestite di fango e argilla davanti al muro meridionale. Nelle vicinanze, i corpi degli anziani che solo pochi momenti prima erano stati con loro si contorcevano ancora in un mucchio disordinato. Valerio scrutò i prigionieri, ma nessuno osava rispondere al suo sguardo. Gli vennero in mente le bestie marchiate per il macello, turbate dall’odore del sangue delle vittime precedenti ma incapaci di sfuggire al loro destino. Nel frattempo, il combattimento continuava tutt’intorno a lui: piccole scaramucce con gruppi di guerrieri che avevano difeso la porta occidentale; singoli Britanni che, per salvare la pelle, scappavano da una decina di legionari ancora persi nella frenesia della battaglia. L’aria era piena di urla. Un grido, però, risuonò diverso dagli altri.

    Era quello di puro terrore di una bambina.

    Sapeva che avrebbe dovuto tirare dritto. In fondo, cosa poteva significare la vita di un bambino come tanti in quel mattatoio? Ma l’urlo si ripeté, e il tribuno si rese conto che proveniva da una delle poche capanne rimaste in piedi, a meno di venti passi di distanza. Due legionari stavano sulla soglia con le schiene rivolte verso di lui, accanto al corpo ricurvo di una donna con indosso una veste grigia strappata. Posò lo scudo contro lo steccato di un vicino recinto di animali e avanzò per mettere la punta del suo gladio sotto l’orecchio dell’uomo più vicino. Il

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