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Non baciare la sposa
Non baciare la sposa
Non baciare la sposa
E-book551 pagine7 ore

Non baciare la sposa

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Info su questo ebook

Un solo bacio ha segnato il loro destino. Un solo bacio ha cambiato le loro vite.

Jude “Lucky” Lucketti non era solo un operaio sexy e silenzioso. Era il mio eroe personale: sembrava essere sempre nel posto giusto al momento giusto. Come quando mi si è rotta la macchina e ho avuto bisogno di un passaggio, o quando sono caduta a faccia in giù sul marciapiede proprio di fronte a lui e ha dovuto portarmi al pronto soccorso. Siamo diventati amici e non importava che avesse sedici anni più di me. Avevamo molto in comune, come l’amore per il rock e le auto d’epoca, e un’avversione per le storie lunghe. Quando mi ha spiegato la sua folle idea per aiutarmi, non ho potuto dire di no. Doveva essere un matrimonio sulla carta e nient’altro. Doveva essere facile, ma non lo è stato. Perché eccomi qui, diciottenne, ancora al liceo, e sposata con un uomo di cui non avrei mai dovuto innamorarmi. C’era una sola regola: non baciare la sposa. Ma abbiamo infranto quella regola e il nostro destino è stato segnato per sempre.
Carian Cole
è nata e cresciuta nel New Jersey e adesso vive con il marito nel New Hampshire, circondata da una moltitudine di cuccioli. Ha una passione per i libri con protagonisti tatuati, selvaggi e un po' sfrontati. 
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9788822756848
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    Anteprima del libro

    Non baciare la sposa - Carian Cole

    Capitolo 1

    Jude

    Lo stridio degli pneumatici e Two Out of Three Ain’t Bad di Meat Loaf che esplode dagli altoparlanti metallici distolgono la mia attenzione dalla planimetria a cui sto lavorando. Lancio uno sguardo torvo alla Corvette color argento del ’75 che si dirige a tutta velocità nel parcheggio della scuola accanto.

    È una delle mie canzoni preferite, ma non alle 7 di un lunedì mattina.

    Fino a oggi, la costruzione di questa casa residenziale a due piani è stata tranquilla. Niente ronzio del traffico. Nessuno che gironzola nei paraggi. Zero distrazioni. Proprio come piace a me. Ma cambierà tutto ora che le vacanze estive sono finite e i ragazzi rientrano a scuola. Nelle ultime ore, gruppetti di adolescenti chiassosi e ridacchianti hanno continuato a passare accanto al cantiere.

    «Porca miseria», borbotta sottovoce Kyle, il mio caposquadra, e lascia andare un lungo, sottile fischio.

    «Cosa?». Seguo il suo sguardo fino al parcheggio della scuola mentre arrotolo le planimetrie e le chiudo con un elastico.

    Una ragazzina salta giù dalla Corvette, portandosi gli occhiali da sole modello aviatore sulla sua bionda criniera di capelli mossi lunghi fino alla vita. Chiude la portiera del guidatore con un disinvolto colpo d’anca, che mi lascia immediatamente con la gola secca. I cardini dello sportello scricchiolano per la ruggine accumulata nei decenni, ma lei sembra non accorgersene.

    Mi scosto i capelli dal volto, ipnotizzato dall’ondeggiare disinvolto delle frange dei mocassini intorno ai suoi polpacci avvolti nei jeans. Una magliettina nera con lo stampo di un bacio spunta da sotto una giacca in camoscio abbinata. Si allontana dall’auto con il portamento di una star del cinema appena scesa da una limousine, e non da una vecchia auto sportiva arrugginita con almeno il doppio dei suoi anni.

    È forse precipitata in una porta spazio-temporale che l’ha risucchiata dagli anni Settanta lasciandola cadere dritta nei giorni nostri?

    «Quante cose che vorrei farle…», dice Kyle, leccandosi le labbra come se la ragazza stesse per diventare il suo ultimo pasto.

    Le mie viscere ribollono in una fitta di disgusto e rimorso mentre le tolgo gli occhi di dosso. «Amico, è un’adolescente», gli dico strattonandolo per le spalle. «Torna al lavoro. Non ti pago per mangiare con gli occhi le ragazzine».

    Con una risata, si aggancia la cintura degli attrezzi e si infila un casco antinfortunistico in testa. «Ragazzina un paio di palle, Lucky. Di certo le ragazze non erano così quando andavamo noi al liceo».

    Vero. In quel caso, forse sarei stato più interessato a rimanere. Invece, ho abbandonato gli studi sei mesi prima del diploma per accettare un lavoro a tempo pieno.

    Lancio un’occhiata al cielo grigio che si sta facendo più scuro. «Le nuvole si stanno avvicinando. Cerchiamo di combinare qualcosa prima che si metta a piovere. Non possiamo permetterci di perdere altro tempo su questo lavoro».

    «Hai ragione, Jude». Dà un’ultima sbirciata maliziosa alla ragazzina prima di rimettersi al lavoro.

    Afferrando il thermos di caffè, osservo la mia squadra di quattro uomini e provo a stimare i nostri progressi. Siamo in ritardo di due giorni grazie alle modifiche dell’ultimo momento dei padroni di casa, ma penso che riusciremo a rimetterci in carreggiata e passare al progetto successivo nei tempi previsti. Concludere o iniziare un lavoro in ritardo fa incazzare i clienti e a me non serve una recensione negativa e incollerita marchiata sulla pagina internet della mia impresa.

    «Ehi, Skylar!», strilla una voce femminile. «Mi hanno chiamato gli anni Ottanta, rivogliono indietro i loro vestiti e la loro auto!».

    Riavvito il coperchio del thermos mentre vengo risucchiato dal dramma adolescenziale che si sta svolgendo pochi metri più in là. Tre amiche stanno ridendo mentre inseguono la ragazza della Corvette verso l’ingresso sul retro della scuola. Lei si ferma di colpo, voltandosi in un turbinio di capelli biondi e frange scamosciate per guardarle in faccia. Quelle fanno un passo indietro, sbattendo l’una contro l’altra.

    «Wow». Le scruta dall’alto in basso prima di puntare alla più alta e più carina del gruppo. Dev’essere lei il capo delle stronzette, secondo tutti i film che ho visto. «Peccato che il tuo paparino non abbia potuto comprarti anche qualche neurone per accompagnare la rinoplastica, Paige. La macchina è degli anni Settanta».

    Le ragazze la fulminano con lo sguardo poi, tutte insieme, alzano gli occhi al cielo. Lei si pianta in mezzo al marciapiede, obbligandole a passarle intorno. Un sorrisetto le spunta all’angolo della bocca.

    Mentre si gira per entrare a scuola, mi sorprende a osservarla. Mantenendo il mio sguardo nei suoi occhi splendenti, mi rivolge un sorriso beffardo, fa una bolla con la gomma da masticare, la scoppia, poi sparisce all’interno.

    Mi tolgo subito lo stupido sorriso dalla faccia con il dorso della mano e riporto l’attenzione al mio lavoro. Le distrazioni non sono un lusso che mi posso permettere. In particolare quelle carine ed esuberanti con la parola guai scritta in fronte.

    «Hai bisogno di qualcosa prima che me ne vada?», chiede Kyle adocchiando le planimetrie sparse su un tavolo al centro dell’ampliamento impalcato. Ci conosciamo dai tempi del liceo, lavora per me da quando ho avviato l’impresa dieci anni fa. È sempre l’ultimo della squadra ad andarsene.

    «Sono a posto». Mi pulisco le mani impolverate con uno straccio e lo infilo nella tasca posteriore dei jeans. «Ci vediamo domani».

    «Ti porto un bagel».

    Appena se ne va, ispeziono rapidamente il cantiere per assicurarmi che non sia rimasto niente fuori posto, poi getto gli strumenti da lavoro sul retro del mio furgone. Dal parcheggio della scuola sento provenire il suono di un motore che fatica ad accendersi e non mi sorprende vedere la ragazza bionda prendere a pugni il volante della sua Corvette.

    Saltando sul sedile del guidatore, mi accendo una sigaretta e faccio retromarcia con il furgone. Dallo specchietto retrovisore intravedo la ragazza forzare il cofano dell’auto.

    Sa almeno cosa sta cercando?

    Si china sopra il motore e fruga dentro per qualche secondo, poi si ritrae e incrocia le braccia.

    «Merda», borbotto, facendo il giro con il furgone. Non posso lasciare un’adolescente in un parcheggio con un motore guasto. Scure nubi temporalesche stanno coprendo il cielo e una brezza tiepida sta frusciando attraverso gli alberi. Si metterà a diluviare da un momento all’altro.

    Entro nel parcheggio e la affianco. «Ti serve una mano?», chiedo dal finestrino abbassato.

    Fa per aprire la bocca, ma la richiude subito quando due atleti del liceo si avvicinano, interrompendola.

    «Ehi, Skylar! Se ti serve un passaggio, ho qui qualcosa su cui farti fare un giretto». Il moccioso si afferra il pacco e si mette a ridere a crepapelle.

    «È un po’ troppo piccolo per me, Michael», urla lei in risposta. «Preferirei farmi un giro su tuo padre e farmi chiamare mammina da te».

    Ah. È un bel peperino, molto scoppiettante, il che può essere un bene e un male.

    I ragazzi non ridono più.

    «Vaffanculo, troia».

    Quando mi vedono scendere dal furgone, subito si incamminano nella direzione opposta.

    «Non dovresti provocare quei bulletti», dico.

    Inarca le sopracciglia. «Sul serio? So badare a me stessa, ciccio».

    «Lo vedo, Sparkles. Cos’ha che non va la tua macchina?»

    «Sparkles?», ripete.

    «Sì, come scintille. Tu sei scoppiettante, un fuoco d’artificio».

    I suoi occhi si fanno di un turchese più luminoso e l’angolo della bocca si solleva leggermente.

    «Mio nonno mi chiamava saputella, quindi immagino che Sparkles sia un passo avanti».

    Mi lascio andare a una risata e le passo accanto per dare un’occhiata al cofano dell’auto. «Allora, cos’è successo?».

    Alza le spalle. «Non capisco. Era tutto a posto stamattina e adesso non parte».

    «Sali e prova ad accenderla».

    Fa come le dico, ma il motore ancora non ne vuole sapere di partire.

    «Credo sia la pompa del carburante», le dico quando scende dal veicolo.

    «Ah». Si morde il labbro inferiore mentre fissa il motore. «Si può aggiustare?»

    «Sì, ma devi chiamare un carro attrezzi per portarla dal meccanico».

    «Merda».

    «In più potrebbe essere dura trovare i pezzi di ricambio per questa macchina. Di che anno è? Del ’75?»

    «Sì. Era un regalo».

    Chiudo delicatamente il cofano e mi pulisco le mani sui pantaloni. «Bel regalo, ma è probabile che ti verrà a costare un po’. È un’auto vecchia».

    Lei guarda in alto verso il cielo nero e lascia uscire un gran sospiro. «Davvero fantastico», dice.

    «Tu o i tuoi genitori avete un meccanico di fiducia?», le chiedo.

    Inclinando la testa di lato, sbatte le palpebre. «No, ehm… No. Mia mamma non guida».

    «Io la porto dal ragazzo sulla North Main. È bravo e non ti spenna. Se vuoi, chiamo un carro attrezzi e te la faccio portare lì».

    «Va bene. Grazie». Guarda prima per terra poi, lentamente, su verso di me. «È caro?».

    La preoccupazione nei suoi occhi mi stringe il cuore. «Si tratta di neanche dieci chilometri, perciò costerà poco. Venti dollari, forse».

    Un evidente sollievo le inonda il volto mentre tiro fuori il telefono e prenoto un carro attrezzi. Reggendo la borsetta e lo zaino, fissa la sua auto con un’espressione desolata. Mi chiedo se possa permettersi di farla riparare. È vecchia come il mondo e anche i suoi vestiti, che passano per abiti vintage alla moda, potrebbero essere stati comprati da Goodwill per risparmiare, non per una questione di stile.

    Infilo il cellulare nella tasca posteriore. «Il carro attrezzi sarà qui tra circa un quarto d’ora».

    Annuisce e sorride. «Grazie per avermi fatto questo favore».

    «Di niente».

    Delle grosse gocce di pioggia iniziano a cadere, sbattendo sull’asfalto intorno a noi. I suoi occhi si spalancano quando un tuono rimbomba in lontananza.

    «Ti serve un passaggio a casa? Posso aspettare con te finché non arriva il carro attrezzi». Non c’è più nessuno studente nei paraggi e io mi sentirei male a lasciarla qui da sola.

    Il suo sguardo vaga sui tatuaggi che mi coprono le braccia e le mani. Poi si imbatte nei miei capelli arruffati lunghi fino alle spalle. Un dubbio le attraversa gli occhi.

    Sono un bravo ragazzo che sta facendo una buona azione o un delinquente tatuato dai capelli lunghi con la fedina penale lunga un chilometro?

    Forse sono entrambe le cose.

    «Ehm…».

    «Prima mi hai visto lavorare a quella casa». Faccio cenno col capo verso la nuova costruzione. «E questa scritta sul furgone è il nome della mia impresa. Non farò niente di losco. Sto solo cercando di essere gentile».

    Lei sporge il mento. «Pensi che rapitori e stupratori vadano in giro con un cartello? Hanno un lavoro. A volte anche moglie e figli. Sembrano molto più normali di te».

    «Giusta osservazione». Scuoto la testa e mi metto a ridere. «Va bene allora, io vado a casa prima di inzupparmi. Il carro attrezzi sarà qui a momenti, sono sicuro che ti darà un passaggio a casa. O puoi chiamare un Uber».

    «Aspetta», dice non appena afferro la maniglia della portiera. «Sono un po’ a corto di soldi questa settimana». Prende fiato esitante, ancora incerta se fidarsi di me. «Se non ti dispiace darmi un passaggio…».

    Tra un autista Uber, un meccanico e uno sconosciuto qualunque, ha deciso che io sono il minore dei mali.

    Ehi, lo prendo come un complimento.

    «Allora salta su». Una goccia dalla dimensione di una moneta mi si spiaccica in volto. «Possiamo aspettare nel mio furgone fino all’arrivo del meccanico».

    Una volta seduta sul sedile anteriore, appoggia lo zaino in mezzo a noi, come per creare una barriera di sicurezza.

    «Ho un coltello», mi dice senza giri di parole. «Se provi a fare qualsiasi cosa, ti pugnalo all’uccello».

    Con una risata, mi accendo una sigaretta. «Tranquilla, Sparkles. Non tutti vogliono farti del male. Me ne sto qui dalla mia parte». Faccio un tiro, chiedendomi se questa ragazza è solo paranoica o se ha dei trascorsi che l’hanno resa così sospettosa. «E non dovresti dire alla gente che hai un’arma. Se io fossi un malintenzionato, ora so già che tu potresti difenderti con un coltello, perciò la mia prima mossa sarebbe quella di portartelo via. Devi cogliermi di sorpresa, non annunciarmelo, cazzo».

    Lei sospira e guarda fuori dal finestrino. «Grazie della dritta».

    Se fossi con mia sorella, direi È quello che mi dicono tutte e rideremmo come degli idioti. Le direi anche che non dovrebbe portare un’arma a scuola. Ma la mia sorellina se n’è andata, non è più qui per ridere alle mie battute o per seguire i miei consigli.

    Mi schiarisco la gola. «Comunque, io sono Jude. I miei amici mi chiamano Lucky».

    «E lo sei?». Si volta verso di me. «Sai, Lucky come fortunato».

    Il tono della sua voce e il modo in cui mi trafigge con gli occhi mi turbano un po’. Scuoto la testa ed espiro il fumo fuori dal finestrino. «Non proprio. Faccio Lucketti di cognome. È da lì che arriva».

    «Io sono Skylar».

    «Piacere di conoscerti». Lascio cadere la sigaretta in una bottiglietta d’acqua quasi vuota nel vano portaoggetti. «Hai un debole per gli anni Settanta? La Corvette, Meat Loaf, la giacca scamosciata con le frange e i mocassini. È tutto molto fico, sono solo curioso».

    «Non lo so», risponde a bassa voce, rigirandosi un anello d’argento intorno al pollice. «Credo di essere sempre stata affascinata dalle cose vecchie. Hanno una loro personalità e mi fanno sentire a mio agio. Sono state dimenticate e gettate via». Fa un respiro malinconico. «Immagino di volerle amare, ricordare loro che hanno ancora importanza. Ti sembra sensato? O solamente stupido?».

    I suoi occhi rimangono fissi nei miei, in attesa, sperando che non mi metta a riderle in faccia. Lei vuole che io capisca. Ed è così. Le sue parole si sono appena intrufolate nella mia anima.

    «Non è per niente stupido», dico proprio mentre il carro attrezzi si ferma accanto a noi. «Ed è molto sensato. Più di quanto immagini».

    Molto più di quanto immagina.

    Io sono una di quelle cose dimenticate e gettate via.

    Capitolo 2

    Skylar

    Jude non parla molto dopo che gli ho indicato la strada per casa mia. Di certo non è una di quelle persone che devono riempire il silenzio con stupide frasi buttate a casaccio come Qual è la tua materia preferita? o C’era proprio bisogno di questa pioggia. Al contrario, lui dice: «Ti piacciono i Pink Floyd, Sparkles?», con una sigaretta che gli pende dalla bocca.

    «Puoi dirlo forte. A chi non piacciono?».

    Sorridendo, con un dito tatuato preme un tasto sul volante e il familiare e ammaliante suono di Dark Side of the Moon ci circonda con la sua quiete. Non so quante ore ho passato sdraiata sul letto, con i coni d’incenso accesi sul comodino, a fissare il soffitto ascoltando questo album quando mi sentivo sopraffatta dalla vita. Riesce sempre a calmarmi e farmi tornare coi piedi per terra.

    «Non c’è niente di meglio della musicoterapia, eh?», chiede Jude, come se mi stesse leggendo nella mente.

    Annuisco. «Verissimo».

    Cantiamo insieme, il che dovrebbe essere imbarazzante, ma non lo è.

    «Puoi lasciarmi qui, continuo a piedi», mi offro quando ci avviciniamo al cartello sbilenco all’inizio della mia via.

    Ignorandomi, svolta a sinistra e si immette nella strada dissestata.

    «Non essere sciocca. Ti ho detto che ti avrei accompagnata a casa, non scaricata all’angolo sotto la pioggia». Scuote la testa e mi lancia un’occhiata. «Qual è casa tua?».

    Indico verso destra e raccolgo lo zaino e la borsetta. «Due case più in là. Quella con il camper».

    Procede lentamente lungo il vialetto e parcheggia il furgone.

    «C’è qualcuno in casa?». Aggrotta la fronte quando vede la casa buia, notando come le tende spesse che rivestono le finestre non permettano neanche al più sottile raggio di luce di entrare, né di uscire. Nemmeno un percettibile bagliore blu di una televisione accesa in salotto. Le ragnatele coprono il faretto del portico, che non vede una lampadina da anni ormai.

    «C’è mia mamma in casa. Tiene tutto spento perché soffre di una brutta emicrania». Recito bene questa bugia. Dopotutto, la uso con successo da diversi anni. «Grazie per l’aiuto oggi e per il passaggio».

    «Nessun problema, figurati».

    Esito un po’ prima di salutarlo, chiedendomi se mai lo rivedrò. «Lavorerai ancora a quella casa? Vicino alla scuola?».

    Annuisce. «Sì, ne abbiamo ancora per qualche settimana».

    «Ottimo. Ti vedrò in giro, allora?»

    «Ne sono certo».

    Mi mordo il labbro per nascondere un sorriso. «Be’, buona giornata, Jude».

    «Anche a te, Skylar. Sta’ lontana dai guai».

    «Ci proverò».

    Quando sorride, un angolo della bocca gli si solleva più dell’altro. All’improvviso, mi accorgo di essere da sola in macchina con un uomo super attraente, molto più grande di me, con muscoli abbronzati ricoperti di tatuaggi, capelli lunghi fino alle spalle e occhi color ardesia. Non è elegante né raffinato, ma ha quel fascino da muratore rude e sexy. Maglietta bianca attillata, jeans sbiaditi e impolverati e un paio di scarponi da lavoro logori. Sconcezza attraente.

    Salto giù dal furgone e chiudo la portiera, ma lui non si allontana. Mi rendo conto che sta cercando di fare il gentiluomo e assicurarsi che attraversi sana e salva la porta d’ingresso.

    Sospirando, percorro il vialetto sgretolato fino alla casa, poi mi volto per salutarlo con una mano sulla maniglia arrugginita della porta a zanzariera. Gli rivolgo un sorriso forzato come a dire Sì, sono a casa sana e salva. Non c’è niente di cui preoccuparsi.

    Se solo fosse vero.

    Mi sento un po’ in colpa quando lui mi sorride e ricambia il saluto prima di fare inversione sulla strada, perché sembra un bravo ragazzo. Dopo aver aspettato qualche secondo per essere certa che non mi stia più guardando, faccio il giro sul retro e oltrepasso il vecchio camper in cui viveva mio padre. Salgo sulla cassetta di legno appoggiata alla casa, apro la finestra di camera mia e mi arrampico per entrare.

    Fluffle-Up-A-Gus, la mia gatta, salta giù dal letto e subito scatta in avanti per strofinarsi contro la mia caviglia, con la coda dritta come l’asta di una bandiera. La prendo in braccio e immergo il volto nel suo morbido pelo grigio.

    «Mi sei mancata oggi, Gus». Lei esplode in una serie di fusa e affonda le zampette nella mia spalla. «Io ti sono mancata? Andiamo a farti la pappa».

    Con delicatezza la rimetto giù e riempio il suo piatto di croccantini, poi verso l’acqua da una bottiglia di plastica nella sua ciotola.

    Sbadigliando, mi tolgo i vestiti e li getto nel cesto della biancheria, poi mi accovaccio con attenzione su un grande secchio dietro l’anta dell’armadio. Mi pulisco con un piccolo quadrato di carta igienica che butto in un sacchetto della spazzatura, poi raccolgo la sabbia bagnata di urina dal fondo del secchio e getto anch’essa nell’immondizia. Ripeto il processo con la lettiera del gatto dall’altra parte dell’armadio, infine chiudo il sacchetto con un nodo per gettarlo l’indomani.

    Inizio il mio rituale quotidiano di pulizia del viso e del corpo con le salviettine per neonati, poi spruzzo lo shampoo secco sui capelli.

    Per ultimo, indosso una maglietta oversize e un paio di pantaloncini di cotone. Gus si arrotola intorno ai miei piedi in cerca di attenzioni, cosa che adoro. Sorridendole, mi inginocchio davanti al piccolo frigorifero per prendere una bottiglia d’acqua, due fette di pane e un panetto di burro. La preoccupazione per la mia auto mi affligge mentre spalmo il burro sul pane con un coltello di plastica. Mastico con aria distratta, cercando di calcolare quanti straordinari dovrò fare alla boutique per pagare qualunque sia il danno. C’è un limite di ore che posso fare part-time, perciò potrebbero volerci settimane per saldare il debito.

    Mi sembra di non poter mai avere un attimo di pace.

    Prima di potermi infilare nel letto a guardare la tv, sblocco le tre serrature di sicurezza della mia camera e sbircio fuori nel corridoio buio. Un tanfo acre di muffa mi riempie le narici all’istante. Il mio stomaco si rivolta dalla nausea. Riesco a sentire la televisione e a vedere la luce fioca provenire dal salotto alla fine del corridoio.

    «Buonanotte, mamma», chiamo con voce incerta.

    Non riesco a vederla, ma sono sicura che sia ancora lì, sul vecchio divano verde. Sono passati mesi da quando ho provato ad avventurarmi fuori dalla mia stanza, ma so che lei se ne sta lì circondata da pile e pile di cianfrusaglie, che ora saranno con molta probabilità arrivate al soffitto. Per raggiungere una qualsiasi altra stanza, o perfino la porta d’ingresso, mi dovrei infilare in passaggi stretti e scavalcare le cataste di scatole e spazzatura che ricoprono il pavimento. La cucina e il bagno sono così sudici e stipati che ho smesso di usarli due anni fa. Perfino il camper è pieno fino all’orlo di abiti vecchi, coperte, piante finte, addobbi festivi e chi più ne ha più ne metta. Le mie speranze di trasferirmi lì dentro mentre era ancora vuoto sono state infrante quando lei è riuscita a riempirlo in meno di un mese dopo che mio padre se n’era andato.

    Mia madre è un’accumulatrice compulsiva.

    Sono stata costretta a rifugiarmi nella mia camera da letto, impossibilitata a usare il bagno e l’acqua corrente come una qualsiasi persona normale. Ci saranno duecento bottiglie di shampoo, balsamo e sapone liquido lì fuori in quella confusione, ma se provo a prenderne una, mia madre va su tutte le furie. Devo tenere la mia stanza perennemente chiusa a chiave perché ai suoi occhi è un bene immobile di valore. Uno spazio di tre metri per quattro da riempire con migliaia di oggetti dai negozi tutto a un dollaro, statue di animali a grandezza naturale, tapis roulant o pellicce false.

    Non usa mai nessuna delle cose che compra. Semplicemente si aggiungono al museo dei suoi effetti personali. Eppure, in un modo contorto, le dà una certa soddisfazione che io non potrò mai e poi mai capire.

    Mio padre ha vissuto nel camper per quasi quattro anni, incapace di convivere con tutto questo. Poi, un giorno se n’è andato, lasciandomi con un biglietto di scuse e la responsabilità di badare a me stessa nella giungla di questa casa. Ha provato a parlare con mia madre molte volte nel corso degli anni, a convincerla a chiedere aiuto, ma lei ha sempre rifiutato. Io ho fatto lo stesso, ma non mi ha dato ascolto. Si è chiusa a riccio. Adesso mi parla a malapena. E come potrebbe, dal momento che dovremmo sguazzare attraverso montagne di spazzatura per trovarci fisicamente nello stesso posto? E invece mi tocca chiamarla o scriverle un messaggio per comunicare. Un tempo mi chiedevo se le importasse di sapere quale effetto tutto ciò avesse su di me. Se si preoccupasse del fatto che dovessi arrampicarmi fino alla finestra, usare un secchio come water e nascondermi nella mia camera con la mia gatta.

    Ma non c’era motivo di fantasticare troppo, perché conoscevo già la risposta.

    Chiudo la porta a chiave con un sospiro di sollievo. Sono riuscita a creare il mio piccolo porto sicuro qui dentro, con Fluffle-Up-A-Gus. Abbiamo tutto ciò che ci serve per sopravvivere. Sembra quasi che l’incubo dall’altro lato della porta non esista.

    Eppure, mi sento come se piano piano stessi cessando di esistere anch’io.

    Capitolo 3

    Skylar

    «Quando riavrai la tua macchina?», chiede Megan mentre percorriamo il terzo giro di pista. Una nebbia leggera persiste nell’aria, inumidendomi la pelle e arricciandomi i capelli. Ho avuto educazione fisica alla prima ora ogni anno e quest’ultimo non è diverso. Muoversi e sudare come prima cosa al mattino, quando sono a malapena sveglia, fa schifo, ma il lato positivo è che dopo posso farmi una doccia. Risolve il problema di non potermela fare a casa ed evita che i miei compagni inizino a nutrire sospetti. Durante l’estate, ho vissuto l’interessante e squallida esperienza di dover guidare fino a una stazione di servizio per farmi una doccia due volte alla settimana.

    Nessuno sa quanto sia peggiorata mia madre. Nemmeno Megan, e lei è la mia migliore amica dalla quarta elementare. Dopo un po’ ha semplicemente accettato il fatto che io ero una di quelle persone che non invitava mai gli amici a casa. E comunque, saremmo matte a non vederci a casa sua. Hanno una sala cinema e una piscina.

    Mi scaccio un moscerino dal viso. «Non so quando la riavrò. Il meccanico mi ha scritto stamattina e ha detto che mi avrebbe fatto sapere dopo aver capito cosa c’è che non va».

    «Magari non ci vorrà molto. Posso passarti a prendere io ogni mattina, ma non riesco a darti un passaggio all’uscita da scuola, perché ho in programma ogni genere di impegno praticamente ogni giorno».

    La mia unica attività extracurriculare è un lavoro part-time.

    «Va bene così. Posso tornare a casa o andare alla boutique a piedi. Chiederò a Rebecca se posso fare gli straordinari nel fine settimana. Chissà quanto mi verrà a costare».

    «Avresti fatto meglio a prenderti una Hyundai usata, hanno la garanzia inclusa. La Corvette è fica ed era gratis, ma sta praticamente cadendo a pezzi».

    «Una Hyundai è solo una macchina. Non ha personalità».

    Né valore affettivo.

    La Corvette era di mio nonno. L’aveva comprata pochi anni fa come auto da restaurare, nella speranza di rimetterla a nuovo e consegnarmela come regalo per il diploma. Sono sicura che, in un certo modo, fosse una scusa per impedirmi di mollare gli studi. Mi sedevo sempre nel suo vecchio garage, sognando il momento in cui avrei potuto guidarla. Purtroppo, la vita ha avuto altri piani e mi è stata lasciata nel suo testamento. Ora il suo sogno per quella macchina è diventato il mio. Fino ad allora, sono orgogliosa di guidarla così com’è.

    La signora Stephens, la prof di educazione fisica, scuote la testa nella nostra direzione mentre passeggiamo davanti alle tribune su cui è seduta. «Signorine, dovreste correre intorno alla pista».

    «Qual è il senso di mettersi a correre se non c’è nessuno a inseguirci?», rispondo con un sorriso innocente.

    Poco divertita, si spinge gli occhiali bordati di nero su per il dorso del naso. «Almeno camminate più veloci. Non siete qui per allenare la bocca».

    Megan ride mentre si lega i lunghi capelli neri in una coda di cavallo. «Quest’umidità fa schifo», mi dice. «Io non voglio allenare niente».

    «Idem».

    «Venerdì sera dovremmo…». Si ferma di colpo. «Wow. Bei bicipiti, Batman».

    «Eh?». Confusa, seguo la direzione dei suoi occhi, che mi porta direttamente a Jude. Sta passeggiando lungo il marciapiede verso la casa a cui sta lavorando. Un sacchettino di plastica del discount a un isolato più in là ciondola dalla sua mano.

    «È lui», dico.

    «Lui chi?», chiede lei con gli occhi ancora inchiodati sull’uomo.

    «Il tizio che mi ha dato un passaggio a casa. Jude».

    Lui si volta e un piccolo sorriso gli spunta sul volto appena mi riconosce. Un gruppo di compagni ci sorpassa sulla curva della pista, bloccandogli momentaneamente la nostra visuale.

    «State facendo l’esercizio in modo sbagliato», scherza dopo che il gruppetto ci ha sorpassate.

    «Stiamo allenando le nostre bocche», risponde Megan, rallentando e obbligandomi a fare lo stesso, così da stare al passo con lui.

    In una risata, rivolge l’attenzione a me. «Come va la macchina? Ci sono novità?»

    «Non ancora».

    La signora Stephens soffia nel fischietto rivolta a noi. «Signorine, se non vi muovete, siete entrambe in punizione. Signor Lucketti, sono certa che lei si ricorda com’è».

    Le mie guance si scaldano per l’imbarazzo. Davvero frequentava questa scuola quando era più giovane?

    Jude le rivolge un sorriso impertinente. «Andiamo, sa bene che le manco, prof Stephens».

    «Continua a camminare, Lucky». Una punta di affetto le stringe la voce.

    «Non mi hai detto che era fico», mi dice Megan una volta che Jude è sparito dietro il nuovo muro dell’ampliamento che la sua squadra sta costruendo. «Come hai potuto omettere quella parte?»

    «Non l’ho guardato attentamente, Meg». Questa forse è una bugia. Potrei averlo osservato un pochino. «Sembra essere sulla trentina».

    «Vero, ma è ancora un bel bocconcino».

    «Non sapevo venisse a scuola qui. La prof Stephens lavora qui da tutta la vita?».

    Megan scrolla le spalle. «Probabile. Scommetto che quel fischietto è l’unica cosa che abbia mai tenuto in bocca».

    Le rivolgo una smorfia. «Che schifo. Preferirei non immaginarmela con niente in bocca».

    «A me piacerebbe immaginarmi con quel tipo. Hai visto tutti quei tatuaggi? Non ha un fratello minore carino come lui?»

    «Calmati. Mi ha solo dato un passaggio, non gli ho fatto il terzo grado sulla sua biografia».

    Lancia uno sguardo in direzione della casa, ma di Lucky nessuna traccia. «Spero che i ragazzi siano belli così quando arriveremo a quell’età. Non voglio sposare qualcuno di carino che poi inizia a diventare tutto pelato e flaccido». Rabbrividisce con fare teatrale.

    La colpisco con una spallata. «Tu sei pazza. Quando sposi qualcuno, si suppone che lo ami nonostante tutto. Fa parte delle promesse nuziali».

    «Facciamo un patto, vediamo come ci sentiremo quando avremo trent’anni e saremo sposate con figli. Dovremo confessarci l’un l’altra, in tutta onestà, se siamo ancora attratte dai nostri mariti».

    Conosco noi e la nostra amicizia. Avremo davvero questa conversazione tra quindici anni.

    «Perché pensi già al matrimonio e ai figli? Non abbiamo nemmeno ancora preso il diploma».

    Scrolla le spalle. «Non è quello l’obiettivo finale? Un matrimonio in grande, due bambini, una bella casa e una carriera? Mia madre sta già programmando le mie nozze, e non sono nemmeno fidanzata».

    «Non è questo che voglio io». Ci dirigiamo verso la porta per entrare. «Non mi sposerò mai».

    «Non dirmi che sei ancora fissata con l’idea di vivere in un camper con un mucchio di gatti?».

    Megan vuole quello che hanno i suoi genitori. Una grande casa in una strada chiusa. Una famiglia. Un sacco di riunioni familiari. Una carriera brillante. Non la biasimo perché, nel suo mondo, questo si avvicina molto alla perfezione.

    Ma il mio mondo è diverso.

    «Cosa c’è di male a vivere in un camper? Posso andare ovunque. Vivere ovunque. Non voglio sentirmi in trappola. In un luogo o con una persona. Voglio essere libera».

    Lei inarca un sopracciglio. «Allora sarà meglio che un giorno il tuo culetto libero parcheggi il camper nel mio vialetto d’ingresso per venire a trovarmi».

    «Eccome se lo farò. E se non sarai felice con il tuo marito flaccido scapperemo via a bordo del camper come Thelma e Louise».

    «Affare fatto».

    La giornata scorre lenta. Sono stanca e agitata, fisso l’orologio durante ogni lezione, conto i minuti che mi separano dalle tre del pomeriggio, quando potrò andare al lavoro. Un tempo amavo andare a scuola ogni giorno. Era emozionante e divertente, più o meno fino alla terza elementare. Assorbivo le conoscenze come una spugna e avevo tanti amici. Ricordo che partecipavo alle loro feste di compleanno, indossavo cappelli buffi e cantavo. Mangiavo la torta. Ma intorno alla quarta elementare, le cose a casa iniziarono a peggiorare. O forse, ero solo diventata abbastanza grande da capire che le cose erano sempre andare male. La scuola divenne una via di fuga.

    Tuttavia, non potevo fuggire da me stessa. Né dalla paura che mi aleggiava nella mente o dalla nauseante sensazione che mi stringeva il petto.

    Piano piano mi allontanai da tutti i miei amici e compagni, finché Megan decise che sarei stata la sua migliore amica. Era la compagna nuova, seduta davanti a me in classe. Il suo primo giorno, si voltò e mi spiattellò in faccia tutta la storia della sua vita in un’unica, lunga frase sconnessa. Era molto vivace, con le mani che si agitavano in aria, i capelli che sobbalzavano, gli occhi che si spalancavano un momento prima e si sbarravano quello dopo. Io la fissai e annuii per dieci minuti buoni mentre parlava, rapita dal suo incantesimo.

    «Hai degli occhi molto belli», disse dopo aver preso finalmente fiato.

    Da quel momento in poi, diventammo migliori amiche.

    A volte vorrei riuscire a convincerla a seguire il mio sogno di vivere in un camper. Mi mancherà quando finirà l’università e inizierà una vita completamente nuova. Ci divertiremmo un mondo a girare per il Paese in lungo e in largo insieme, ascoltando della buona musica, scattando centinaia di selfie in posti sempre nuovi. Invece, comunicheremo tramite messaggi e videochiamate.

    Finalmente, la campanella delle tre suona e mi metto a camminare per due chilometri e mezzo fino al Belongings, la boutique in cui lavoro da quasi quattro anni. Belongings vende articoli fatti a mano da produttori locali come gioielli, vestiti, arredamenti per la casa, candele, dolciumi, bambole, perfino cosmetici e saponi. Nonostante il negozio sembri piuttosto piccolo dall’esterno, all’interno è molto più grande, suddiviso in quattro stanze. Ciascuna di queste è arredata come se fosse una vera casa, con le foto appese alle pareti, i gioielli nei portagioie, tazze e sottobicchieri disposti sui tavoli, dando così l’impressione di passeggiare per una casa in cui poter comprare le cose che ti piacciono. Adoro l’intimità di questo negozio.

    Rebecca, la proprietaria, sforna i biscotti nel cucinino sul retro, che prima era una piccola tavola calda. Due anni fa, lei e suo marito si sono lasciati. Ha trentadue anni e niente figli perciò, a quanto pare, dopo il divorzio si è lanciata nell’attività di pasticceria per tenersi troppo impegnata per finire in un’altra pessima relazione, come dice lei. Si è così scoperto che è un vero talento nel preparare dolci squisiti. Infila i biscotti in graziosi sacchettini per offrirli ai clienti. Cerca sempre di convincermi a mangiarli, ma non ne ho mai assaggiato uno. A ogni modo, inondano il negozio di un profumino delizioso. A volte penso che la metà dei clienti entrino solo per i biscotti.

    La campanella sopra la porta del negozio tintinna quando la apro, il getto d’aria condizionata è rigenerante dopo una camminata nel caldo soffocante. «Ciao, Rebecca», la chiamo. «Scusa per il ritardo. Sono dovuta venire a piedi».

    Da dietro l’espositore girevole delle collane di cristallo, alza lo sguardo e si sistema una ciocca di capelli neri lunghi fino alle spalle dietro l’orecchio. «Non c’è problema. Sai che non do peso a questo genere di cose. La tua macchina è guasta?».

    Lascio cadere la borsetta e lo zaino dietro il bancone della cassa e un capogiro mi costringe ad aggrapparmi al bordo della vetrinetta. Maledicendomi per non aver chiamato un Uber con questa umidità, svito il tappo della bottiglia d’acqua e mando giù finché quella sensazione non si placa.

    «Ho dovuto farla portare via da un carro attrezzi ieri sera». Grazie al cielo, non ero di turno ieri dal momento che era il primo giorno di scuola. «Non so cos’ha che non va, è ancora dal meccanico».

    «Mi dispiace molto. Non preoccuparti di fare un po’ di ritardo quando ne hai bisogno. Dico davvero». Il suo sguardo si sofferma sul mio volto. «Ti senti bene? Sei pallida».

    Annuendo, rispondo: «Sto bene, è solo molto umido fuori. Volevo chiederti se hai qualcosa da farmi fare nel fine settimana. Non so quanto mi verrà a costare questo guasto alla macchina…». La mia voce si affievolisce, imbarazzata, spero non pensi che voglia far leva sulla sua pietà.

    «Mmm». Si guarda intorno. All’improvviso, le si illuminano gli occhi. «A dire il vero, penso proprio di avere qualcosa che puoi fare per me a cui io non ho né il tempo né la pazienza di stare dietro. Mi servono delle foto del locale e dei prodotti da pubblicare sui social. Pare che debba pubblicarne almeno una al giorno. È questa la moda adesso, ma io ho mollato la presa perché è un’enorme perdita di tempo».

    «Sembra divertente, in realtà. Seguo molta gente e pagine di prodotti su Instagram. Ho cercato anch’io di creare il mio gruppo di follower. Posso dare un’occhiata alle pagine delle altre boutique e rubare delle idee».

    «È esattamente ciò di cui ho bisogno. Non so perché non ci ho pensato prima di chiedere a te. Com’è la fotocamera del tuo cellulare?».

    Il mio cuore sprofonda un po’ quando tiro fuori il mio vecchio telefono dalla tasca. «Ehm, non molto buona. Lo schermo è rotto. Non so se…».

    Lei solleva una mano, sorridendo. «Sai che c’è? È da tempo che pensavo di comprarmene uno nuovo. Anche il mio è vecchio. Stasera faccio un salto al centro commerciale e compro due iPhone nuovi. Mia sorella dice che la fotocamera è eccezionale. Ne darò uno a te».

    «Oh, Rebecca. Non posso lasciartelo fare. Hai idea di quanto costino?».

    Lei rimane impassibile. «Posso detrarlo dai costi aziendali. Mi sarebbe di grande aiuto che te ne occupassi tu. Puoi avere accesso agli account, usare i filtri alla moda e rispondere a tutti i commenti e alle domande della gente. Potrebbe essere una nuova parte del tuo lavoro, ti interessa? Ti darò un aumento».

    Un nuovo cellulare, maggiori responsabilità e un aumento? Mi sembra di aver appena grattato il biglietto vincente della lotteria.

    Il desiderio di abbracciarla è immenso, ma probabilmente sarebbe imbarazzante e poco professionale dal momento che è il mio capo, così desisto. «Oh», dico ricacciando indietro le lacrime di gioia. «Grazie. Ma certo che sono interessata. Farò un ottimo lavoro, te lo prometto. Cercherò gli hashtag, creerò quell’effetto con i colori coordinati come tutti gli account popolari. Magari possiamo organizzare dei giveaway con le scatole dei tuoi famosi biscotti». Il mio cervello inizia a girare come una trottola con tutte queste idee.

    «Visto? Sei già un passo avanti a me. Puoi venire questo weekend e iniziare a scattare le foto. Segna le ore di straordinari».

    Finalmente sembra che le cose inizino ad andare per il meglio.

    Capitolo 4

    Jude

    Quest’ultima settimana è stata un inferno. Il mio piano era quello di staccare prima dal lavoro dal momento che è venerdì, ma no. Non è andata così. I proprietari di casa mi hanno beccato proprio mentre me ne stavo andando tre ore fa e hanno voluto rivedere alcuni dettagli e piccole aggiunte. Almeno, finora, sono contenti del lavoro fatto. Credo che mi sarei buttato dal tetto se così non fosse stato.

    Appena salgo sul furgone, verso un po’ d’acqua su un fazzoletto di carta e mi pulisco il viso, il collo, le braccia e le mani. Il calore e l’umidità ultimamente sono stati micidiali, la polvere mi si appiccica addosso come una seconda pelle granulosa. Voglio solo andare a casa, farmi una doccia e rilassarmi sul divano con Cassie e un bel film.

    Dopo circa cinque chilometri guidando per la città, vedo una ragazza camminare sul marciapiede, uno zaino con un teschio glitterato stampato sopra oscilla dalle sue spalle minute. Quando mi accorgo che è Skylar, esito, chiedendomi se sia il caso di offrirle un altro passaggio. Fa un caldo allucinante, ma non sta piovendo e non è ancora buio.

    Un tormento dal profondo delle mie viscere mi ricorda che non era buio né stava piovendo quando la mia sorellina è scomparsa.

    Sospirando, accosto il furgone qualche metro davanti a lei e abbasso il finestrino dal

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