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Quei piccoli grandi eroi che salvarono i libri
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Quei piccoli grandi eroi che salvarono i libri
E-book491 pagine6 ore

Quei piccoli grandi eroi che salvarono i libri

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La storia vera della brigata della carta che salvò migliaia di libri dal regime nazista

Vilnius, 1941. Le armate tedesche entrano nella capitale lituana e cominciano a saccheggiare la città ricca di tesori d’arte. Nel frattempo gli ebrei vengono ammassati nei ghetti, e sparatorie e uccisioni sono all’ordine del giorno. Nelle biblioteche della città, i direttori Herman Kruk e Zelig Kalmanovich provano a salvare dei libri, nascondendoli ai nazisti. Quando però gli ufficiali della Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, l’unità speciale nazista incaricata delle confische e dei saccheggi di opere dell’ingegno, iniziano a distruggere documenti importanti, Kruk si impegna a sabotare i loro piani. Nasce così la “Brigata della Carta”, un gruppo di uomini e donne che decidono di sfidare la morte per salvare i libri. Costretti a lavorare in condizioni estreme, mettono in atto delle astute strategie per salvare il patrimonio culturale ebraico; con il passare del tempo, la brigata diventa una vera e propria forma di resistenza. Nemmeno la brigata, però, può nulla di fronte alla liquidazione nel ghetto di Vilnius. Alcuni membri si danno alla fuga, altri decidono di rimanere nel ghetto e affrontare il destino che i tedeschi hanno in serbo per loro; pochi sopravvivranno e diventeranno degli eroi, mentre la maggior parte di loro verrà catturata e deportata nei campi di concentramento, dove troverà la morte. Quei piccoli grandi eroi che salvarono i libri è una storia di eroismo, di resistenza, di amicizia, d’amore e di devozione assoluta alla letteratura e all’arte. Ma soprattutto, è una storia vera.

Una storia epica di eroismo e coraggio

«Un libro appassionante, al cardiopalma. Fishman scrive con la precisione dello storico, ma anche con la sensibilità del fine letterato.» 

«L’ispirato ritratto del ghetto di Vilnius e del coraggio e della fedeltà di coloro che vi hanno abitato durante il regime nazista.»

«Dimentichiamo spesso che il Terzo Reich ha cancellato dalla faccia della terra, non solo gran parte della popolazione ebraica, ma anche i suoi preziosi tesori.»
David Fishman
È nato e cresciuto a New York, in una comunità ebraica di immigrati e sopravvissuti all’Olocausto. Ha frequentato la Yeshiva University, conseguito il dottorato di ricerca e master presso la Harvard University e, dopo aver insegnato in diversi Paesi europei, attualmente è professore di storia moderna alla Jewish Theological Seminary of America. Ha all’attivo diversi libri.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2017
ISBN9788822703415
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    Anteprima del libro

    Quei piccoli grandi eroi che salvarono i libri - David Fishman

    Parte prima

    Prima della guerra

    Capitolo 1

    Shmerke: l’anima della festa

    Mai parenti e amici avrebbero sognato che Shmerke Kaczerginski potesse diventare uno scrittore; si aspettavano che facesse il facchino, come suo padre, o un lavoro manuale di qualche tipo. Era cresciuto in una delle strade più povere di Vilnius e, quando entrambi i genitori erano morti di inedia nel 1915, durante il primo, difficile anno della Prima guerra mondiale, il suo destino sembrava segnato. Avrebbe fatto il facchino, il borseggiatore o il contrabbandiere.

    In effetti, Shmerke contrabbandiere lo divenne, ma di un tipo parecchio insolito. Durante il periodo in cui visse nel ghetto di Vilnius, rubò dei libri dal deposito in cui i nazisti tenevano i tesori razziati, per impedire che venissero bruciati e spediti in Germania. Diventò così abile nel contrabbandare libri che continuò a farlo anche sotto il dominio sovietico. Tuttavia, prima di rischiare la vita per i libri, era stato un lettore, e poi uno scrittore, un editor e un editore¹.

    Da bambino, l’orfano Shmerke – diminutivo affettuoso yiddish del nome ebraico Shemaryahu – viveva con il fratello minore Jacob insieme a svariati parenti, ma soprattutto con il nonno paterno, anche se la maggior parte del tempo lo passava in strada. A dieci anni, fu ammesso nell’orfanotrofio ebraico di Vilnius e si trasferì in un dormitorio che ospitava centocinquanta bambini, ai quali, proprio com’era capitato a lui, la Grande guerra aveva strappato i genitori. Era basso, strabico e denutrito, con i sintomi del rachitismo: stomaco e testa gonfi. Durante il giorno, frequentava la Talmud Torah, la scuola elementare sponsorizzata dalla comunità per bambini orfani e indigenti, dove guarì e divenne un bravo studente. Quando i suoi sei anni alla scuola Talmud Torah volsero al termine, iniziò a leggere i lavori dei saggisti yiddish e del filosofo Chaim Zhitlowsky.

    Tuttavia, il più grande talento di Shmerke non aveva nulla a che vedere con la scuola: era la sua abilità di farsi degli amici e di tenerseli. Aveva un sorriso smagliante, che emanava calore ed energia infiniti, e adorava dare agli altri il sostegno e l’attenzione che non aveva ricevuto da piccolo; amava cantare canzoni popolari alle feste e agli incontri con gli amici, così come raccontare storie in toni sommessi. Attirava gli altri studenti come il miele con le api, e gli insegnanti dedicavano parte del loro tempo libero a fargli da tutor e da mentori².

    Nel 1924, a sedici anni, Shmerke iniziò a lavorare come apprendista alla litografia Eisenshtat e affittò una stanza tutta per sé, lasciando l’orfanotrofio. Di sera, frequentava la scuola I.L. Peretz, una scuola media serale per giovani lavoratori. L’istituto era gestito da attivisti del Bund, l’Unione generale dei lavoratori ebraici, il principale partito socialista ebraico in Polonia; mentre studiava, Shmerke si avvicinò a idee politiche radicali e al movimento operaio³. Scrisse la sua prima canzone all’età di diciotto anni, una canzonetta politica dal titolo Barricate che immaginava la rivoluzione operaia come un felice affare di famiglia:

    Padri, madri, bambini costruiscono barricate,

    e i lavoratori controllano le strade in brigate.

    I ragazzini lo sanno già che papà a casa non tornerà,

    perché con la sua pistola per strada impegnato sarà;

    Chana dice alla sua nidiata di bambini che stasera la cena non preparerà,

    poi se ne va a combattere con papà.

    I bambini costruiscono una barricata; in casa non c’è nessuno,

    sono usciti tutti fuori, a lanciare pietre contro la polizia.

    La canzone aveva un bel ritmo e si diffuse in un lampo ai raduni socialisti, alle manifestazioni e nei circoli di giovani sparsi per tutta la Polonia. Anche se la cantavano tutti, erano in pochi a conoscere il nome dell’autore.

    Grazie a quel componimento, a qualche altro verso, e a un paio di articoli, nel 1928 Shmerke si unì a un gruppo di scrittori yiddish emergenti chiamato Giovane Vilnius. Il suo principale contributo alle loro riunioni, che si tenevano attorno ai tavoli delle cucine, consisteva nel cantare canzoni folcloristiche e nel trascinare i membri del gruppo in vivaci sessioni di canto. Uno degli scrittori in seguito sottolineò che la Giovane Vilnius non era mai sembrata giovane fino alla comparsa sulla scena di Shmerke⁴.

    Il suo amico, il poeta e romanziere Chaim Grade, ricordò: «Shmerke si limitava a piluccare il cibo, ma cantava a squarciagola una canzone, con tutte le sue sfumature melodiche, gesticolando con le mani e mostrando grande espressività con il viso; ripeteva le strofe diverse volte, finché il gruppo non si stancava. Poi, si portava il palmo della mano destra all’orecchio, come se all’interno ci vibrasse un diapason, e strizzava gli occhi: ce l’aveva… e partiva un ritmo diverso. Tutti attorno a lui tenevano allegramente il tempo, come se stessero aspettando la canzone da sempre»⁵.

    Shmerke non aveva né gli atteggiamenti, né l’affettazione di uno scrittore; la sua figura bassa ma slanciata, la fronte alta e le labbra carnose gli conferivano il classico aspetto dell’operaio, cosa che, in effetti, era. Indossava degli occhiali rotondi, cerchiati di nero, un berretto, e una giacca consunta; inoltre, a differenza della maggior parte dei poeti, doveva la sua intelligenza alla strada ed era un combattente grintoso. Quando una sera un gruppo di adolescenti polacchi aggredì lui e i suoi amici, che camminavano lungo un vicolo buio, Shmerke non esitò a prendere parte alla rissa e picchiò alcuni degli aggressori, mentre gli altri si diedero alla fuga⁶.

    Il giovane poeta aveva un discreto successo con le ragazze: il suo carisma e il suo calore compensavano la bassa statura, lo strabismo e l’aspetto ordinario. Il più delle volte le sue amiche erano nuove di Vilnius e provenivano dalle cittadine circostanti; Shmerke le aiutava a trovare un lavoro e un posto in cui vivere, le inebriava con le sue canzoni e diceva loro chiaro e tondo: «Non ti innamorare, o soffrirai». Il suo difetto era noto a tutti: se stava con una ragazza per più di qualche mese, si annoiava e la lasciava. Tuttavia, era infallibilmente devoto ai suoi amici maschi, la maggior parte dei quali erano operai poveri e scrittori indigenti, a cui risollevava lo spirito con barzellette, canzoni e storie. Inoltre, quando gli capitava in mano qualche groszy, portava i suoi amici in un caffè a bere un tè o una vodka⁷.

    La sera, nel fine settimana, Shmerke passeggiava per le strade di Vilnius circondato da un nugolo di persone ma, pur sorridendo e scherzando con tutti, era sempre il primo ad avvistare un conoscente che si avvicinava da un isolato di distanza. Gridava «Come va?» e stringeva la mano della persona in questione con un gesto ampio, come se stesse per schiaffeggiarla. I due, poi, iniziavano a chiacchierare e il conoscente finiva per unirsi alla sua gang, anche se stava correndo a un appuntamento.

    Nonostante l’atteggiamento alla mano e allegro, Shmerke era serio quando si parlava di politica. Mentre studiava alla scuola serale sponsorizzata dai socialisti, si era unito al partito comunista, al tempo bandito. Le piaghe gemelle della povertà e dell’antisemitismo in Polonia avevano fatto sembrare l’Unione Sovietica, oltre confine, un’oasi di libertà e uguaglianza; la sua attività politica illegale – legava bandiere rosse ai fili del telefono nel cuore della notte, stampava proclami antigovernativi e li lanciava davanti alla stazione di polizia locale, oppure organizzava manifestazioni illegali nelle strade – portò a numerosi arresti e a brevi periodi di detenzione.

    Dato che ciclicamente veniva sorvegliato dai servizi segreti polacchi, adottò delle precauzioni: pubblicò sotto pseudonimo i propri articoli sul «Morning Freedom» («Morgn-Frayhayt»), il quotidiano dei comunisti yiddish di New York, e li fece spedire da turisti o da un indirizzo fittizio di Varsavia; inoltre, tenne gli amici letterati all’oscuro della sua attività politica⁸.

    Soprattutto, però, Shmerke era il cuore e lo spirito della Giovane Vilnius, l’anima della festa; non era lo scrittore più prolifico o talentuoso del gruppo, ma ne era il collante, che teneva a bada l’ego letterario competitivo degli altri. Era l’organizzatore del gruppo: ne era il manager, il segretario, l’editor e il promotore; e grazie a lui, il circolo letterario divenne una congregazione, un’associazione di scrittori che si aiutavano e si sostenevano gli uni con gli altri⁹.

    La sua stessa scrittura era fortemente politica. Il suo racconto Amnistia, pubblicato nel 1934, descriveva le difficili condizioni di vita nelle carceri polacche dei prigionieri politici, i quali potevano solo sperare che il capo dello Stato li graziasse. Per far sì che i censori approvassero il racconto, Shmerke lo ambientò non in una prigione polacca, bensì in una tedesca, anche se l’ubicazione dichiarata veniva smentita da molti dettagli del testo. (Hitler non concedeva amnistie). La storia finiva con la presa di coscienza dei prigionieri che «nessuno ci avrebbe liberati». Insieme alle masse operaie, avrebbero dovuto fare da sé¹⁰.

    Quando un nuovo poeta di nome Abraham Sutzkever chiese di unirsi alla Giovane Vilnius e consegnò al circolo delle squisite poesie di carattere naturalistico perché le giudicasse, Shmerke lo ammonì: «Abrasha, questi sono tempi d’acciaio, non di cristallo». Come aveva previsto, la domanda fu rifiutata e Sutzkever venne ammesso nel gruppo solo qualche anno più tardi. In seguito, sarebbe diventato il più grande poeta yiddish del Ventesimo secolo.

    Da un punto di vista personale e poetico, Shmerke e Sutzkever erano agli antipodi: Abrasha Sutzkever era figlio di un mercante borghese e nipote di un rabbino; era un esteta: apolitico, pensoso ed egocentrico. Era un giovane uomo estremamente affascinante, con occhi sognanti e una cascata di ricci. Dato che durante la Grande guerra aveva trascorso l’infanzia in Siberia, tra i kirghisi, era avvezzo alla bellezza della neve, delle nuvole e degli alberi, e ai linguaggi esotici. Dopo la guerra, si era stabilito a Vilnius, aveva frequentato delle scuole private ed era diventato un esperto di poesia polacca. Shmerke, invece, che era stato istruito esclusivamente in yiddish, non lo era. Tuttavia, una volta che Abrasha fu ammesso alla Giovane Vilnius, i due divennero inseparabili¹¹.

    In Polonia, la repressione dei comunisti si intensificò sul finire degli anni Trenta, perché il Paese cercava di mantenersi in buoni rapporti con il vicino occidentale, la Germania nazista. L’attivismo politico di Shmerke spinse le autorità a sospettare che il suo circolo letterario altro non fosse che una cellula rivoluzionaria; pertanto, la polizia confiscò la maggior parte delle copie della rivista «Giovane Vilnius» e, verso la fine del 1936, arrestò Shmerke in quanto caporedattore. Il poeta fu processato per minaccia della pace pubblica e il suo processo consistette in una serie infinita di udienze durante le quali la Corte deliberava in merito al significato di certi versi poetici. Alla fine, con riluttanza il giudice lo scarcerò, annullando la confisca dell’ultimo numero della rivista. Mentre la Giovane Vilnius e gli amici di Shmerke celebravano la vittoria in un caffè locale, con battute e canti di gruppo, Sutzkever fece un brindisi: «Lunga vita allo shmerkismo!». Lo shmerkismo era l’abilità di superare ogni sfida con determinazione, incrollabile ottimismo e senso dell’umorismo¹².

    Paradossalmente, lo scoppio della Seconda guerra mondiale diede a Shmerke un altro motivo per festeggiare. Infatti, mentre il primo settembre del 1939 la Polonia subiva l’attacco da ovest da parte della Germania nazista e Varsavia veniva messa sotto assedio dai tedeschi, l’Unione Sovietica occupò la parte orientale della Polonia, sulla base del patto di non aggressione tra tedeschi e sovietici. L’Armata Rossa entrò a Vilnius e a molti ebrei i sovietici parvero il male minore se paragonati ai nazisti. Per Shmerke, invece, l’arrivo dell’Armata Rossa fu un sogno divenuto realtà, rappresentò l’arrivo del comunismo nella sua amata città natale. Lui e i suoi amici passarono il venerdì sera successivo a cantare, bere e sognare.

    Solo poche settimane dopo, però, i festeggiamenti di Shmerke lasciarono il posto alla delusione, perché i sovietici decisero di consegnare Vilnius all’indipendente Lituania, uno Stato capitalista e autoritario. Shmerke partì per Bialystock, una città a circa centocinquanta chilometri a sud-est di Vilnius rimasta sotto il governo sovietico, solo per poter continuare a vivere il sogno della costruzione del comunismo. Lì visse per quasi un anno, prestando servizio come insegnante e soldato. Quando i sovietici occuparono Vilnius una seconda volta, e la nominarono capitale della Repubblica Socialista Sovietica di Lituania, nel giugno del 1940, Shmerke tornò a casa, totalmente convinto che gli operai avrebbero preso il controllo delle fabbriche e che la disoccupazione sarebbe stata eliminata.

    Sorprendendo tutti, fece ritorno a Vilnius da uomo sposato. Sua moglie, Barbara Kaufman, era scappata da Cracovia quando la città era stata occupata dai tedeschi e, come Shmerke, era una comunista zelante. Per certi versi, però, era totalmente diversa da lui e dalle sue precedenti fidanzate: proveniva da una famiglia borghese, parlava impeccabilmente polacco e non conosceva le canzoni o la letteratura yiddish. Agli amici di Shmerke non piaceva molto – la ritenevano rigida e fredda – ma, d’altro canto, nemmeno lei gradiva il fatto di dover competere con tutti quei compagni per ottenere l’attenzione del nuovo marito¹³.

    Ma Shmerke era felice: era tornato a casa, tra i suoi amici, era innamorato di una donna raffinata e bellissima, ed era cittadino della società più giusta del mondo. Chi poteva chiedere di più?¹⁴

    L’ascesa di Shmerke da orfano ad autore non fu comune – suo fratello minore divenne fabbro e a stento leggeva un giornale –, ma la sua storia non fu un’eccezione a Vilnius, la città soprannominata la Gerusalemme di Lituania, dove ai libri e allo studio veniva dato massimo rispetto. Istituzioni come la Talmud Torah e la scuola serale Peretz trasformarono molti ragazzini di strada in avidi lettori. Nel caso di Shmerke, però, il legame con i libri andava molto più in profondità: si rese conto, infatti, che i libri l’avevano salvato da una vita di crimine e disperazione; pertanto, il minino che potesse fare era ripagare loro il favore e salvarli dalla distruzione quando se ne presentò la necessità.

    ____________________________________________

    ¹ Ci sono due eccellenti saggi in lingua inglese su Kaczerginski. Justin Cammy, Young Vilnius: Yiddish Culture of the Last Generation (Bloomington, Indiana University Press, in corso di pubblicazione), cap. 2; e l’articolo di Bret Werb, Shmerke Kaczerginski: The Partisan Troubadour, in «Polin» 20 (2007), pp 392-412.

    ² Yom Tov Levinsky, Nokh der mite fun mayn talmid, in Shmerke Kaczerginski ondenk-bukh, 96; Yankl Gutkowicz Shmerke, in «Di Goldene keyt» 101 (1980), p. 105.

    ³ Mark Dworzecki, Der kemfer, der zinger, der zamler, in Shmerke Kaczerginski ondenk-bukh, p. 57.

    ⁴ B. Terkel, Der ‘fliendiker vilner, in Shmerke Kaczerginski ondenk-bukh, pp. 79-80; il testo della prima canzone famosa di Shmerke è trascritto in Shmerke Kaczerginski ondenk-bukh, pp. 229-30.

    ⁵ Chaim Grade, Froyen fun geto, in Tog-morgen zhurnal (New York), 30 giugno 1961, p. 7.

    ⁶ Gutkowicz, Shmerke, pp. 108-9.

    ⁷ Grade, Froyen fun geto, 30 giugno 1961.

    ⁸ Elias Schulman, Yung vilne (New York, Getseltn 1946), p. 18.

    ⁹ Daniel Charney, Ver zenen di yung vilnianer?, in «Literarishe bleter» (Varsavia) 14, 26 febbraio 1937, p. 135; Schulman, Yung vilne, p. 22.

    ¹⁰ Shmerke Kaczerginski, Amnestye, «Yung-vilne» (Vilnius) 1 (1934), pp. 25-28.

    ¹¹ Shmerke Kaczerginski, Mayn khaver Sutzkever (tsu zayn 40stn geboyrn-tog), in Shmerke Kaczerginski ondenk-bukh, pp. 311-12.

    ¹² Si veda Cammy, Young Vilnius, cap. 2; e Krinsky-Melezin, Mit shmerken, p. 131.

    ¹³ Shmerke Kaczerginski, Naye mentshn, in «Vilner emes» (Vilnius), 30 dicembre 1940, p. 3; Shmerke Kaczerginski, Dos vos iz geven mit bialistok vet zayn mit vilne, in «Vilner emes» (Vilnius), 31 dicembre 1940, p. 3. Per informazioni sul suo matrimonio con Barbara Kaufman, vedi Chaim Grade, Froyen fun geto, 30 giugno 1961, e Shmerke Kaczerginski, Khurbn vilne (New York, cyco 1947), p. 256.

    ¹⁴ Dov Levin, Tekufah Be-Sograyim, 1939-1941 (Gerusalemme, Università ebraica istituto per l’ebraismo contemporaneo e per il movimento kibbutz, 1989), pp. 139-41.

    Capitolo 2

    La città dei libri

    Shmerke Kaczerginski adorava mostrare con orgoglio la propria città agli scrittori e agli intellettuali ebrei in visita da Varsavia e New York; qualche volta si presentava senza essere annunciato alla loro soglia o alla loro camera d’albergo offrendosi di accompagnarli per un tour dei luoghi d’interesse. Vilnius aveva 193.000 abitanti, il 28,5 per cento dei quali erano ebrei. Per numero, quella di Vilnius era la quarta comunità ebraica della Polonia (dopo Varsavia, Lodz e Leopoli), ma culturalmente era la capitale dell’ebraismo dell’Europa dell’Est, la Gerusalemme di Lituania¹.

    La leggenda narrava che Vilnius si fosse conquistata quel nobile titolo nel Diciassettesimo secolo, quando aveva chiesto di diventare membro del Concilio delle comunità ebraiche lituane. Le più antiche comunità di Grodno, Brest e Pinsk le rifiutarono un posto al proprio tavolo, considerandola una giovane parvenu, piccola e non degna di nota. Per tutta risposta, i capi della comunità di Vilnius scrissero una lettera appassionata nella quale dichiaravano che 333 dei suoi residenti conoscevano l’intero Talmud a memoria. I redattori della missiva sottolinearono l’importanza simbolica del numero; in ebraico, le lettere dell’alfabeto corrispondono a un numero (Alef è 1, Bet è 2 ecc.), e 333 era l’equivalente in numero della parola neve, sheleg. Vilnius, scrissero, era pura e immacolata quanto una fresca coltre di neve bianca.

    I membri del Concilio rimasero sbalorditi e si vergognarono; le loro comunità avevano a malapena una dozzina di studiosi che conoscevano il Talmud a memoria. Uno dei rabbini si alzò e dichiarò: «Vilnius deve essere ammessa nel Concilio. È la Gerusalemme di Lituania»².

    Prima di iniziare il suo tour dei luoghi di interesse, Shmerke dava qualche basilare nozione di storia ai suoi ospiti americani: Vilnius era situata tra Varsavia e San Pietroburgo (Leningrado) ed era stata governata per gli ultimi quattrocento anni dai russi o dai polacchi. Nel medioevo, però, Vilnius, era stata la capitale del Granducato di Lituania, un grande Stato che si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero e includeva gran parte della Bielorussia, della Polonia e dell’Ucraina. Gli abitanti della città furono gli ultimi pagani su suolo europeo, prima di convertirsi al cattolicesimo nel 1387, e parlavano in lituano, una lingua non slava connessa al sanscrito.

    Poi gli Stati confinanti con la Lituania iniziarono a espandersi e a prendere il sopravvento: il Granducato divenne parte della Polonia nel 1569, subendo l’influsso della lingua e della cultura polacche. Vilnius divenne Wilno, sede di un’università e di un centro di stampa polacchi. I russi conquistarono la regione nel 1795, durante l’ultimo stadio dello smembramento della Polonia, e la città divenne Vil’no, una capitale di provincia nell’angolo nord-occidentale dell’impero zarista. Le autorità imposero il russo come unica lingua d’istruzione nelle scuole e trasformarono molte chiese cattoliche in russe ortodosse. Dopo centoventicinque anni di dominio russo, quando le acque si calmarono alla fine della Prima guerra mondiale, la città ritornò alla Polonia.

    Durante tutti questi passaggi di potere, gli ebrei continuarono a chiamare la regione Lituania; e Vilnius, la sua Gerusalemme.

    Shmerke iniziava il suo stravagante tour dalla cattedrale, l’epicentro della città, situato vicino alle rive del fiume Vilnia; l’imponente struttura gotica sorgeva nel punto esatto in cui i lituani avevano abbracciato il cattolicesimo e si erano battezzati nel fiume. Infatti, avevano demolito il loro tempio pagano e costruito la cattedrale sulle sue rovine.

    Shmerke indicava le figure dei santi che decoravano l’esterno della cattedrale, inclusa, sulla facciata accanto all’ingresso, un’immagine a grandezza naturale di Mosè con una lunga barba e le corna, che reggeva i Dieci Comandamenti. L’insolito rilievo dato a Mosè all’entrata della chiesa fece circolare una leggenda tra gli ebrei di Vilnius: l’architetto italiano che aveva progettato la cattedrale era stato un ebreo convertito. Dopo aver scolpito la figura di Mosè, l’artista aveva annunciato la propria intenzione di scolpire un’ultima statua raffigurante il Signore in persona. Tuttavia, proprio quando aveva iniziato a lavorare sull’ambiziosa immagine, una tempesta improvvisa si era abbattuta sulla città e aveva fatto cadere l’artista dall’impalcatura, provocandone la morte sul colpo. La statua di Mosè l’aveva guardato con rabbia dall’alto verso il basso, con le dita che puntavano al secondo comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna»³.

    A Vilnius, persino la cattedrale vantava una storia ebraica.

    Da lì, Shmerke accompagnava il proprio ospite lungo la via Wilenska, un’affollata strada commerciale piena di negozi ebraici e polacchi: rivendite di elettrodomestici, maglierie, farmacie, sartorie di lusso, e studi di dentisti. Al suo passaggio, indicava il Teatro Helios, dove nel 1921 era andato in scena per la prima volta il più famoso dramma yiddish, Il Dybbuk di S. An-Ski, e gli uffici del «Giorno» («Der Tog»), il giornale giudeo più rispettato della città.

    Shmerke proseguiva fino a raggiungere via Niemiecka e i vicoli stretti, tortuosi dell’antico quartiere ebraico che la intersecavano. Gli ebrei si erano stanziati lì all’inizio del Sedicesimo secolo, e nel 1551 il re polacco Sigismondo Augusto ii aveva emanato uno statuto reale che specificava le tre strade lungo le quali era loro permesso vivere. In una di queste, chiamata via Zydowska (via degli Ebrei), nel 1572 costruirono una sinagoga che si ampliò fino a diventare la Sinagoga Grande o, in yiddish, la shtot-shul.

    Visto dall’esterno, l’edificio della sinagoga non spiccava in modo particolare, specialmente se paragonato alla cattedrale; era alto solo quattro piani, perché un decreto reale stabiliva che le sinagoghe dovessero essere più basse delle chiese locali. Tuttavia, una volta entrati, i visitatori scendevano una rampa di scale e, dal piano terra, alzavano lo sguardo e rimanevano ammaliati dalle colonne di marmo, dal mobilio di quercia, dalle decorazioni d’avorio, dagli ornamenti d’argento e dai candelabri. L’Arca Santa era ricoperta da un drappo di seta con ricami d’oro.

    Si narra che Napoleone sia rimasto a bocca aperta visitando la Sinagoga Grande nel 1812, e che si sia bloccato sulla soglia ad ammirarla.

    Il tetto della shtot-shul recava una macchia nera che, racconta la leggenda, risaliva alla rivolta di Kosciuszko del 1794, un tentativo fallito di ripristinare il dominio polacco dopo la quasi totale occupazione russa. Mentre per le strade di Vilnius infuriava la battaglia tra i conquistatori russi e i ribelli polacchi, gli ebrei si radunarono nella Sinagoga Grande e pregarono per ottenere la protezione di Dio. Una palla di cannone colpì il tetto dell’edificio, ma non esplose, rimanendovi bloccata all’interno. Più di un secolo dopo, i membri della congregazione della Sinagoga recitavano ancora, con cadenza annuale, preghiere di ringraziamento nel giorno di quel miracolo⁴.

    A quel punto, Shmerke portava l’ospite a fare una passeggiata nel cortile della sinagoga, il shulhoyf, e gli indicava la dozzina di case di preghiera e di studio più piccole, chiamate kloyzn, che ne occupavano gran parte dello spazio. Su uno dei muri del cortile era esposta una serie di otto orologi con delle lettere ebraiche sul quadrante, le quali mostravano gli orari delle preghiere, dell’accensione delle candele del venerdì sera, e della fine dello Shabbat. Agli orologi divenne un luogo di incontro per i membri della congregazione, per i passanti e per i mendicanti; il muro, inoltre, era tappezzato di avvisi pubblici⁵.

    Nonostante la Sinagoga Grande fosse il luogo storico più famoso di Vilnius, non era però anche quello più venerato; quel titolo spettava a un edificio che si ergeva dall’altra parte del cortile: la casa e sinagoga del Gaon di Vilnius, o del genio, ovvero il rabbino Elijah, figlio di Solomon Zalman (1720-1797), santo patrono della comunità e suo eroe culturale.

    Il solitario rabbino Elijah era noto per la sua totale immersione nello studio dei libri sacri, al punto da escludersi virtualmente da qualsiasi altra attività; teneva persino le persiane delle finestre chiuse per evitare di essere distratto dalla vista e dai suoni provenienti dalla strada. Dormiva pochissimo e raramente lasciava casa sua per avventurarsi all’esterno. Sebbene vivesse a qualche passo soltanto dalla Sinagoga Grande, non vi si recava mai. Aveva invece istituito nella sua stessa dimora una casa di preghiera privata, una kloyz, e invitava un gruppo di discepoli a pregare con sé. Dopo la sua morte, i discepoli continuarono a studiare e pregare in quel luogo, prima di cedere il posto alla successiva generazione di studiosi.

    A differenza di qualsiasi altra sinagoga di Vilnius, la kloyz del Gaon non aveva una sezione per le donne e le sue funzioni erano alquanto peculiari, dal momento che seguivano una serie di pratiche liturgiche stabilite dal rabbino Elijah, diverse dal rito standard dell’Europa dell’Est. Quando ai visitatori fu permesso per la prima volta di prendere parte alle sue funzioni, alla fine del Diciannovesimo secolo, rimasero confusi dall’ordine delle preghiere.

    Il punto focale della kloyz del Gaon era la placca posta lungo il muro meridionale che contrassegnava il luogo in cui il rabbino Elijah era rimasto seduto a studiare la Torah per quarant’anni. Sopra la placca era appesa una luce eterna, un oggetto che solitamente si trovava davanti al santuario, sopra l’Arca Santa. Tuttavia, la sinagoga in questione aveva due luci eterne: una sopra l’Arca, e la seconda sopra il luogo del Gaon, lungo il muro destro. Sotto la placca, la parete presentava una protuberanza a forma rettangolare, simile a un leggio o a un pulpito, che proteggeva la postazione di studio del rabbino Elijah. Infatti, tale protuberanza non era solamente un monumento, ma anche una barriera che impediva a chiunque di sedersi al posto del rabbino Elijah⁶.

    Nel 1918, uno storico locale fece notare che «la kloyz del Gaon suscita paura e stupore. Quando entri e vedi gli studiosi del Talmud con le loro barbe grigie, sembra che lo spirito del Gaon aleggi ancora nell’aria». Una guida aggiunse: «La kloyz del Gaon è la gemma e la corona della Gerusalemme di Lituania»⁷.

    Il rabbino Elijah simboleggiava l’ethos della comunità, che considerava il libro il valore supremo della vita ebraica. Quando gli ebrei europei immaginavano la Gerusalemme di Lituania, non pensavano a una sinagoga, a una statua o a un monumento, ma a un enorme volume in folio del Talmud con la parola Vilnius scritta a grandi lettere in grassetto in fondo alla copertina. L’autore yiddish Sholem Asch ricordava che da bambino, quando si era avvicinato allo studio del Talmud, aveva avuto la certezza che l’antica opera magna del giudaismo non solo era stata stampata, bensì anche scritta a Vilnius.

    A quel punto del tour, dopo la cattedrale, la Sinagoga Grande e la kloyz del Gaon, Shmerke probabilmente era un po’ stufo di mostrare monumenti religiosi; del resto, era tutto meno che pio e non si recava mai alla sinagoga, se non per mostrarla ai turisti. Perciò non gli dispiaceva affatto che la tappa successiva fosse un luogo in cui si sentiva totalmente a casa: la biblioteca della comunità ebraica.

    Essa prendeva il nome dal suo fondatore, Mattityahu Strashun, un ricco uomo d’affari, studioso e bibliofilo, che, quando morì nel 1892, lasciò in eredità alla comunità ebraica la sua collezione privata di libri, la quale comprendeva cinque incunaboli ebraici (libri stampati prima del 1501), molte stampe del Sedicesimo secolo provenienti da Venezia (il primo grosso centro di stampa ebraico), e altre rarità. Dopo la morte di Strashun, divenne di moda tra l’élite ebraica di Vilnius lasciare in eredità i libri alla comunità, così la biblioteca crebbe a passi da gigante.

    Il Consiglio della comunità decise di costruire un edificio che ospitasse la biblioteca nel cuore storico della Vilnius ebraica, dentro lo shulhoyf adiacente alla Sinagoga Grande; in effetti, vi era un messaggio implicito nella scelta dell’ubicazione: la biblioteca sarebbe stata considerata un santuario intellettuale. Con un altro atto rilevante, il Consiglio decise di tenere la biblioteca aperta sette giorni su sette, anche nel giorno di Shabbat e durante le feste ebraiche. In quei giorni, però, secondo il regolamento della biblioteca non si poteva scrivere né prendere appunti nella sala di lettura. Leggere e studiare erano parte integrante della vita, non esistevano giorni liberi da quelle attività.

    Negli anni Trenta del Ventesimo secolo, la collezione era cresciuta tanto da contenere quarantamila volumi.

    La biblioteca Strashun serviva da centro intellettuale della Vilnius ebraica; spesso c’era una fila di persone in attesa di occupare uno dei cento posti a sedere disposti lungo i tavoli rettangolari. Di sera, i lettori più giovani sedevano sui davanzali delle finestre o si appoggiavano alle pareti. La biblioteca era il luogo d’incontro delle tendenze vecchie e nuove della vita ebraica: da un lato, vi erano i rabbini con la barba, dall’altro, giovani pionieri laici con fazzoletti blu o rossi al collo.

    Shmerke trascorse molte serate dopo il lavoro a leggere i testi della letteratura yiddish e internazionale in quell’edificio; scrisse persino un articolo per il quarantacinquesimo anniversario della biblioteca dal titolo Polvere che rinfresca⁸.

    Quasi altrettanto famoso della biblioteca era il bibliotecario, Chaikl Lunski, che fungeva al contempo da assistente di ricerca, banco prestiti, direttore delle acquisizioni, conservatore e addetto alle pulizie. Il barbuto Lunski era una presenza fissa nella Vilnius ebraica e faceva da ponte tra i divari interni alla comunità. Era un uomo religioso, che si assentava dal lavoro nel pomeriggio per andare a pregare nella Sinagoga Grande, ma era anche un amante della letteratura ebraica e yiddish moderna; inoltre, trattava ogni poeta in visita come se lui, o lei, fosse un vip. Lunski era un fervente sionista e sognava di lavorare un giorno in una biblioteca di Gerusalemme, ma era anche in buoni rapporti con i socialisti. All’inizio del Novecento, per conto della biblioteca si procurò alcuni pamphlet rivoluzionari illegali, come la brochure del Bund Abbasso l’Autocrazia!, e li nascose nelle viscere degli scaffali della biblioteca. Quando la polizia zarista seppe che la biblioteca conservava della letteratura sovversiva, ne minacciò la chiusura.

    Sebbene Lunski non avesse compiuto studi specifici per diventare biblioteconomo – non esisteva nemmeno un catalogo fino alla fine degli anni Venti – compensava ampiamente tale mancanza con la sua erudizione e il suo personale calore nei confronti dei libri e dei lettori. «Conosceva a memoria i titoli di tutti i volumi della biblioteca e la loro ubicazione sugli scaffali, come qualcun altro ricorda l’indirizzo di casa dei suoi più cari amici», raccontava un lettore. Le persone lo amavano e lo chiamavano il guardiano della Gerusalemme di Lituania⁹.

    Dopo aver salutato la biblioteca, Shmerke probabilmente avrebbe invitato il turista in questione a mangiare un boccone al ristorante di Volf Usian, generalmente noto come il Velfke. Situato all’angolo tra la via Niemiecka e la via Zydowska, il Velfke era il luogo d’incontro preferito dagli ebrei bohémien di Vilnius, perché era aperto tutta la notte. La gente scherzava sul fatto che il Velfke iniziasse a risvegliarsi e animarsi quando l’ultimo studioso di Talmud lasciava il cortile della sinagoga per andare a letto. Il ristorante offriva la migliore cucina ebraica della città e porzioni abbondanti: paté di fegato, polpette di pesce, arrosto d’anatra.

    Il Velfke era costituito da due sale: quella anteriore, con un bar, era utilizzata da cocchieri, delinquenti locali e affiliati della malavita ebraica di Vilnius; quella posteriore, invece, era frequentata da coppie e da artistoidi come attori, scrittori, intellettuali e i loro amici vip. Qualche volta, quando uno scrittore povero non poteva permettersi di saldare il conto, un criminale della malavita seduto al bar pagava per lui.

    Nella stanza sul retro, la radio trasmetteva della musica e c’era una pista da ballo; il proprietario, Velfke, dava a tutti i clienti un caloroso benvenuto, mentre svolazzava tra le due sale.

    Il più famoso cliente abituale del Velfke era l’appariscente attore yiddish Abraham Morewski, che si era fatto un nome recitando la parte del rebbe chassidico di Myropil nel Dybbuk. Morewski era solito cenare al Velfke dopo ogni spettacolo. Era un gigante con un grande appetito – e con un ego ancor più grande – ed era solito ordinare cinque o sei portate principali che attaccava come un lupo affamato. Si diceva che Morewski pagasse i pasti al Velfke un tanto all’ora, non un tanto a piatto.

    Se si visitava Vilnius e non si andava al Velfke, praticamente non si poteva dire di aver visto la città¹⁰.

    Dopo la pausa, Shmerke cambiava tono per mostrare le moderne istituzioni culturali ebraiche di Vilnius. Percorreva la via Niemiecka, svoltava a destra in via Rudnicka e indicava il Real-Gymnasium yiddish e l’Istituto musicale ebraico, che avevano in comune un ampio cortile. Il Real-Gymnasium era la migliore scuola superiore ebraica di Vilnius e una delle poche scuole in Polonia che insegnassero chimica e fisica avanzate in yiddish. L’istituto musicale offriva l’insegnamento di vari strumenti e lezioni di canto, concentrandosi sulla musica classica; inoltre, metteva in scena alcune opere in yiddish, quali La traviata, la Carmen, la Tosca, la Madama Butterfly e l’Aida.

    Proseguendo oltre, attraversando via Zawalna per arrivare in via Kwaszelna, si approdava alla tipografia e alla redazione dell’editore Kletzkin, la più prestigiosa casa editrice yiddish del mondo; il suo fondatore e direttore, Boris Kletzkin, negli anni Novanta del Diciannovesimo secolo aveva stampato molta letteratura clandestina per il principale partito socialista, il Bund. Aveva inoltre progettato una macchina per la stampa che poteva essere nascosta dentro la struttura di un tavolo da pranzo appositamente costruito. Quando fu proclamata la libertà di stampa nell’impero russo, nel 1905, Kletzkin decise di agire in modo legale e di aprire un’attività commerciale, anche se non perse mai la sua dedizione idealistica nei confronti dei libri, considerati un mezzo per migliorare il mondo. Non guastava nemmeno il fatto che Kletzkin non avesse bisogno di preoccuparsi del denaro: si era costruito un impero come immobiliarista e, tramite lo sfruttamento delle foreste, come commerciante di legname, attività, queste, che aveva ereditato dal padre.

    L’editore Kletzkin si distinse per le raccolte di alta qualità, come le opere selezionate di I.L. Peretz, il padre della letteratura yiddish moderna, edite in diciannove volumi. Kletzkin fu l’erede del Ventesimo secolo dell’editore Romm di Vilnius, che pubblicò l’edizione classica in venti volumi del Talmud, conosciuta come la Vilnius Shas. Kletzkin, inoltre, diffuse con traduzioni di altissima qualità i lavori di grandi autori europei quali Maksim Gor’kij, Charles Dickens, Thomas Mann, Knut Hamsun e Romain Rolland. Come se non bastasse, si occupava anche di pubblicare manuali accademici: la classica storia del chassidismo di Simon Dubnow (tradotta dall’ebraico) e La guerra giudaica di Giuseppe Flavio (tradotta dal greco antico).

    Nel 1925, Kletzkin spostò il quartier generale del suo impero editoriale a Varsavia e convertì la sede di Vilnius in una succursale operativa. Tuttavia, la stamperia continuò a chiamarsi la casa editrice di Boris Kletzkin di Vilnius, in omaggio alle sue radici. Molti amanti della letteratura si confondevano quando aprivano un libro e vedevano sulla

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