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CE: Quando l'amore non ha confini
CE: Quando l'amore non ha confini
CE: Quando l'amore non ha confini
E-book372 pagine5 ore

CE: Quando l'amore non ha confini

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Info su questo ebook

Nell'Italia lacerata dalle convulsioni belliche seguite all’otto settembre, il Capitano Rudolf Jacobs, requisisce Villa Rezzola, una magnifica villa rinascimentale sulle alture di Lerici, per stabilirvi il quartier generale della Organisation Todt. Dovendo gestire manovalanza locale per la realizzazione delle infrastrutture militari, cerca un’interprete, ma nella zona non è facile trovare persone disposte a lavorare per i nazisti. Cesarina, detta Ce, si è appena laureata in tedesco e inglese all’Orientale di Napoli e cerca lavoro per aiutare la famiglia. I loro destini si intrecciano quando uno zio partigiano convince Cesarina a farsi assumere come interprete e infermiera all’ospedale da campo interno alla Villa, potendosi così infiltrare nel comando tedesco. La missione segreta di trafugare i piani militari del Vallo Ligure e delle propaggini spezzine della Linea Gotica viene svolta da Cesarina con lo stesso zelo dei suoi impegni ufficiali, e questo suo temerario doppio gioco la coinvolgerà sentimentalmente col Capitano. Ma la guerra ha in serbo per i due molte drammatiche vicissitudini che troveranno degno epilogo solo molti anni dopo.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita4 dic 2023
ISBN9791254584484
CE: Quando l'amore non ha confini

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    Anteprima del libro

    CE - Marco Secondo

    NOTE DELL’AUTORE

    In questo romanzo i personaggi principali sono tutti realmente vissuti ma sono calati nei fatti storici con un pizzico di fantasia.

    Si ringraziano:

    Giovanna, che mi ha acceso la scintilla, ultima preziosa testimone.

    La Contessa Pupa Carnevale, la cui narrazione dei fatti storici vissuti che la riguardavano mi ha illuminato il cammino, purtroppo se n’è andata anzitempo.

    Gianni, ultimo prezioso testimone.

    Emanuela attenta correttrice di bozze.

    Selene, la formattatrice.

    Paolo, che ha sempre da dire la sua.

    Susi, Vittoria, Valentina, Mino, e chiunque mi abbia aiutato e/o sopportato.

    Margarete Wösthoff, per la ricerca e i ricordi

    gliarchividellaresistenza.it

    E soprattutto Eleonora, senza la cui pazienza non avrei potuto fare nulla.

    Un ringraziamento particolare va a Luigi Monardo Faccini: alcuni degli avvenimenti da me narrati sono ispirati a episodi tratti dal suo romanzo L'uomo che nacque morendo.

    PREFAZIONE

    «Marco, ma sei scemo? La Ce lavorava per i tedeschi ma passava le informazioni ai Partigiani. Per questo non è stata perseguitata nel dopoguerra!»

    Questa lapidaria testimonianza di Giovanna, ultima cugina vivente di mia madre Cesarina detta Ce, è stato l’inizio di tutto.

    Da quel giorno non mi sono più dato pace: perché mia madre non era stata perseguitata?

    Era una domanda ovvia che avrebbe dovuto venirci in mente quando era ancora in vita, ma perché in tutti questi anni nessuno di noi figli gliela aveva mai posta?

    Perché lei non aveva mai raccontato nulla?

    Perché nel paese dei nonni, Pugliola, non voleva mai avere a che fare con la bellissima Villa Cochrane e impediva a noi bambini persino di spiare dal cancello?

    Eppure, ci raccontavano che quella Villa era stata costruita dal nostro bisnonno: allora perché dovevamo " evitarla" come la peste?

    Perché nessuno di noi figli sapeva che avesse avuto dei rapporti coi Partigiani?

    Perché, a parte Giovanna, nessuno dei numerosissimi parenti coi quali eravamo stati in strettissimi rapporti, aveva mai accennato ai trascorsi bellici di famiglia e di nostra madre?

    Tante domande, pochissimi testimoni ancora in vita e molto anziani, troppo tempo passato: difficile trovare risposte.

    E poi ancora altre domande a cui dovevo trovare un senso.

    Chi erano quegli " amici" tedeschi che ci facevano visita nel dopoguerra?

    Che rapporti aveva avuto il bisnonno e, di conseguenza mia madre, con la famiglia Cochrane?

    Cosa faceva mia madre al " revier", l’infermeria tedesca allestita nella Villa nei pressi della spiaggia della Venere Azzurra?

    Che rapporti aveva avuto col Capitano Rudolf Jacobs che comandava la Villa durante l’occupazione nazista, visto che il " revier" era all’interno della Villa?

    Perché si vantava di essere andata qualche volta in bicicletta fino ad Aulla alla fortezza della Brunella in tempo di guerra?

    Cosa ci andava a fare se anche la Brunella era occupata dai tedeschi?

    E perché si vantava di essere stata qualche volta trainata dalle camionette dai tedeschi da Carrara a Sarzana?

    Come era possibile? E cosa ci andava a fare a Carrara in bicicletta?

    Come faceva in tempo di guerra a circolare liberamente in bicicletta nei territori occupati?

    Aveva un lasciapassare?

    Perché ogni volta che passavamo nei pressi di Stazzema le veniva un magone che era qualcosa di più personale che il solo ricordo della strage di cui tutti avevamo contezza?

    Chi erano i tedeschi che vivevano in casa dei nonni a Pugliola durante la guerra?

    Cosa ci facevano?

    Perché mia madre raccontava che mentre in una stanza dormivano i tedeschi nell’altra la zia Caterina preparava le stellette per i Partigiani col rischio di fare fucilare tutta la famiglia?

    Due sole vere " avventure" di guerra vissute da lei ci aveva raccontato: questa delle stellette e la tragica morte di Caterina e Angelo mentre cercavano di barattare il caffè imboscato dal nonno con la farina su per il passo della Cisa.

    Ma per tutto il resto… nebbia assoluta.

    Ma non mi sono perso d’animo e la mia curiosità alla fine è stata premiata: ho incominciato a rovistare nelle carte di casa, nei documenti online, e nella memoria mia e di tutti quelli che in qualche modo avevano avuto a che fare con lei, a leggere libri e saggi relativi alla guerra e alla Resistenza nello spezzino. Alla fine, le sorprese non sono mancate e sono riemersi molti piccoli episodi e dettagli che avevano solo bisogno di essere ricollegati in una narrazione unica.

    Ma il fatto più straordinario è avvenuto quando ormai il romanzo era completato con tutte le mie supposizioni che avevano riempito le carenze di informazioni certe.

    Mentre rovistavo in una cantina di famiglia alla ricerca di documenti relativi a una nostra proprietà, mi sono imbattuto in un classificatore che giaceva sepolto e di cui non conoscevo l’esistenza, così etichettato: IBM – Espedito.

    Espedito, mio padre, aveva lavorato nel dopoguerra per l’IBM e lì aveva incontrato mia madre che era la segretaria del direttore. Preso dalla curiosità, anche se in quel momento ero alla ricerca di tutt’altro, l’ho aperto e, oltre a molti tabulati elettronici e schede perforate, c’erano alcune foto che lo ritraevano insieme al direttore e a mia madre e una busta chiusa, anonima.

    Quando l’ho aperta insieme a mia figlia per poco non mi è venuto un colpo: all’interno c’erano due lasciapassare di mia madre del tempo di guerra, la fascia da crocerossina che doveva portare per farsi riconoscere e una lettera dattiloscritta in tedesco nella quale mia madre chiedeva al Comando Nazista della Spezia, per il quale evidentemente fino ad allora aveva lavorato (nulla si sapeva in proposito), di essere trasferita alla Villa Cochrane dove aveva trovato lavoro presso la O.T. come interprete, perché " percorrere tutti i giorni venti chilometri in bicicletta da Pugliola a Spezia era diventato oltremodo pesante". Tutte le mie supposizioni avevano trovato un riscontro documentale: in particolare il lavoro come interprete per il Capitano Jacobs e i lasciapassare.

    Quale incredibile fortuita coincidenza mi aveva portato a scoprire dopo settant’anni quei documenti, così ben nascosti in un posto dove mai nessuno li avrebbe cercati e che avrebbero facilmente potuto essere buttati nella spazzatura?

    E perché proprio dopo essermi interessato alle vicende di mia madre e dopo averne fatto un romanzo dove la mia fantasia aveva inventato situazioni che ora trovavano un reale riscontro documentario?

    Era stato il fato?

    Io non credo alle coincidenze: qualche strano arcano mi si era disvelato per volontà ignota. Chi devo ringraziare per questo?

    PRIMA PARTE – Prologo

    Cesarina 1. Lo Scoppio

    Sono sopravvissuta allo Scoppio di Falconara. Un segno del destino: la vita doveva avere in serbo per me sicuramente grandi cose.

    Era una notte buia e tempestosa, sì, proprio così, i miei genitori si erano appena sposati e, da poco più di un anno, vivevano nella casa che il nonno, noto costruttore, aveva predisposto per la famiglia. Ricordo una casa grande e moderna, solida e confortevole, che dominava la piazza del paese, proprio di fronte alla Chiesa. Un privilegio che un tempo era riservato solo ai nobili: potere spirituale da una parte e potere temporale di fronte.

    La mia famiglia era allora la più benestante del piccolo paese: mio nonno non solo era il costruttore e il capomastro di fiducia della Contessa Helen Lavinia Cochrane, moglie di Sir William Percy Cochrane, innamorata del Golfo dei Poeti e grande benefattrice del luogo, ma era chiamato, per la sua fama, da tutti i signori della zona per costruire magnifiche ville.

    Era davvero una notte buia e di terribile tempesta quella del ventotto settembre 1922 quando alle 02:52 un fulmine colpì la santabarbara della fortezza di Falconara. Lo Scoppio, perché per tutti gli abitanti della zona, negli anni successivi, quello scoppio divenne " Lo Scoppio", fu talmente mostruoso che volarono massi grandi come carriole fino al nostro paesino, che in linea d'aria dista un paio di chilometri: uno lo conserviamo ancora nell'orto e fa da primo gradino alla scala.

    Una tragedia inenarrabile, centinaia di morti, paesi distrutti, un lutto nazionale e qualcosa di così terribile che si radicò per sempre nella memoria collettiva come solo un evento luttuoso e drammatico del genere può fare.

    Ma io mi salvai.

    Il mio lettino stava sotto la finestra e tutti i detriti e i vetri mi caddero addosso, ma ne uscii indenne senza neanche un graffio.

    Nulla avrebbe potuto nuocermi dopo di allora.

    Cesarina 2. I Cochrane

    Esattamente un mese dopo quel fatidico ventotto settembre, un altro avvenimento di portata internazionale avrebbe cambiato la storia del Paese, in questo caso inteso come Italia, influenzando poi anche quella del mio piccolo paesino mai assurto all'onore delle cronache, modificandone non marginalmente il futuro.

    La vita però al momento scorreva placida e tranquilla nel borgo, che in quegli anni visse un impetuoso sviluppo economico.

    Tutto è proporzionato alla realtà dei luoghi, ma proprio per questo gli eventi che accaddero negli anni precedenti e successivi alla mia nascita, rappresentarono un'insolita accelerazione nel normale evolversi di una frazione periferica di un Comune non centrale della Liguria.

    Tutto grazie alla famiglia di nobili inglesi Cochrane, le cui vicende si sarebbero indissolubilmente legate alla mia vita negli anni a venire. Già da anni, infatti, mio nonno Angelo lavorava per loro e in casa nostra si respirava un'atmosfera di internazionalità che, a quei tempi, era sicuramente appannaggio esclusivo di classi ben più privilegiate della nostra.

    Fino a prima dell'arrivo dei Cochrane la mia famiglia era solo una delle tante, modeste e normali famiglie che si potevano trovare in tutti i paesini del nord Italia. Solo forse un poco più fortunata della media, grazie alle grandi abilità di costruttore del nonno.

    Fu così che venne chiamato da Sir Percy William Cochrane per adeguare alle sofisticate esigenze di un Lord inglese, la magnifica Villa Rèzzola, appena acquistata ai piedi del paese. Una proprietà molto vasta, affacciata sul Golfo dei Poeti, con la Villa padronale di origini rinascimentali, scuderie e alloggi della servitù ai margini del borgo, e un immenso parco che si estendeva della collina del paese fino al mare, con tanto di accesso alla bianchissima spiaggia della Venere Azzurra e numerose case coloniche all'interno della sua cinta muraria.

    Fu così che nacque un magnifico sodalizio, che avrebbe portato benessere alla mia famiglia e una reale prosperità a tutto il paese di cui i Cochrane si innamorarono fin dal primo momento. Sir William si diceva avesse accumulato enormi ricchezze grazie alle miniere di carbone e alle acciaierie della sua famiglia e poi le avesse moltiplicate in terre lontane viaggiando e commerciando. Ma una volta capitato nel Golfo dei Poeti ne restò folgorato al punto da stabilirvisi intorno al 1900. O forse fu proprio lei, Lady Lavinia, così passionale e romantica, a restare incantata dalla bellezza del posto, dalla Villa e dal sole italiano, a decidere di passare il resto della sua vita nel nostro paesino. Sicuramente fu lei, anche se le cronache un po' maschiliste dell'epoca magnificano sempre e solo Lord Cochrane, a prodigarsi per rendere quell'agglomerato di case in cima alla collina dietro Lerici, un villaggio moderno. Forse per un'innata gratitudine verso la bellezza del luogo che così magnificamente l'aveva accolta, spese, letteralmente, una fortuna per realizzare opere pubbliche che avrebbero completamente cambiato la sua fisionomia. In primis fu la strada che collegò l'ingresso principale della Villa, dalla Via Militare, oggi una panoramica di mezza costa nella cornice del Golfo dei Poeti, al piazzale della Chiesa di Santa Lucia. Circa trecento metri di strada carrabile che avrebbero reso più semplice la vita a tutti i paesani.

    Il paese, infatti, fino ad allora era un tipico borgo ligure di crinale, sorto lungo la stretta crosa che collegava da tempo immemorabile Lerici con il castello di Trebiano, sovrastante la piana di Sarzana. Un borgo popoloso di casette e viottolini che dalla crosa principale si diramano sulle due pendici della collina, e che prima non era accessibile neanche a una carrozza.

    Ma Lady Cochrane viaggiava su una magnifica Rolls Royce decapottabile e dalla sua Villa mica poteva andare fino in piazza a piedi!

    Insieme alla strada, il primo e più significativo intervento nel Paese, costruita prima della Grande Guerra, fu la volta dei lavatoi e dei truogoli coperti che, oltre a facilitare a tutte le donne i gravosi lavori domestici, costituirono un magnifico luogo di ritrovo per i ragazzini del paese.

    E per alimentare i lavatoi fu necessario realizzare anche un nuovo acquedotto che portò l'acqua, oltre che ai lavatoi, anche alle fontane del paese, la più importante delle quali fu installata proprio nella Piazza della Chiesa, di fronte a casa mia, e aveva l'aspetto di una piccola pagoda, perché era protetta da una copertura orientaleggiante.

    Una volta realizzata la strada, sempre prima della guerra, fu la volta del grande Asilo pubblico, edificato proprio nella Piazza della Chiesa, anch'esso nei pressi di casa mia. Una bellissima costruzione a due piani con un grande salone per le feste dei bambini, ma anche degli adulti, e un grande giardino all'esterno. Sotto l'Asilo venne collocata una enorme cisterna capace di fornire acqua a tutto il paese in caso di necessità.

    E poi ancora, durante la Prima Guerra Mondiale, fecero costruire un'ala dell'Ospedale di Sarzana per curare i reduci e, dopo la guerra, il grande edificio delle scuole elementari in fondo al paese; per ultime, le magnifiche scuderie della Villa che fiancheggiano il primo tratto della nuova strada dove, sul lato esterno alla Villa, si insediarono più tardi alcuni uffici pubblici e negozi.

    Mio nonno Angelo ebbe un gran da fare per tanti anni per dirigere tutti questi cantieri.

    Il suo lavoro fu così apprezzato che, quando misteriosamente i coniugi Cochrane si separarono nel 1919 e Sir Percy si trasferì a Mentone lasciando la moglie sola nella magnifica Villa Rèzzola, dopo pochi anni lo chiamò con sé per lavorare anche in Francia.

    A Mentone ancora oggi c'è Ville La Victorie, da lui costruita, come pure il magnifico Hôpital Des Invalides che il Conte donò alla cittadina francese. E fu proprio mentre lui completava la costruzione dell'Ospedale che la notte del ventiquattro gennaio 1933 la nonna si svegliò urlando:

    «Il nonno è morto, il nonno è morto. Dovete andare a Mentone a recuperarlo. Siamo rovinati. Come faremo?»

    Tutta la famiglia, svegliata nella notte da quelle urla, si prodigava a consolarla e a dirle:

    «Nonna è un incubo. Stai tranquilla. Perché dovrebbe essere morto?»

    Ma lei non smise per tutto il giorno: non c'era modo di consolarla o farla smettere.

    Finché non arrivò il telegramma dalla Gendarmerie di Mentone:

    Monsieur Angelo Botto est décédé. Présence d'un membre de la famille requise. Contacter...

    Già quando sentimmo suonare il campanello la nonna capì e, non appena vide il postino, svenne. Da quel giorno per molto tempo non si riprese più da quel colpo inaspettato e portò il lutto per sette anni. Solo quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, lei che ne aveva già passata una, ritornò in sé: erano sopravvissuti per sette anni senza di lui, ora dovevano darsi da fare per sopravvivere a un'altra guerra, non c'era più tempo per portare il lutto. Ma questa sarebbe stata un'altra storia.

    Tornando ai coniugi Cochrane: certamente erano stati munifici, non c'è che dire, e, se le opere di Mentone pur grandiose si perdono nella dimensione cittadina, le opere lasciate da noi hanno non solo migliorato l'aspetto urbanistico e edilizio, ma per sempre cambiato significativamente in meglio la vita del paese.

    Cesarina 3. Lady Lavinia

    Ero piccolina quando incontrai per la prima volta coscientemente Lady Lavinia Cochrane.

    Era una radiosa giornata estiva, una di quelle in cui l'aria tersa e il solleone si fondono con i profumi della campagna che brilla sopra il mare, e un gran polverone segnò l'arrivo della Contessa sulla sua Rolls Royce nella Piazza della Chiesa.

    Ricordo nitidamente che fosse il dieci agosto 1929, giorno della festa di San Lorenzo, patrono, insieme a Santa Lucia, del paesino. Quel giorno era ogni anno il più bello e gioioso che ci potesse essere per tutti, ma soprattutto per i bambini.

    Decine di bancarelle venivano apprestate lungo la strada e nella Piazza della Chiesa e vendevano di tutto: dolciumi, stoviglie, tessuti, ogni ben di Dio che non si poteva trovare normalmente neanche a Lerici. C'erano poi arrotini, saltimbanco, giocolieri, la gente veniva da tutto il circondario e tutti eravamo agghindati a festa: i nonni, tutti i loro figli e noi nipotini. La festa del patrono era un giorno memorabile per tutti, ma quello fu davvero indimenticabile per me. Tutti stavamo aspettando l'arrivo della Contessa per l'apertura della lotteria di beneficenza che veniva organizzata ogni anno dalle suore che gestivano l'asilo: in agosto normalmente non era frequentato dai bambini e si poteva perciò usufruire pubblicamente del grande salone dove venivano esposti gli innumerevoli premi messi in palio e dove avveniva l'estrazione dei biglietti che i bambini pescavano dall'urna. Finalmente, a bordo della sua magnifica Rolls Royce che in quel contesto paesano sembrava un manufatto alieno, tutto lucido e fragorosamente brillante, arrivò Lady Lavinia, seduta regalmente nei comodi sedili posteriori dell'auto scoperta.

    Quando l'autista andò ad aprire la portiera per fare scendere la contessa io mi trovai proprio di fronte a lei, in braccio al nonno.

    Che visione: la sobria eleganza che solo una lady inglese sa esprimere mi colpì profondamente.

    I lunghi capelli ramati nel sole, erano raccolti in un cappellino grazioso legato con un foulard al collo, l'abito rosa di chiffon non faceva una piega e si muoveva leggero nella calda brezza, le scarpette di raso con tacco basso, lucide e pulite, quasi stonavano in quella strada polverosa e povera.

    E le movenze aggraziate, così diverse da quelle delle donne del luogo, apparivano naturali e semplici per lei: quasi non sembravano possibili. Il sorriso era radioso anche se composto, gli occhi brillanti per la giornata di festa, un poco velati, forse per la luce eccessiva, il portamento altero e composto, senza eccessi, come si addice a una grande occasione.

    Quando col nonno si salutarono amabilmente, lei esclamò rivolta a me:

    « What a beautiful girl!»

    Non era certo la prima volta che incontravo la contessa, e l'avevo già sentita parlare, ma quella volta fu diverso: non so cos'altro si dissero in quella lingua incomprensibile che mio nonno parlava con lei, ma il suono di quelle parole rivolte a me, allora misteriose, mi restò impresso, scolpito così profondamente nell'anima, che tutta la mia vita da lì prese senso. Sarà per il fascino di quella signora così appariscente e al contempo modesta, coi suoi abiti eleganti ma non pretenziosi, sarà per il fascino di quell'auto così possente e ingombrante, lucida e polverosa al contempo, sarà per il fascino dei gesti ossequiosi dell'autista nei confronti della sua padrona, sarà per il mistero di quei suoni nuovi e lusinghieri delle parole che si scambiarono, ma io intuii che in qualche modo avrei voluto divenire parte di quel mondo meraviglioso.

    L'idea che esistesse un'altra lingua attraverso la quale le persone potessero comunicare, diversa dal dialetto che avevo sempre parlato e dall'italiano che avevo appena incominciato a studiare, mi colpì come un fulmine e decisi in quell'istante che nel mio futuro ci sarebbe stato un impegno infinito per imparare a padroneggiarla: anch'io volevo poter parlare con la contessa come il nonno.

    Mai avrei invece immaginato quanto il realizzarsi di quel desiderio infantile mi avrebbe aiutato a districarmi negli avvenimenti che di lì a pochi anni avrebbero sconvolto tutto il Paese.

    «Cosa ha detto la signora?»

    Chiesi al nonno la sera stessa, non appena ne ebbi l'occasione.

    «Che lingua parlavate?»

    «Niente» sminuì lui «ha detto in inglese che sei una bellissima bambina.»

    « Uot a biutiful gherl, uot a biutiful gherl. Che bella bimba.»

    Per me fu una rivelazione.

    «Nonno, come si fa a imparare l'inglese?»

    «Bisogna andare in una scuola speciale. Quando sarai più grande, se vorrai, lo potrai fare.»

    «Certo che lo voglio: voglio poter parlare con lei come facevi tu.»

    «Vorrei, bimba mia, non voglio. Ma i sogni son desideri e se davvero lo vorrai, ti aiuterò a realizzarli.»

    Il nonno, come ho già accennato, morì giovane a Mentone, e non mi aiutò mai a realizzare il mio sogno. Ma avevo abbastanza risorse per aiutarmi da sola.

    Non mi diedi mai per vinta e con il ricordo di quella giornata solare nel cuore, escogitai mille modi per accelerare il realizzarsi del mio desiderio.

    Siccome alla scuola pubblica di Lerici nessuno insegnava lingue straniere, tantomeno l'inglese, figurarsi, in quegli anni, mi avvalsi dei buoni rapporti di famiglia per incominciare a frequentare Lady Lavinia nella sua Villa: finché ci fu mio nonno, l'accesso alla Villa era sempre consentito ai suoi parenti e, con grande insistenza, forzai la mamma, che era molto restia e riservata, a portarmi là, abitudine che non persi anche dopo che mio nonno non c'era più.

    Mio papà navigava e non c'era mai, la mamma invece, anche se di buona famiglia, era una popolana un po’ sempliciotta, sempre vissuta nel paesino, e, a differenza del nonno, faceva una grande fatica ad avvicinarsi a quel mondo elitario cui apparteneva la contessa.

    Ma poiché anche lei, in fondo al cuore, era irresistibilmente attratta da quel mondo superiore di nobiltà e ricchezza, e, in particolare, ammirava profondamente Lady Lavinia, non disdegnò le mie insistenze: fu così che decise di offrirsi per qualche piccolo servigio alla nobildonna e io, andandole dietro, non faticai molto ad avere le mie prime lezioni d'inglese e a entrare in confidenza con lei. Mio nonno e Lady Lavinia erano più o meno coetanei e, per i profondi rapporti avuti per lunghi anni con la nostra famiglia, anche dopo la disgrazia che ci aveva colpito, o forse proprio perché a causa di quella disgrazia era venuto meno anche per lei un importante punto di riferimento nel paese, prese a cuore le insistenze della nipotina.

    E mentre crescevo e mi facevo signorina, ebbi molte occasioni di passare con lei spensierati pomeriggi a passeggio per i magnifici giardini del parco della Villa o al riparo dalla calura nella brezza della veranda della torretta che svetta sopra ad essa.

    Quello era un posto paradisiaco ed incantato, con un dominio assoluto sulla bellezza del golfo, col Castello di Lerici che incombeva così vicino da esserne quasi sopraffatti, e la magnifica arena candida della Venere Azzurra, lì sotto, che, se ti fossi chinato, sarebbe sembrato quasi di poterla toccare con la mano.

    E ancora: i cipressi slanciati, così alti e solitari, gli eucalipti maestosi che il conte aveva fatto piantare, forse memore dei profumi delle lontane terre dove aveva fatto fortuna, i secolari pini a ombrello: tutto contribuiva a rendere il luogo talmente bello, affascinante ed eterno, che già quasi si presagiva la catastrofe incombente. Poteva durare tanta bellezza?

    Allora sembrava impossibile potesse finire.

    Ma la cosa che più mi piaceva della Villa e della Contessa Lavinia, erano i suoi magnifici dipinti.

    Ella amava dipingere sola, nella sua torretta, un luogo sacro da cui si dominava il mondo e che dal mondo era mirabilmente isolato; un luogo divino da cui si potevano scrutare infiniti panorami o perscrutare gli abissi dell'anima, segnati, lo percepivo inconsciamente ma chiaramente, dai meandri della solitudine in cui il marito l'aveva improvvisamente e inspiegabilmente lasciata.

    Guardando i suoi dipinti, i suoi paesaggi così solari e mediterranei, o le sue nature morte così vivide, o i suoi ritratti così espressivi, non so perché, non potevo fare a meno di notare una vena di amarezza che dalla sua anima si era trasferita magicamente sulle tele, rendendole vive, apparentemente luminose, ma velate di una profonda tristezza. Quella che solo la solitudine sa donarti.

    Lei non amava essere disturbata quando dipingeva, ma non disdegnava parlare dei suoi dipinti quando andavo a trovarla. Non avevamo una famigliarità tale per cui potesse svelarmi la sua anima, ma, come una nonna con la nipote, era in grado di trasferirmi parte del suo vissuto, quel tanto che bastò a instaurare un rapporto di reciproco rispetto.

    Purtroppo, quel periodo di rapporto privilegiato con Lady Lavinia si interruppe prematuramente quando lei, a causa della crescente avversione del Regime agli stranieri residenti in Italia, nel 1935 decise di vendere la Villa. Ma tutto un mondo nuovo mi si era disvelato e avevo proseguito il mio studio dell'inglese in autonomia, e quando finii le magistrali e tutti avrebbero voluto fare di me una maestrina, già lo parlavo correntemente, e fu così che, anche per l'incoraggiamento che da lei avevo ricevuto, presi una decisione storica e divenni la prima lericina a frequentare l'università.

    I miei genitori non si opposero alla mia decisione, anche se in paese non si parlava d'altro. In fondo erano stati per anni a contatto col mondo, il papà per i mari e la mamma con la contessa, e l'idea di avere una figlia laureata in lingue straniere non dispiacque poi più di tanto, anzi, li rese orgogliosi.

    I miei erano " avanti", per quegli anni!

    L'aspetto economico era un problema relativo e fu così che nel settembre del 1939, proprio mentre Hitler incendiava il mondo, io mi iscrissi all'Università Orientale di Napoli, dove potevamo contare sull'aiuto logistico di una importante famiglia locale, i Sansone, colleghi e amici di lunga data del papà, che mi davano cordiale ospitalità, come solo i napoletani sanno fare. E se in quel frangente era in auge la Germania, non mi restava che affiancare il tedesco all'inglese.

    Poi scoppiò la guerra anche in Italia, e tutto cambiò.

    Cesarina 4. L'Orientale

    Ma torniamo un passo indietro.

    La guerra in Italia scoppiò quasi un anno dopo, mentre, come ho detto, venerdì primo settembre 1939 io mi sono iscritta all'Università Orientale di Napoli nello stesso giorno in cui Hitler ha invaso la Polonia.

    Una coincidenza davvero singolare: io intraprendevo un viaggio importantissimo con brillanti prospettive per il mio futuro, e il mondo cominciava invece un viaggio tremendo e oscuro, verso l'ignoto e verso il terrore e le distruzioni di una nuova guerra.

    In quei primi giorni di settembre, nonostante i napoletani siano la popolazione più refrattaria agli eventi che succedono intorno a loro (avevo già avuto modo di rendermene conto di persona: nulla li smuove più di tanto), non si parlava d'altro: c'era un'eccitazione che aveva un qualcosa di morboso, indiscutibilmente alimentata da quello che si leggeva sui giornali, e dai roboanti discorsi che si sentivano alla radio.

    Mi resi improvvisamente conto che, come si diceva a quei tempi, fino allora ero vissuta nella bambagia.

    Avevo brillantemente finito i miei studi magistrali e subito dopo avevo compiuto diciotto anni, e l'idea di andare all'università aveva alimentato in me un'agitazione incontenibile: di quello che succedeva nel mondo intorno, sinceramente, non che mi fossi preoccupata più di tanto fino a quell'estate.

    Anche dopo la disgrazia della morte del nonno, che guadagnava moltissimo, avevamo continuato a vivere nell'agiatezza: alla nostra famiglia erano rimaste, oltre alla grande casa dove vivevamo tutti insieme, anche altre proprietà da lui costruite, mio papà e tutti i miei zii avevano un buon lavoro e, vivendo nella casa comune, tutti contribuivano al benessere generale.

    Il nonno poi aveva lasciato un discreto patrimonio che ci aveva consentito di vivere senza troppe preoccupazioni in quei sette anni prima della guerra, tanto che avevamo soldi a sufficienza per consentire sia a me che a mia sorella di proseguire gli studi, universitari per me e liceali per lei, senza gravare particolarmente sul bilancio famigliare.

    L'avvento del Fascismo, in tutti quegli anni, non aveva sconvolto più di tanto le nostre vite.

    Io partecipavo alle adunate durante il periodo scolastico perché tutti dovevamo farlo, ma, al di là della noia che mi procuravano, non mi ero mai fatta tanti problemi ideologici in proposito, sebbene nella mia famiglia allargata ci fosse qualcuno che se li facesse, eccome!

    Il Fascismo, almeno fino allo scoppio

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