La fabbrica
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Bruno Sperani, nom de plume di Beatrice Speraz (1839-1923), volitiva donna dalmata che ha dovuto utilizzare questo artificio per affermare il proprio ingegno femminile in un mondo – quello letterario e creativo – ancora prerogativa quasi esclusiva degli uomini,
Ambientato nel mondo dei cantieri edili milanesi, nel periodo dell’ascesa capitalistica, in questo romanzo breve si narra una storia di speculazione e di sopraffazione camuffata di paternalismo, nella quale il capomastro Piloni – un «imbroglione», «furbo quanto altri mai» – ergendosi a difensore dei suoi operai, in realtà si arricchisce sfruttandone il lavoro e mettendone a repentaglio la vita.
La premessa evolverà in tragedia, lungo una struttura compositiva coinvolgente ed efficace. Lo spazio della rappresentazione è realistico sin nelle scelte toponomastiche: un cantiere di un palazzo in via di costruzione nella zona di Corso Venezia, fulcro del dinamismo economico cittadino al tempo in cui, negli anni Ottanta del secolo, i quartieri intorno all’antico Lazzaretto venivano rapidamente abbattuti per realizzare la nuova fisionomia della metropoli industriosa e moderna, secondo l’immagine celebrata dall’Esposizione industriale del 1881.
Lo scenario su cui si apre il romanzo, con la sua folla di lavoratori, di donne e di bambini, provenienti dai «quartieri lontani» e dai «sobborghi», è quello del Corso di Porta Garibaldi e in particolare nel punto di «quel crocicchio» chiamato per «antica tradizionale abitudine “Il Ponte”» dai muratori senza un lavoro stabile, che qui si fermano nella speranza di venire temporaneamente assoldati per i cantieri edilizi.
La questione ideologico-politica che anima la vicenda narrata dalla Speraz, ha l’intento di sensibilizzare un pubblico eterogeneo, rendendolo indirettamente partecipe e solidale rispetto a un impegno civile dal respiro anche pedagogico. Infatti, un aspetto non secondario è quello dell’educazione femminile, che per la Sperani non poteva essere solo domestica e legata al ruolo familiare.
La fabbrica può dirsi un romanzo ‘corale’, dove in quell’universo popolare spiccano le figure del socialista Francesco Bitossi, del capomastro Lorenzo Piloni e della giovane stiratrice Luisina Terragni, e a Beatrice Speraz va il merito di avere contribuito a costruire quella che Benedetto Croce avrebbe chiamato la ‘letteratura della nuova Italia’, facendosi portavoce di una sensibilità anticipatrice in un periodo di trapasso, che nel secolo ventesimo troverà fecondo sviluppo.
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Anteprima del libro
La fabbrica - Bruno Sperani
BRUNO SPERANI
(Beatrice Speraz)
LA FABBRICA
Fuori dal coro
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Prima edizione digitale: 2017
Copertina: Ernesto Basile, Disegno del mobilificio Ducrot, Palermo, 1909,
ISBN 9788833260020
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Table Of Contents
Un romanzo di denuncia sociale nella Milano di fine ’800:
La fabbrica di Bruno Sperani
AL «PONTE»
IN SAN BERNARDINO DEI MORTI
MADRE E FIGLIA
IL MERCATO
LA CARITÀ
IL 29 SETTEMBRE
IL MESSAGGIO DELLA SORA ROSA
IL CAPOMASTRO
I MURATORI
LA VISITA
FORZA D'AMORE
DAI MARTINELLI
GIOIE E SPASIMI
LA CATASTROFE
NELLE ROVINE
DOPO I FUNERALI
Un romanzo di denuncia sociale nella Milano di fine ’800:
La fabbrica di Bruno Sperani
di Cristina Tagliaferri
A celarsi dietro il nom de plume di Bruno Sperani, nella consapevolezza di trovarsi a scontare il discredito del proprio ingegno femminile, in un mondo – quello letterario e creativo – ancora appannaggio quasi esclusivo degli uomini, era una volitiva donna dalmata: all’anagrafe Vincenza Pleti Rosić Pare Sperać (Solin, 1839-Milano, 1923), detta Beatrice Speraz.
Dopo una giovinezza sofferta e difficile e un matrimonio fallito con il conte Giuseppe Vatta di Pirano, da cui ebbe tre figli, si trasferì da Spalato a Trieste, poi a Firenze, quindi a Milano, con la necessità di mantenere altre tre figlie avute dall’unione con Giuseppe Levi, morto presumibilmente alla vigilia o all’indomani del loro arrivo nel capoluogo lombardo. Legatasi presto a Vespasiano Bignami, pittore e illustratore satirico, si trovò a frequentare un ambiente in cui il dissenso politico nei confronti della classe dirigente postunitaria, alimentato da alcune riviste di indirizzo progressista repubblicano e socialista, andava di pari passo con l’impegno per l’educazione popolare.
Ripercorrendo le tappe della sua vita, si rimane impressionati dal fervore ideologico e letterario che la portò a impegnarsi sul versante del giornalismo militante e ad affermarsi nel campo della narrativa. Fu anche traduttrice dal tedesco e dal francese.
Del 1879 è il primo romanzo breve, Cesare; dell’83 Veronica Grandi, uscito esclusivamente a puntate sulla «Nazione»; nell’85 pubblica il volume Nell’ingranaggio (dopo essere comparso sulla rivista fiorentina); nell’87 Numeri e sogni, voluto dal Torelli Viollier, direttore del «Corriere della Sera». Da questo momento Sperani ottiene una discreta risonanza e viene apprezzata soprattutto dal gruppo democratico-socialista composto anche da Turati, Ghisleri e Cameroni che ne condividono le tematiche («le vergogne, le delusioni, le tristezze fatali del matrimonio» secondo Turati) e il ‘metodo’ «non fotografico», ma «di riproduzione del vero in un disegno organico» (Ghisleri). Si avvicina anche ai movimenti femministi. Oltre a raccogliere in volume i suoi racconti, pubblica L’Avvocato Malpieri (1888), Il romanzo della morte (1890), Tre donne (1891), Emma Walder (1893) e La fabbrica, edito originariamente in dispensa nel 1894 sul «Tesoro delle famiglie italiane» (fascicoli 46-52; poi in volume, Milano, Aliprandi, s.d.).
Ambientato nel mondo dei cantieri edili milanesi, nel periodo dell’ascesa capitalistica, in questo romanzo breve si narra una storia di speculazione e di sopraffazione camuffata di paternalismo, nella quale il capomastro Piloni – un «imbroglione», «furbo quanto altri mai» – ergendosi a difensore dei suoi operai («vi tratto come fratelli voglio il vostro bene […] abbiate giudizio, ragazzi! Persuadetevi che i miei interessi sono pure i vostri»), in realtà si arricchisce sfruttandone il lavoro e mettendone a repentaglio la vita:
I muratori […] allegri non erano. Molti si lagnavano delle condizioni insostenibili in cui li mettevano i capimastri. Non solo erano pagati poco e dovevano lavorar molto, ma i disastri avvenivano con una spaventevole frequenza, per il cattivo materiale impiegato, per la fretta eccessiva e per tutto il sistema della speculazione esagerata che ogni cosa sacrifica alla minore spesa e al maggior guadagno. (cap. I)
specialmente il Piloni è coraggioso quanto mai. La settimana scorsa è rovinato un soffitto in una fabbrica a Porta Genova e un ragazzo è stato schiacciato. Fu un miracolo che non rimanesse sotto anche il capomastro: stava appunto dicendo che non c’era pericolo! È così!; hanno più paura di spendere che di far la fine del topo. (cap. III)
La premessa evolverà in tragedia, lungo una struttura compositiva per quadri in sé conchiusi, coincidenti con i diciassette capitoli che compongono il libro. Lo spazio della rappresentazione è realistico sin nelle scelte toponomastiche: un cantiere di un palazzo in via di costruzione nella zona di Corso Venezia, fulcro del dinamismo economico cittadino al tempo in cui, negli anni Ottanta del secolo, i quartieri intorno all’antico Lazzaretto venivano rapidamente abbattuti per realizzare la nuova fisionomia della metropoli industriosa e moderna, secondo l’immagine celebrata dall’Esposizione industriale del 1881.
Lo scenario su cui si apre il romanzo, con la sua folla di lavoratori, di donne e di bambini, provenienti dai «quartieri lontani» e dai «sobborghi», è quello del Corso di Porta Garibaldi e in particolare nel punto di «quel crocicchio» chiamato per «antica tradizionale abitudine Il Ponte
» dai muratori senza un lavoro stabile, che qui si fermano nella speranza di venire temporaneamente assoldati per i cantieri edilizi.
E tutte, o quasi tutte, queste creature così diverse e così uniformi, queste macchine viventi, questi nutritori male nutriti del grande movimento industriale, della grande attività civile, portavano impresso nel volto, come un marchio incancellabile, il disamore e il fastidio del lavoro a cui si avviavano, come un gregge guidato dalla fame e dall’abitudine: perché quasi tutti andavano a un lavoro monotono, ridotto a semplice movimento meccanico, del quale soltanto pochi intendevano la ragione e lo scopo: o ad un lavoro che mai li avrebbe fatti avanzare né migliorare nel loro stato, e alla cui riescita rimanevano necessariamente indifferenti. (cap. I)
La questione ideologico-politica che anima la vicenda narrata dalla Speraz, nella fase di personale affermazione della propria autonomia di scrittrice e di laicità di pensiero, emerge già dalle pagine iniziali, con l’intento di sensibilizzare un pubblico eterogeneo – donne e uomini, fra lettori abitualmente interessati a prodotti editoriali diversi – rendendolo indirettamente partecipe e solidale rispetto a un impegno civile dal respiro anche pedagogico.
Ogni capomastro aveva, oltre alla propria maestranza stabile, un certo numero di operai ben conosciuti per averli fatti lavorare altre volte; e per lunga esperienza sapeva distinguere i lavoratori intelligenti e solidi dai fiacchi e abbruttiti.
D’altra parte, la grande lotta per le tariffe e le ore di lavoro era appena all’esordio, né esisteva ancora la Società Cooperativa, fondata soltanto nell’aprile del 1887 da tredici muratori. I muratori erano dunque senza difesa e i contratti si stringevano quasi sempre col vantaggio del più forte; sul mutuo consenso, come usavano dire, quel mutuo consenso che può sussistere tra un capitalista e un gruppo di affamati. (Ivi)
La fabbrica può dirsi un romanzo ‘corale’, dove in quell’universo popolare spiccano le figure del socialista Francesco Bitossi, del capomastro Lorenzo Piloni e della giovane stiratrice Luisina Terragni, figlia dell’inferma Virginia Galavresi e madre di un bambino di cinque anni, «non più riveduto dalla nascita». Lo stato di miseria che ne caratterizza l’esistenza, è aggravato dall’abbandono dell’uomo che aveva creduto di amare, un vinaio gretto e ricco che dopo il parto si premurò di consegnare il figlio a un brefotrofio:
Intanto aveva ricorso alla Congregazione di carità per ottenere un sussidio. Ma un sussidio bastante per fare quello che sognava lei non c’era speranza di ottenerlo. Così, se quel cane non si moveva a compassione il bimbo era bello e spacciato. Povera anima! Povera anima!
[…]
Chi sa! Forse l’ex-vinaio avrebbe avuto un momento buono: la sora Rosa aveva detto che era ben disposto. E perché non avrebbe dovuto esserlo? Non era il padre di lui, come lei era la madre? […] (cap. III)
Nel delineare il triste destino della donna, incline a seguire i moti dell’animo più che i convincimenti imposti dalla ragione, Sperani si rende dunque portavoce di altri diritti negati, quelli legati alla condizione femminile, oggetto di una battaglia sostenuta alla fine del secolo dal gruppo milanese della ‘Lega per la tutela degli interessi femminili’, cui la stessa autrice ebbe modo di avvicinarsi. Almeno due fra gli obiettivi promossi dalle emancipazioniste, divorzio ed estensione alla madre del diritto di tutela, sono tematiche affrontate nei suoi romanzi. E quando nel 1907 recensirà il libro più importante della Aleramo, ne parlerà nei termini di un «documento in favore del divorzio e […] atto di protesta contro le leggi e i più iniqui pregiudizi che gravano sul destino femminile» (Una donna. Romanzo di Sibilla Aleramo, «I diritti della donna», 26 maggio 1907), ponendo quest’opera in una linea di continuità con il proprio lavoro.
Di contro a tale attivismo, storicamente riconosciuto, nella pagina letteraria è tuttavia la fatalità a governare la vita delle protagoniste («[Luisina] Sentiva di più la propria inettitudine a combattere nella lotta per la vita – inettitudine che lei chiamava disfortuna – e i terrori della madre s’insinuavano nella sua coscienza»), laddove a prevalere sembrano essere le leggi del sangue e i meccanismi sociali, decretando uno stato di minorità da cui è impossibile sottrarsi. Così, «La vecchia casa dove abitavano le Terragni era di quelle destinate a sparire nel caso preveduto di un prossimo riordinamento delle vie e dei chiassi che si stendono e s’incrociano dal Ponte di Porta Vittoria alla vecchia chiesa di San Pietro in Gessate»: il caseggiato in questione, di proprietà del Piloni, diviene quindi spazio metaforico oltre che reale, fungendo da catalizzatore di persone accomunate dal rischio della dispersione e dalla lotta per la sopravvivenza, non conoscendo alcuna forma di solidarietà di classe. La povertà finisce di conseguenza per abbruttirle, spingendole ad accanirsi le une contro le altre.
Nemmeno la passione sbocciata fra Francesco Bitossi e Luisina è destinato a vincere. Dopo l’arresto dell’uomo, sospettato di organizzare uno sciopero, i due si rivedono non come «due semplici amanti che si ritrovano», rappresentando piuttosto, in quel preciso istante dominato da «un supremo presentimento», «una razza di paria inebbriati dall’appressarsi della sognata redenzione e amareggiati dall’intima sicurezza di non poterla vedere». Tanto che la fidanzata finirà per cercare di farsi giustizia da sé, col proposito di ammazzare Piloni – colpevole di avere sacrificato la vita di altre persone per i propri interessi personali – una volta appresa la notizia della morte di Francesco a seguito del crollo del palazzo in cui lavorava. E a nulla le vale l’insegnamento delle sue buone parole («Le nostre vendette, le nostre azioni violente, anche se provocate, ci rimandano indietro di tanti anni e rimandano il giorno della nostra liberazione. Noi dobbiamo far valere i nostri diritti con la ragione; vincere con la fermezza, con la calma potente»), espressione dello stereotipo del socialista pacifico e onesto. Il sostrato teorico cui l’autrice attinge conferendo ‘positività’ al personaggio, è quello dell’evoluzionismo progressista, controbilanciato tuttavia dalla coscienza della disuguaglianza creata in primo luogo dal denaro.
L’immagine della donna omicida per amore, risponde invece ai criteri del sensazionalismo d’appendice, senza farsi espressione dell’ideologia autoriale. A tale scopo la voce narrante insiste sugli abissi della coscienza, nel tormento interiore che portano Luisina a interrogarsi sul senso della sua risolutezza («Voleva la morte di quell’uomo: il sangue per il sangue»), in una confusa commistione di delirio religioso, di solidarietà nei confronti delle altre vittime del cantiere, e nel ricordo dell’umiliazione personale subita come donna e come madre; fino alla convinzione estrema, ripensando all’immagine agonizzante di Francesco: «E se nessuno lo puniva, se la giustizia pubblica non se ne curava, voleva dire che toccava a lei, a lei sola… che era il suo diritto e il suo dovere».
Non è un caso che Sperani affidi alla protagonista, portatrice di sdegno invece che di dottrina, il tentativo di sovvertire l’ordine costituito, suscitando motivi di riflessione e di problematicità. Le donne dei suoi romanzi, infatti, pur muovendosi all’interno di schemi convenzionali, non manifestano comportamenti stereotipi: il tratto caratterizzante è il processo di conoscenza e di lotta interiore che esse attuano alla ricerca di sé.
Non estranei alla scelta di certi suoi motivi narrativi, sono poi alcuni fatti ricavati dalle cronache del tempo, reinventati con spirito provocatorio. Significative sono a tale proposito le parole riferite in veste di giornalista, in un articolo sulla «Cronaca rossa»: «Una povera ragazza, una contadina che ha ucciso l’amante dal quale era vigliaccamente abbandonata, mentre stava per divenire madre, ha detto in Tribunale che gli uomini hanno bisogno di qualche lezione» (Alle signore, 6 maggio 1888). Nella fictio romanzesca, se Luisina dovrà rassegnarsi accettando il volere del destino, il fallimento della sua missione, dovuta alla fuga dell’ex-capomastro, la porterà a puntare la rivoltella contro la causa prima del suo dolore: Angiolo Zibardi, emblema della prepotenza e dell’ingiustizia trasferite nelle pieghe del romanzo dalla sfera privata e soggettiva a quella sociale, ed erette a sistema. Ciò rende evidente il fatto che per l’autrice la questione femminile, che nella sua protagonista non può però sfociare in emancipazione, è parte