Uccidi o muori
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I racconti di questo testo saranno una piacevolissima scoperta per tutti i lettori del genere fantasy. Bigiaretti ci stupisce con una serie di racconti che entrano in mondi, dimensioni e situazioni che vanno ben oltre l'ordinario e il consueto. Il mondo e le abitudini dei Làvari ci appaiono in tutta la loro assurda realtà; la carriera di un brillante manager stroncata da una inspiegabile malattia e così per tutti i quattro racconti che compongono questa straordinaria collezione di testi. Le esperienze dell'autore vengono ridisegnate in un universo "parallelo" dove sempre viene da chiedersi se non sia più vero del reale.
Ai lettori chiediamo di aprirsi alle notevoli e numerose sollecitazioni che il testo offre, lasciandosi stupire da un "diverso" che, a volte, sembra assumere le forme della realtà.
Scrittore fuori dal coro, Bigiaretti mostra una spiccata capacità di analisi e di comprensione dell’animo umano; per questo, oggi più di ieri, estremamente attuale.
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Anteprima del libro
Uccidi o muori - Libero Bigiaretti
Libero Bigiaretti
UCCIDI O MUORI
Fuori dal coro
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Prima edizione digitale: 2019
In copertina: paesaggio fantastico
ISBN 9788833260457
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Table Of Contents
UCCIDI O MUORI ovvero UN’AVVENTURA TRA I LÀVARI
I
II
III
IV
V
LA MALATTIA
I
II
III
IV
FULISCIA
I
L’ISOLA
I
Il ´fantastico` bigiarettiano
di Cristina Tagliaferri
Uccidi o muori, opera composta dallo scrittore marchigiano Libero Bigiaretti (Matelica, 16 maggio 1905-Roma, 3 maggio 1993), riunisce quattro racconti lunghi pubblicati da Vallecchi nel 1958. Nell’aletta di sovraccoperta dell’edizione fiorentina, essi vengono definiti «Immaginari […] sia per l’ambientazione irreale, sia per l’eccezionalità dei casi
», segnando di fatto una svolta nella produzione narrativa dell’autore, fino a quel momento generalmente ascrivibile al filone realistico. Da questo punto di vista, la raccolta si pone altresì come il punto di partenza di una ricognizione ripresa da Bigiaretti in epoche diverse, come attesta ad esempio la raccolta tardiva Abitare altrove (Bompiani, 1990), in cui sono riproposti e ridefiniti i testi di Uccidi o muori, con l’aggiunta di altri.
Il titolo del libro vallecchiano è dedotto dal primo racconto, Uccidi o muori, ovvero un’avventura tra i Làvari (poi pubblicato come La giustizia, in Abitare altrove), nel quale il soggetto narrante si trova a vivere una vicenda ambientata in un paese, presumibilmente caucasico e non estraneo a qualche posto realmente visitato dallo scrittore, dell’immaginaria Lavaria, a proposito della quale è citato il nome di Gaston Lenormand: a questi è attribuita, nella fictio letteraria, la pubblicazione del libro, altrettanto inventato, «Voyage au pays des Lavahars»; curiosamente, a lui si deve in realtà un volume in materia di ufologia,{1} che potrebbe avere generato, unitamente ad altre letture ben più pregnanti nella formazione letteraria dell’autore, qualche suggestione ispiratrice rispetto alla nuova fase bigiarettiana «di evasione fantastica»{2}.
Il luogo frequentato dall’anonimo viaggiatore è fortemente caratterizzato da lingua, usi e costumi propri, e soprattutto da una religione severissima, a causa della quale il protagonista si caccerà involontariamente nei guai, trovandosi nella spietata alternativa di uccidere o di essere ucciso, dopo essere stato accusato di un reato considerato il più grave del popolo làvaro: quello, cioè, di essersi introdotto, in un orario proibito al pubblico, nel tempio dove si adora il Sacro Bambino, che con il Padre e la Madre forma una Trinità priva della «componente suprema dello Spirito», e di aver rubato dalla sua «purissima fronte» la «Goccia di sangue, che vi brilla», ossia il Grande Rubino.
Il cambiamento del titolo da Uccidi o muori a La giustizia subentrato in Abitare altrove, è indicativo della rilevanza che la coscienza e la dimensione del processo dai connotati kafkiani («Più che l’incertezza della mia sorte mi agitava la curiosità di conoscere la natura delle accuse che mi sarebbero state mosse») assumono nel racconto, dove nemmeno la consapevolezza della propria innocenza è garanzia di libertà:
Nei rari momenti di calma che affioravano nella distesa tempestosa delle ore in cui io attesi l’arrivo dell’avvocato, pensavo amaramente che la profonda certezza della propria innocenza non serve a nulla; nulla può, di per sé, se non si appoggia all’altra verità più artificiosa delle prove, dei confronti, delle testimonianze. La coscienza, pensavo anche, è una travatura che sostiene come un tetto il nostro essere morale; una impalcatura sopra la casa, e perciò nulla oppone ai colpi picchiati sulle pareti dall’esterno. Le percosse, infine, fanno gemere di dolore tanto il reo quanto l’innocente che le ricevono.
La svolta fantastica della vicenda, costruita sull’ambivalenza e sull’ambiguità dei fatti e dei personaggi, si ha nel momento in cui a prendere la difesa del protagonista è Javahn Ekar, maître e padrone dell’albergo Làvariog. Se al principio egli compare sulla scena evocando nel viaggiatore il ricordo del compagno di scuola Gianni Failla, con cui aveva condiviso l’interesse per il lontano paese di Lavaria, durante le fasi del processo, alla domanda rivoltagli dall’accusato se esista «un vocabolo lavaro che suoni come Failla» (si noti che a livello fonico il nome allude a ‘fallire’ o a ‘fallo’), la risposta è suggestiva: «Fa-il-la
, scandì Javahn. Certo, certo che esiste
. Aggiunse in italiano: Vocabolo composto: significa colui che simula. A chi volete dare questo titolo?
».
Nonostante nell’epilogo Ekar gli farà intendere di essere proprio Failla, anche nell’agnizione finale l’autore riesce abilmente a trasmettere un margine di dubbio, preservando con sinuosa ironia il clima di incertezza sotteso all’intero racconto: «Tutto ciò che per me risultava strano o inesplicabile, per l’albergatore era, sempre, una questione di coincidenza, un gioco del caso».
Più satirico e ricco di intertestualità è il secondo testo, La malattia, in cui il cinico e arrivista Gino Rovelli, all’apice della propria carriera, una mattina si trova improvvisamente mutato in vecchio, scoprendo con orrore un’immagine di sé non corrispondente alla propria, a causa di declino fisico inesorabile che lo condurrà alla morte dopo avere contagiato anche la moglie. Evidente è ancora il richiamo all’archetipo kafkiano e in particolare al Gregor Samsa della Metamorfosi, seppure in forma più attenuata, così come al racconto pirandelliano Una giornata: Bigiaretti indugia maggiormente sulle fasi della trasmutazione, ma l’atmosfera è molto simile, intrisa di rapide e sconvolgenti rivelazioni, tipiche del genere fantastico, cui ricondurre, come ascendenti letterari dello scrittore marchigiano, i nomi di Massimo Bontempelli, di Dino Buzzati, di Tommaso Landolfi e di Alberto Moravia autore dei Racconti surrealisti e satirici (1982) composti nel decennio 1935-1945. Sicuramente quello di Bigiaretti rimane il testo fra i suoi più riusciti.
L’«arrovellato» Rovelli è un dirigente della Bìler, dietro la quale è facile riconoscere la Olivetti di Ivrea (ribattezzata, nella finzione letteraria, Bilèria), nella quale Bigiaretti realmente lavorava, dapprima come collaboratore poi come dirigente del Servizio Stampa e Rappresentanza, fra altri intellettuali e scrittori a fianco dell’illuminato ingegnere Adriano. La malattia del protagonista è il riflesso, o la conseguenza della personalità che lo anima, ritratta in passaggi di pungente e mai edulcorata analisi psicologica, a tratti divertente, in grado di farne emergere l’aspetto cerebrale e calcolatore, sia nell’ambito dei rapporti professionali sia in quello sentimentale:
Disprezzando i dipendenti e facendo loro credere in una sua austera bontà d’animo, adulando i superiori, mostrandosi con modi vaghi e misteriosi sempre un pochino distaccato, innalzato un po’ più su del proprio rango come per effetto di burocratica levitazione; lievemente ironico nel giudicare il lavoro compiuto da altri, sicché ognuno pensasse che egli avrebbe saputo fare di meglio; finalmente riuscendo a far diventare voce corrente quel che le note caratteristiche segrete indicavano come sua qualità peculiare: «attitudine al comando», in capo a tre anni, essendo sui ventotto di età, Gino era salito al rango di dirigente. All’epoca in cui ebbe inizio la sua malattia, egli era uno dei due vice-direttori dell’azienda.
*
‒ Lei ama sua moglie? ‒ chiese ad un certo punto il dottore. Va d’accordo con lei?
Come poteva rispondere Gino a una domanda che mai si era posto?
Parlare di amore tra lui e Luisa gli pareva quasi indecente. In verità, egli non avrebbe potuto chiamare amore nessun sentimento da lui provato, dall’infanzia a oggi; ma non lo sapeva, e rispose che Luisa e lui andavano d’accordo.
‒ Avete una vita sessuale regolare, normale voglio dire? – chiese ancora Dàuli.
Gino sentì che qualche cosa, un velo di sangue, o un’ombra, passava sul suo volto. Vide con la mente Luisa con Giorgina, e se stesso con Mary, la moglie di Bertelli; ma era una cosa finita; e con la signora Spongaro e con la ragazza Mattioli… Vide anche se stesso e Luisa: una guerra feroce e un poco vergognosa, anche (sì, chiamiamolo amore, si disse Gino) anche nell’amore.
La sua malattia, per cui è ravvisabile un’ascendenza sveviana, può in definitiva essere letta quale allegoria della mancanza di giovinezza interiore, di spontaneità e di disinteressata attitudine all’immaginazione, come le implacabili parole della moglie Luisa gli additeranno in occasione di un malriuscito approccio sessuale:
‒ Tu non sei mai stato giovane. Ricordatelo. Eri giovane d’aspetto, ma dentro eri già decrepito, come adesso il tuo corpo. Non hai mai avuto un pensiero giovane. Avevi in mente solo la tua carriera. Anche me, lo sai bene, mi hai voluta per far carriera. Anch’io volevo farla a mio modo, se no non ti avrei degnato di uno sguardo. Comunque ricordati che sei sempre stato vecchio. Forse dalla nascita, ‒ concluse con una breve risata.
Il finale è a sfondo moraleggiante ma non ideologico ed echeggia il Moravia grottesco e surrealista dell’Epidemia (1944), evocato in modo sin troppo esplicito con la nominazione del famoso titolo.
Altrettanto allegorico e pervaso di mistero è il racconto Fuliscia, dall’inglese ‘foolish’ (folle), in cui viene descritto ancora un luogo che, sicuramente visitato da Bigiaretti in vita (ma «che nelle carte del Touring non figura neppure»), dovette acquistare ai suoi occhi un alone fantastico, caricandosi di elementi visionari, e per questo degno di essere fissato in un racconto. Un povero paesino del meridione dove l’«Hôtel Excelsior» in realtà è una baracca e nel quale avvengono le cose più strampalate, verso cui il protagonista stranito si lascia condurre e ammaliare: «Ormai ero entrato nel giuoco, e tanto valeva vedere fin dove si spingesse la mascherata, o commedia che fosse, di quel villaggio che la pretendeva a città».
Spiazzando ogni certezza, Fuliscia non è che un’allegoria della civiltà del tempo in cui fu scritta, con una subliminale critica alla società mediatica e consumistica, e bene si presta a essere letta così anche oggi: la particolare prospettiva bigiarettiana punta la sua lente deformante sulla miseria palpabile di gente tuttavia felice, rivestendola di dignità; l’unica virtù, questa, che l’autore sembra additare con compostezza al lettore, con una vena comica intrisa di poesia e di patetismo. Citando peraltro un’espressione del padre, che considera poesia «tutto ciò che si discosta dalla realtà e dalla pratica quotidiana», il narratore definisce i fulisciani «poeti», disinteressati ai beni materiali ma dediti ai rapporti interpersonali e alle cose semplici.
La presenza della componente dubitativa nell’accezione conferita da Todorov al genere fantastico,{3} confermata nella conclusione del testo, per cui non è chiaro se Fuliscia esista o meno («Afferma mio padre […] che Fuliscia non esiste. E io credo, difatti, ufficialmente, che non esista, ma nella realtà c’è, e anche nella mia memoria che vi si è attaccata»), è ravvisabile anche nell’ultimo racconto di Uccidi o muori, L’isola. Esso è il rifacimento, con modifiche e integrazioni, di Incendi a Paleo, pubblicato nel 1943 in «Onda», rivista quindicinale della radio, e nel 1945 in libretto nella ‘Collana del Girasole’, a cura di Guglielmo Santangelo e Orfeo Tamburi (Cultura Moderna, Roma).
La narrazione è movimentata e genera una tensione cupa, rievocando per interposta persona – un certo Edoardo, pittore e amico del soggetto narrante ‒ un avvenimento «apparentemente di scarsa importanza ma rimasto tuttora misterioso», che riguarda «una guerra assurda» tra gli antichi dominatori di Paleo («uno dei centri dell’Isola») e i contadini stanziatisi sulle colline circostanti, verso i quali i paleani nutrono un «rancore eccessivo»: un tema, questo, di matrice autobiografica. Come nei racconti che precedono, a eccezione de La malattia, anche il nuovo protagonista è un villeggiante e si trova a vivere una vicenda che non avrebbe potuto immaginare, decidendo però volontariamente di «prendere in mano la situazione», organizzando la fuga del gruppo familiare presso cui ha trovato ospitalità, spronato «dallo sguardo ardito e penetrante
di una fanciulla dei Ghebia, di nome Enda».
Il racconto, ispirato dalla suggestione degli eventi bellici, si snoda intorno alla misteriosa sparizione di questa figura, letterariamente assimilabile alla Nitta bontempelliana, che vide la luce nello stesso anno dell’Isola, nella versione non ancora definitiva del 1943. Come la fanciulla di Bontempelli, infatti, Enda si esprime solo con lo sguardo e per pochi monosillabi; entrambe scompariranno all’alba e vana sarà per loro l’affannosa ricerca da parte dei rispettivi personaggi maschili.
Nel testo di Bigiaretti, è interessante notare come la ragazza sparisca dopo una notte d’amore, rievocata con emozione da Edoardo, dopo essere stato minacciato da una coltellata dal compagno Spirio, che innamorato della donna, intende vendicarsi del grande dolore subito: la tematica amorosa, indagata finemente nelle sue molteplici sfumature espressive, è infatti centrale nella produzione narrativa dello scrittore marchigiano; inserita in questo racconto rivela da parte sua un’attenzione privilegiata al microcosmo sentimentale, che si presentava del tutto marginale, invece, nella prima versione, nella quale era predominante la connotazione socio-politica della vicenda. Come ha rilevato Carla Carotenuto, già nell’edizione del 1945 Bigiaretti inserisce alcune varianti significative, «in particolare mediante l’integrazione, nell’episodio passionale, di alcuni dettagli nella descrizione di Enda e di un breve passaggio che precisa il ruolo svolto dai due personaggi»,{4} ma è nella versione per Uccidi o muori che la componente sentimentale diventa davvero rilevante grazie a un’ulteriore ampliamento con indugio sulla confessione di Edoardo all’amico: egli dichiara di essere turbato da un «sentimento disperato», ritenendosi «perdutamente innamorato»; è una passione «vera, disperata», che il protagonista definisce «concava» in quanto originatasi non durante l’incontro sessuale, ma dall’assenza della ragazza. Nell’Isola, contrariamente alle