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Il villaggio sepolto nell'oblio
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Il villaggio sepolto nell'oblio
E-book712 pagine10 ore

Il villaggio sepolto nell'oblio

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Info su questo ebook

Andare oltre per non farsi più trovare….
Cosa fare quando il futuro offre solo massacri, follia, colonne di prigionieri e carri bestiame? Quali sono le ragioni per trionfare sul totalitarismo, le paure e, perché no, il freddo? Condannato a morte nel 1914, l'impiccagione è stata, in seguito, “temporaneamente commutata in esilio perpetuo in Siberia”, il giovane Theodor Kröger, una volta libero, partecipò alla straordinaria avventura di isolare un villaggio russo dal resto del mondo, per sfuggire alla nuova tirannia bolscevica. Nascondere percorsi, trasformare le foreste in labirinti, far sparire carte per sfuggire al caos ... Quanto tempo?
In questo romanzo, bestseller mondiale fin dalla sua pubblicazione nel 1950, l'oscurità di un'epoca e la grandezza dell'anima russa si mescolano con l'immensità della taiga, essa sola è in grado di resistere alla follia degli uomini.
L’autore
Nato nel dicembre del 1890 a San Pietroburgo da una dinastia di industriali tedeschi, Theodor Kröger aveva ventiquattro anni quando scoppiò la guerra nell'agosto del 1914. Catturato per aver tentato di raggiungere clandestinamente la terra dei suoi antenati, fu inviato in Siberia e sarà rilasciato solo cinque anni dopo. Terribilmente segnato da questa esperienza, si stabilì in Germania e dedicò il resto della sua vita alla scrittura, prima di morire in Svizzera nel 1958. Il villaggio sepolto nell’oblio, che ebbe un enorme successo editoriale fin dalla sua prima pubblicazione nel 1950, rimane il suo lavoro principale ed è nutrito dai suoi terribili ricordi delle galee. Theodor Kröger canta paradossalmente il suo amore per l'immensa Siberia e i suoi abitanti, ed evoca con una vitalità indimenticabile l'anima russa, i suoi demoni e, insieme, la sua bellezza.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2018
ISBN9788833260358
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    Anteprima del libro

    Il villaggio sepolto nell'oblio - Theodor Kroger

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    Theodor Kröger

    Il villaggio sepolto nell’oblio

    L’angelo custode

    Maree

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Prima edizione digitale: 2018

    Edizione originale: Das vergessene Dorf (1934) – Der Schutzengel, (1939).

    Traduzione di Alessia Quadri

    ISBN 9788833260358

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    Table Of Contents

    Prefazione

    Sempre più lontano

    Parte prima

    IN CATENE

    Schlüsselburg

    Il palo di confine

    Carcere sul Baikal

    Il miracolo

    Parte seconda

    LIBERTÀ A MEZZO...

    Un rublo luccicante

    Fayme

    Voglio vivere!

    La salvezza

    Il processo di Omsk

    Fuga?

    I camerati

    Parte terza

    IL VILLAGGIO SEPOLTO NELL’OBLIO

    Divento commerciante di pelli

    Gioie invernali - Letargo invernale

    Natale e Capodanno

    Lavori di primavera

    Inquietudine

    Davanti ai fucili

    La peste

    Pane e sale

    Il figlio

    Rivoluzione

    L’incendio divampa

    Orrida scoperta

    La nuova situazione

    I dimenticati

    Il ritorno

    ... Rivedersi!

    L’ANGELO CUSTODE

    Il villaggio sepolto nell’oblio

    Prefazione

    Sempre più lontano

    Prendete un atlante e mettetevi alla ricerca, meglio se con una lente d'ingrandimento, nelle vicinanze del 62° Nord e del 65° Est, di un punto minuscolo: Iwdjel, capolinea di un ramo settentrionale della Transiberiana. Già nel 1917, al tempo di Theodor Kröger, la strada si fermava lì.

    Una stazione di disboscamento, la natura congelata, una lugubre stazione di polizia, la fine di un mondo, il confine oltre il quale si passa dall’altra parte dello specchio nel quale si riflette la vita ordinaria.

    Oltre Iwdjel inizia l’avventura iniziatica, mitica e terribilmente umana che racconta Theodor Kröger. Oltre questo piccolo villaggio, esiste l’infinita taiga tagliata da immense paludi mortali e impenetrabili, inverni lunghi, neri e ghiacciati, estati brevi e calde infestate da miliardi di zanzare e per tutto l’anno, sul volto dei rari abitanti, un velo di intensa malinconia.

    Ho letto questo libro quattro o cinque volte, il primo all'età di quindici anni, in uno stato di totale eccitazione, l’ultimo di recente, immerso in un ricordo quasi religioso. Leggendo solo per il gusto di leggere, ho capito una cosa essenziale. Essenziale per me, ovviamente.

    È vero che le sonorità di questo libro sono molteplici e rimandano al coraggio, all’onore, al cameratismo, alla fede, alla dedizione; e l’amore di Fayme, la giovane tartara bella come un’aurora boreale, e anche la vendetta, la morte, l'abiezione, lo scatenarsi della bruttezza umana in un oceano di sofferenza. Ma quello che mi aveva conquistato a quindici anni, e che ho riscoperto intatto, è il desiderio scintillante di andare oltre, sempre più lontano, per cancellare le proprie tracce in modo che nessuno possa catturarti o ritrovarti, per dimenticare ed essere dimenticato, per immobilizzare il corso inesorabile del tempo, per essere per se stessi solo una piccola luce nella notte, nel caos dell’umanità, finché altri non si riattivino, con speranza o perché disperati.

    Iwdjel, capolinea della ferrovia e ultima fermata prima dell’ignoto, esiste ed è effettivamente esistito. Ho voluto prove geografiche prima di attraversare lo specchio, e ho voluto controllare. Ci credo. È una storia vera. Il filo conduttore della trama porta molto lontano, ma almeno sappiamo da dove veniamo. Da lì è partito, Kröger, nel caos della rivoluzione russa. Carestie, epidemie, massacri, guerra civile, incendi ... Queste sono le vicende palpabili del caos, ma il caos è anche nelle anime. Avviene sempre, in ogni luogo. Prende forme diverse, ma è intrinseco alla specie umana e quando scoppia, improvvisamente, allora non abbiamo che un pensiero, uscirne fuori, fuggire lontano, mettere la maggior distanza possibile tra la massa e noi stessi. Chi non è stato, almeno una volta, aggrovigliato a questo desiderio?

    In questo, la personalità di Kröger è emblematica. Nell’identificarsi con lui si prova onore, orgoglio, ma anche dell’euforia. Lui è gigantesco, è generoso, coraggioso, leale. Protegge i deboli e gli oppressi, e per questo, a volte, uccide. Applaudiamo. Nel caos, come comportarsi diversamente?

    Essendo di nazionalità tedesca, discendente di una ricca famiglia stabilita in Russia, la guerra gli porta in dote un’accusa di spionaggio, a cui segue la prigione e la deportazione: la Siberia!. Passa molte volte vicino alla morte: pagine bellissime e indimenticabili. Lo troviamo a brandelli e affamato, in un freddo infernale, sulla banchina della stazione di Iwdjel, condannato in semilibertà e assegnato a risiedere nel villaggio di Nikitino, a pochi giorni di distanza. Così come a Iwdjel finisce la ferrovia, a Nikitino termina la strada e si è perso, in una capanna sudicia, l'ultimo filo del telegrafo. Tutto intorno, boschi, nient'altro che boschi, come un muro invalicabile. Chi ha fondato questo villaggio in una tale solitudine? Nessuno lo sapeva. La fine della strada? L’ultima frontiera? Non ancora.

    Kröger sta recuperando salute, amici, un’esistenza, una famiglia. Sta anche facendo una piccola fortuna nel commercio delle pellicce. Si imbarca in nuove spedizioni nella foresta, andando sempre più lontano. Scopre villaggi sperduti dove è accolto come un salvatore: Sabitoje, da qualche parte verso il lontano nord, sconosciuto al mondo e agli uomini, e che ha perso la nozione di tempo. La sorpresa è totale. Sabitoje è una specie di piccolo paradiso, che vive in perfetta autosufficienza: lo svago nella foresta, il pesce nel fiume, i raccolti e i pascoli per il bestiame nascosti in radure invisibili. In questo villaggio regna l’Anziano, un vecchio saggio. Dio è pregato di notte, in una chiesetta che ha un campanile con una lampada dorata, ma la campana rimane silenziosa. Non suona più. Altri potrebbero sentirla. Perché l’Anziano sa che il caos si sta avvicinando. Kröger e lui formulano un piano: isolare completamente il villaggio. Cancellare i sentieri, lasciare solo una traccia impercettibile e nascosta, nota solo agli iniziati. Se ne costruiscono altri, più visibili, attraverso la foresta. Essi conducono però a morte certa, nel mezzo della palude. Il fiume viene navigato con zattere rimovibili così da seminare i cani degli inseguitori, arrivando fino a un albero da dove, nascosto sotto un rovo, si apre il sentiero che conduce al villaggio. La mimetizzazione è perfetta. Sabitoje si è isolato dal mondo mentre il sanguinoso baccano della rivoluzione esplode verso sud e ovest. Gli altri inviano pattuglie di assassini che però si fermano ai margini del villaggio. I trapper di Sabitoje catturati e torturati, muoiono subendo atroci sofferenze, ma senza parlare, senza tradire. Sabitoje è un villaggio dimenticato.

    E cosa ne sarà di Theodor Kröger all’interno di quest’isola sperduta? Ha messo al sicuro la giovane moglie e suo figlio. Così, con la sua slitta, sprofonda ancora più a est. Un trapper di Sabitoje gli disse di come una freccia, tirata da un arciere invisibile, era finita incastrata in un albero proprio sopra la sua testa. Una freccia di un modello sconosciuto. Ma erano passati più di cento anni da quando archi e frecce erano scomparsi tra le tribù della taiga. Allora di chi poteva essere? Forse altri uomini erano fuggiti da quel mondo cento anni prima di quelli di Sabitoje?

    Così Kröger si rimette in marcia, sulla strada per l’altrove, sempre più lontano. Al lettore scoprire dove…

    Jean Raspail

    Al limite più settentrionale della Russia una tagliola scattò stringendomi una gamba e un calcio di fucile mi percosse infrangendo il resto della mia ribellione.

    Quattro anni dopo rividi tuttavia la patria, pur essendo un altro uomo.

    Cercai di descrivere quei quattro anni e gli amici e i compagni coi quali, prigioniero, condivisi la sorte in fondo alla Siberia, nel modo in cui sentimenti e immagini vivono ancora incancellabili dentro di me.

    La Siberia!...

    È un concetto d’una gravità fatale, quasi inconcepibile, che nella sua potenza schiacciante si presenta a noi più attuale che mai.

    Non v’è paese che conosca alture più vaste o più profondi abissi dell’anima umana. L’eternità della sapienza incomprensibile vi toglie ogni limite anche alla natura, che senza freno dona e uccide, sia alla magica luce delle ardenti notti bianche, sia nella perduta oscurità di furiose tormente di neve.

    Questi ultimi trent’anni hanno mutato il volto e il palpito delle città giganti, ma lasciato l’impercettibile transito del tempo e di tutti gli uomini nella malinconia del paesaggio.

    t.k.

    Autunno 1950

    Parte prima

    IN CATENE

    Schlüsselburg

    L’acceleratore della piccola vettura sportiva rifiuta di affondare più profondo entro le viscere del motore. Con tutta la forza infusa da una esasperata energia umana la vettura è lanciata a una corsa folle. Palpitando impercettibilmente, la lancetta del contachilometri indica lo sforzo supremo della materia febbricitante.

    Cavalli impennati, grida e bestemmie umane, pali telegrafici che sfilano a velocità pazzesca, alberi, case, prati, boschi. Lasciandosi dietro una lunga scia di polvere, la vettura divora i chilometri.

    Né le curve, né le buche della strada frenano la velocità insensata della macchina. È il diavolo che viaggia verso l’inferno!

    Rannicchiato su me stesso, gettando ogni tanto un’occhiata all’orologio sul cruscotto, io cerco con violenza di sfuggire alla mia sorte.

    La mano sul volante non trema.

    Laggiù... finalmente.. una barriera chiude la strada... le ben note strisce bianco-turchino-rosso... la frontiera russo-finnica di Bjeloostrow...

    Soldati che urlano, imprecano, gesticolano, sparano, Brutalmente la macchina fende la folla, cozza contro la barriera, la spezza. Un giro al volante, un nugolo di spessa polvere... angosciose frazioni di secondi... e dinanzi a me, via libera.

     Come uno sciame di mosche ronzanti le pallottole mi fischiano d’attorno... un nuovo sciame... un altro ancora...

    Il motore vibra, frenetico...

    Raggomitolato, scorgo appena la strada; i miei occhi intravedono il radiatore schiacciato entro il motore; i fari sono stati strappati via, tutta una parte della carrozzeria e i parafanghi mancano. Con l’animo teso guardo il manometro: la lancetta cade. Il serbatoio è colpito... Forato!

    Eppure la macchina corre ancora. Conosco bene il paese, i crocevia della foresta finnica non hanno misteri per me. Ecco, finalmente, un gruppo di capanne. Fermo di colpo davanti alla stazione ferroviaria di Uusikirkko. Tre rintocchi di campana, accompagnati dal fischietto del capotreno, un prolungato tuh-tuh della locomotiva grigia. Con un salto sono giù dalla vettura, afferro la valigetta, corro verso il treno e balzo sul predellino dell’ultimo vagone.

    Uno sguardo ancora alla mia automobile... e la cupa foresta di Finlandia avvolge il convoglio in corsa.

    Ho trascorso l’intera giornata — è il 10 agosto 1914 — rintanato in una camera d’albergo a Tornea-Haparanda, la cittadina di frontiera tra Finlandia e Svezia.

    Dopo un’abbondante cena mi sono coricato; cerco di radunare le mie idee, ma un orgasmo mai provato s’è impossessato di me. E come se già non lo sapessi, con terrore constato quanto poco propizie alla fuga siano le chiare notti nordiche. Tutto m’inquieta, in quella camera. Dopo aver lasciato una somma di denaro sul tavolo, mi decido a uscire dall’albergo, e raggiungo la sospirata foresta; là, posso nascondermi nel fitto della boscaglia...

    Guardo l’ora, ogni tanto; ma a quanto pare, non vuol fare buio più di così. Con grande cautela, lentamente avanzando tra gli alberi, mi avvio verso la linea del confine, di cui m’è ben noto il tracciato. Finalmente giungo sul limitar della foresta.

    Qui tutto sembra tranquillo, non una foglia si muove. Qualche grillo stride fra l’erba. Qua e là, l’assonnato pigolìo d’un uccelletto selvatico vibra delicato nell’aria. Un fiato di nebbia si snoda in una lunga striscia sul paesaggio. Lontano, tra il chiaro balenare indeciso delle betulle, i miei occhi credono d’intravedere le candide pietre di Svezia: la libertà...

    Miraggio...

    Ancora una volta mi guardo attorno; mi raddrizzo, faccio un profondo respiro, prendo la rincorsa. Mai, nella palestra, ho corso con tanta foga.

    Avrò fatto un centinaio di metri, e odo, alle mie spalle, un urlare scomposto. - Ferma... ferma... ferma! Piovono alcune pallottole, irregolarmente; mi fischiano vicinissime.

    Io corro con tutte le mie forze, esultando già, poiché sono ben certo che le sentinelle non avranno la resistenza del mio giovane corpo allenato.

    Il terreno sta diventando accidentato, salto alcune buche, inciampo, cado, mi rialzo, riprendo la corsa...

    Un dolore folle mi fa stramazzare a terra... sento il mio piede pesante come piombo... sono capitato in una tagliola!

    Con disperati sforzi tento di aprire quel maledetto congegno, ma non vi riesco. Serrando i denti mi raddrizzo ancora, trascinandomi dietro il ferro muovo alcuni passi, zoppicando. Già le prime sentinelle mi sono addosso. Fortunatamente sono senz’armi. Meno colpi a destra e a sinistra, mentre sento il sangue sprizzarmi in faccia, e butto a terra i soldati. Dimenticando lo spasimo atroce, a stento riprendo la marcia, accelero il passo, ormai la mèta non è lontana.

    Ma ecco che arriva il grosso della brigata. In un attimo sono accerchiato. Tutta la mia bravura di pugile, tutto il lungo addestramento di ju-jitsu mi vengono meno, gli uomini mi si attaccano alle braccia e alle gambe. D’una testa più alto dei miei assalitori, un’ultima volta guardo alla frontiera, alla libertà. Ancora una volta, scrollando mi libero di quei corpi umani, spossati dall’insolita corsa; a forza di pugni e scossoni ne butto a terra qualcuno; vedo mani disarmate e annaspanti, poi, un calcio di fucile...

    Un dolore sordo, lancinante alla nuca... perdo i sensi...

    Mi risvegliai, mani e piedi legati, su una branda in una cameretta dalle pareti imbiancate a calce. La testa intontita non riusciva a riconnettere alcun pensiero; mi pareva d’essere tuttora in mezzo alla nebbia e di scorgere, in lontananza, le bianche pietre del confine svedese. Su una panca sedevano due sentinelle, armate fino ai denti, che alternativamente lottavano contro feroci sbadigli. Gravava nell’aria un odore di pane nero appena sfornato. Tornai a perdere la conoscenza.

    Allorché per la seconda volta mi ridestai, le sbadiglianti sentinelle erano state sostituite da altre due assai vigili, poiché appena ebbi aperto gli occhi mi liberarono dai legami, e mi portarono acqua da lavarmi e un’imponente porzione di polenta di grano saraceno con burro. La mia camicia insanguinata cascava a pezzi, anche i pantaloni avevo lacerati e macchiati di sangue, la faccia era gonfia, mi sentivo martirizzato per tutto il corpo.

    La prima idea che mi sorse chiara fu: ormai, sei bell’e spacciato! — Un filo di speranza me lo davano soltanto le mie relazioni con altissimi magistrati russi, fra i quali avevo molti amici.

    Baionette avanti, baionette alle spalle, così entro nell’ufficio. Dietro a un largo tavolo situato da un lato e coperto di scartafacci, due scrivani sciattoni mi guardano in cagnesco. Con prosopopea entra un colonnello, seguito da una mezza dozzina d’ufficiali. Come per un comando gli scrivani ricacciano il naso entro le scartoffie, mentre gli ufficiali mi guardano incuriositi e parlottano tra loro. Ma tacciono di colpo, come la porta torna a spalancarsi.

    È entrato un signore piccolo, largo di spalle, dalla faccia intelligente, ben vestito; senza curarsi degli altri viene direttamente verso di me; mi guarda profondamente e gravemente negli occhi, è poiché mi sono messo sull’attenti, con un cenno mi dice: So chi siete e come vi chiamate.

    E con poche frasi, riassume le vicende e le tappe della mia fuga. Confermo l’esattezza delle indicazioni.

    Egli si fa portare tutti i miei indumenti lacerati, esamina attentamente ogni cosa, persino i sandali gialli vengono ridotti in pezzetti minuti. Non si trova nulla...

    Avete servito nell’esercito tedesco?

    Sì.

    Con quale grado?

    Tenente di complemento.

    Fate parte del servizio d’informazione tedesco?

    No.

    Siete in rapporto con membri dell’esercito tedesco?

    Sì; si tratta di miei parenti.

    Queste persone mantengono con voi rapporti permanenti diretti o indiretti? Ricevete notizie frequenti?

    No, raramente. I nostri rapporti sono puramente familiari

    Quali lingue conoscete?

    Tedesco, russo, inglese, francese.

    Perché non vi siete fatto cittadino russo, dato che siete nato a Pietroburgo?

    Non avevo nessuna ragione e nessun motivo per rinunciare alla cittadinanza tedesca.

    Lo sapete che avete ucciso degli uomini?

    Lottavo per la mia libertà; non sono un assassino.

    Non ve l’ho domandato! Voi vi siete ribellato alle autorità russe. Siamo in guerra - questo dice tutto! Possiamo fare di voi quello che vogliamo... Lo sapete, come sarete giustiziato?... Siete sospetto di spionaggio!

    ….

    L’impiccagione, ecco quel che potete aspettarvi!

    Lo guardai fermo negli occhi.

    Non vi resta che un modo per sfuggire alla morte.

    La voce è tranquilla e pacata, ora, eppure ha un suono falso.

    La nostra Ochrana e il nostro servizio di controspionaggio sono così bene organizzati, che nulla ci può sfuggire. Avete vissuto abbastanza in Russia per giudicarlo da voi. Mentre v’interrogo, la vostra villa sul Kamennij Ostrow viene perquisita dalle cantine alle soffitte. I più minuti particolari verranno scrupolosamente esaminati. La vostra unica speranza sta dunque nella confessione. Se adesso dite la verità, sarete salvo; altrimenti, sarete impiccato.

    Non ho niente da confessarvi.

    Vi do mezz’ora di tempo, dice l’uomo, come se non avesse udito le mie parole. Spetta a voi decidere. Pensate alla vostra giovinezza, ai vostri genitori e alla vostra patria. Avete mezz’ora di tempo! Andate!

    Vengo ricondotto nella cella, dove mi portano da mangiare; roba buona, abbondante. Mi lasciano anche calzare un paio di vecchie scarpe. Per forza d’abitudine lo sguardo mi corre al polso, là: dove una volta avevo l’orologio; non v’è più che il bracciale di cuoio. Lo sfibbio, lo poso sul tavolo. Senza alcuna severità né dignità, i soldati di guardia mi osservano, curiosi; sembrano persino dimentichi dei loro fucili.

    Spaventati si ricompongono allo spalancarsi della porta. Vengo ricondotto nell’ufficio. Un silenzio di morte regna, al mio entrare.

    Ingegner Teodoro Kröger, la mezz’ora è passata!

    Le parole sembrano vibrare nell’aria, poi, come le figure che mi circondano, si raggelano nella disadorna stanza d’ufficio.

    Il mio occhio scorre le vecchie scarpe senza lacci, i miei pantaloni laceri, i brandelli insanguinati della camicia, il mio corpo abbronzato, gonfio, striato d’innumerevoli escoriazioni grandi e piccole, dalle quali lentamente sgorga il sangue.

    Vi chiamate così? Possedete questo titolo?

    Sì.

    Mi sono già messo in comunicazione con Pietroburgo, per telefono. La vostra casa è stata perquisita, il materiale d’accusa esìste. Dunque?

    Non ho niente da dirvi.

    È la vostra ultima parola?

    Sì.

    Per brevi istanti, dura la tensione. Poi, brusca e irosa, la rompe la voce del piccolo uomo:

    Via!

    Solo mentre mi conducono via, odo ridestarsi voci sommesse, accompagnate da tintinnar di speroni e di sciabole.

    Breve attesa, in cortile. Arriva una nuova scorta, composta da un sottufficiale e da quattro soldati con la baionetta in canna. Attraversiamo la piccola città, passiamo davanti all’albergo dove ho trascorso le ultime ore di libertà e ci avviamo alla stazione, seguiti da uno stuolo di curiosi che s’è andato radunando. Un carro bestiame è agganciato all’ultimo vagone del convoglio; là dentro trascorriamo tre giornate. A una velocità assai moderata sì va verso Pietroburgo.

    Alla Stazione Finnica arriviamo tardi nel pomeriggio. Si aspetta il cader della notte, quindi per vie ben conosciute, passando su di un ponte della Neva mi conducono alla Fortezza Pietro e Paolo. Si apre una porticina nel gran portale, alcune parole vengono scambiate, e la porticina si richiude su noi. Una cella oscura, una parca cena, mi butto sul tavolaccio di legno e cado in un sonno di piombo.

    Qualcuno mi scrolla per la spalla nuda. È un guardiano dal bonario viso di contadino, che mi mette in mano un foglio.

    Confessa tutto, è inutile mentire. Tutto è perduto. Tuo padre.

    Col cuore in gola mi guardo intorno. La cella è deserta. Nella porta c’è una minuscola spia, che attrae il mio sguardo... Un occhio, appena visibile, appena percettibile è là in vedetta...

    Le mani sul dorso, lungamente cammino su e giù, su e giù. Fuori splende il sole, un soffio dell’acqua vicina giunge sino a me, che cammino avanti e indietro, da un muro all’altro, poi in tondo e poi da capo avanti e indietro.

    Dal piccolo buco l’occhio fisso segue ogni mio movimento. Adagio la porta della cella si apre. Entra un signore alto, brizzolato, distinto, fisionomia acuta e impenetrabile. Ha in mano una grossa busta di cuoio.

    Con voce armoniosa, in tono convincente egli mi parla a lungo, insistentemente. Le espressioni sono ben scelte, d’una volpina sottigliezza. Con tratti magistrali egli mi descrive il padre accasciato dal dolore, la madre che da un momento all’altro è caduta gravemente ammalata; parla del copioso materiale d’accusa, garantisce che in tutti i modi mi verrà facilitato il viaggio in Germania... purché io gli dica i nomi di coloro che presumibilmente hanno tradito la loro patria.

    Dopo un po’ tace e aspetta che a mia volta io parli, dica qualcosa, una parola che gli permetta di costruire tutto l’edificio, per amore del quale egli si trova qui da me. I suoi occhi esaminano sagaci il mio viso, scorrono i cenci che mi coprono, e di nuovo risalgono al viso. Poi si guarda le mani ben curate, ogni dito, a uno a uno, con le palme si sfiora i capelli lisci.

    Immobile seggo sul tavolaccio, immobile l’uomo è li, al mio fianco, circonfuso da un effluvio di vita signorile. Egli riprende il discorso.

    Vedete, ingegner Kröger, tra due nemici ce n’è sempre uno generoso e uno vile. Il primo ha tutti i vantaggi, perché è il vincitore morale. Non vorreste esserlo voi?

    Alzo lentamente il capo, sorpreso, poiché ha parlato in perfetto tedesco. Parla di nobiltà d’animo, del dovere di ogni uomo di bollare a fuoco quegli elementi che rappresentano una piaga per il popolo e il paese; parla di onor militare, di parola d’onore, di capitolazione dinanzi a un magnanimo avversario, il quale ne ha trovato un altro pari suo; e della lotta per la patria, una lotta nella quale tutti i mezzi sono degni d’ammirazione, sia al fronte, sia dietro al fronte nemico, quando un uomo sostiene la causa del proprio paese, a rischio della vita. Il costrutto di quell’offensiva psicologica è tanto persuasivo, tanto giusto e conseguente, ch’io non vedo la possibilità di portarvi il più piccolo colpo.

    Vi do pure una possibilità di convincervi... Farò in modo che il vostro domestico venga interrogato in presenza vostra...

    Ve ne sarei oltremodo riconoscente, rispondo io.

    L’uomo si alza, va alla porta della cella, bussa e scompare altrettanto silenziosamente com’è entrato.

    Riprendo in mano il foglio scritto con la calligrafia di mio padre; osservo attentamente ogni lettera, ogni voluta, i punti, l’inizio dei singoli caratteri. E sempre ritorno al medesimo risultato: è un’abile contraffazione! È una contraffazione, sì. Oppure... gli ultimi avvenimenti, le intimidazioni, le misure coercitive, le minacce hanno alterato la scrittura sempre uniforme di mio padre? Mai l’ho visto debole. Forse anche la sua mano può tremare?

    Mi portano un buon pranzo, una bottiglia di vino, il mio tabacco preferito, del quale, tutto lieto, mi riempio la pipa. Sono ben trattato, mi viene data una cella nuova, pulita, soleggiata...

    Verso sera si apre la porta; appare il guardiano bonaccione, seguito dal mio domestico, e reca un vassoio con la cena, che senza una parola posa sul tavolo davanti a me. È presente anche l’elegante signore di prima. Il guardiano esce dalla cella.

    Ecco Achmed, il mio servo tartaro. Ha un’aria di gran signore. Curato come sempre nell’aspetto, capelli lisci, scrupolosamente tagliati; ben vestito in borghese, porta un leggero soprabito chiaro da estate e immacolati guanti bianchi. Il tondo viso bruniccio è rasato di fresco, gli occhi neri lievemente obliqui appaiono impassibili come tutta la sua fisionomia.

    Il vostro domestico vi riferirà tutto. Insisto soltanto sul fatto ch’egli non è influenzato da nessuno, che non è stato minacciato da alcuna misura coercitiva. Non è così?

    Sì, è così!, risponde il Tartaro in tono convinto.

    Io so che non ha detto la verità...

    Da ventanni e più Achmed era al nostro servizio. Bambino ancora, io mi trovavo durante un’estate con la mia nutrice in un piccolo podere di mio padre in Crimea, allorché Achmed cercò rifugiò presso di noi dal padrigno russo, il quale lo picchiava a sangue per ogni piccola mancanza. Per un centinaio di rubli, o poco meno, quello stesso padrigno lo vendette a mia madre. Il ragazzo ricevette un’istruzione discreta, frequentò una scuola superiore e diventò il mio fedele compagno in tutti i viaggi, in Russia e all’estero. Conoscevo la sua devozione, la sua fedeltà; sapevo che di lui mi potevo fidare incondizionatamente.

    Dite la verità intera al signor Kröger, senza alcun riguardo, osserva l’uomo, invitando con un gesto Achmed a parlare.

    I miei occhi incontrano quelli del Tartaro. D’un nero impenetrabile, essi albergano tutti i misteri della sua razza.

    barin... signore, inizia l’Asiatico con voce ferma e chiara, sul Signore Iddio vi giuro che dico la verità, e che non sono influenzato da nessuno... E parla; e intanto, l’altro non lo perde d’occhio un istante.

    Nell’angolo estremo di quegli occhi obliqui, entro le impercettibili rughe... là si nasconde la verità, in certe scintille appena avvertibili, che sprizzano a me nel modo a noi consueto.

    Mongolo puro sangue, Achmed è un degno rampollo del suo grande antenato Gengis Kan. Sulle sue labbra erra l’eterno cortese sorriso dell’Asia.. So ormai cosa pensare.

    E questo biglietto, lo interrompo, è veramente di mio padre? L’ha scritto lui? E porgo al Tartaro il foglietto con le poche parole.

    Il signor consigliere l’ha scritto in mia presenza, e m’ha ordinato di portarlo subito alla fortezza. Ciò senza un attimo d’esitazione, franco e deciso.

    Ancora una volta gli occhi dell’Asiatico sorridono per me solo...

    Debbo farmi forza per non buttargli le braccia al collo.

    Signor Kröger, non voglio insistere oltre, risponde il Russo. Vi lascio volentieri un paio di giorni perché possiate riflettere. Ritornerò quando saranno passati. Sta a voi decidere... E volgendosi ad Achmed: Venite; ormai, noi due il nostro dovere l’abbiamo fatto. Penserete voi a rimettere tutto in ordine nella villa del signor Kröger, è probabile ch’egli ritorni presto.

    L’uomo s’inchina. Io guardo dietro al Tartaro, che se ne va col suo viso impassibile. Sulla porta egli si volge ancora, i nostri occhi s’incontrano.

    barin, noi non vi dimentichiamo, vi aspettiamo. Tutto sarà in ordine in casa vostra.

    Sono rimasto solo.

    Mangio lentamente, con calma. La bottiglia di vino è quasi vuota. E ho vergogna di dormire così bene.

    Due giorni dopo, il Russo ritorna, sempre distinto e pacato.

    Desidererei sentire che cosa avete deciso, dottor Kröger.

    Non ho niente da dirvi.

    Questo significa che non volete confessare nulla?

    No, perché non so nulla;

    È la vostra ultima parola?

    Si.

    Peccato, proprio peccato. Desideravo aiutarvi. E, distinto e dignitoso, padrone di sé, a passi lenti esce dalla cella.

    Subito dopo venni condotto col battello alla fortezza di Schlüsselburg.

    Il riflesso del sole al tramonto illumina davanti a me la gran mole tetra che rappresenta il terrore del grande paese, la fortezza di Schlüsselburg, la Bastiglia russa. La sconfinata squallida piana intorno alle mura ciclopiche accentua l’opprimente imponenza della gigantesca struttura.

    L’orrore s’aggira perennemente intorno a quel luogo. Quante imprecazioni di creature martirizzate a morte non hanno risuonato fra quelle mura grigie, battute dalle intemperie! Muti testimoni, esse videro raggelarsi il sangue nelle vene di tanti infelici. Perciò sono diventate cupe e paurose per tutta l’eternità. Il sole stesso che vi batte appare temporalesco, senza calore.

    La fortezza di Schlüsselburg fu edificata nel secolo decimoquarto dal Granprincipato di Novgorod. Allora la chiamavano Orjescek, che significa piccola noce (forse perché tanto dura). Mutò il nome in quello di Schlüsselburg quando gli Svedesi la conquistarono nel secolo decimosettimo. Intorno al 1700, l’esercito russo sotto lo Zar Pietro il Grande la prese d’assalto dopo un sanguinoso combattimento. Da allora perdette la sua importanza strategica, ma acquistò la sua terribile fama di prigione di Stato per i delinquenti politici. L’orrore crebbe durante due secoli. Fra le sue mura si svolsero le più bestiali torture di cui mente umana è capace: la sua sinistra fama non si estese soltanto per tutta la Russia, si sparse anche all’estero. Vi sono in essa apposite casematte per allogarvi strumenti di tortura, ganci, martelli di varie specie, tenaglie, anelli, per spezzare, mutilare, strappare le membra, le dita delle mani e dei piedi, cavare gli occhi. E altri strumenti ancora, dei quali non si riconosce l’uso.

    Ci fanno proseguire...

    Ci lasciamo a sinistra le prime alture prospicienti la fortezza, e ad un tratto ci troviamo di fronte a mura enormi, a bastioni e torri di un’altezza, di un’imponenza enorme. In uno dei bastioni si apre una porta: l’unico ingresso della fortezza. Al disopra, in lettere dorate, spicca l’insegna:

    Torre imperiale.

    Il simbolo dell’assolutismo!

    La porta, sotto un arco opprimente, si apre.

    L’ultimo passo...

    La nostra silenziosa colonna, sotto gli spadoni sguainati, entra. La luce crepuscolare cade sulle baionette, sui volti oscuri, chiusi, dei guardiani.

    Sostiamo nel cortile. Alte mura grige lo circondano da ogni lato, nella loro schiacciante imponenza, tetragone, indifferenti ai secoli e agli uomini. Stretti gradini consunti, un porticato malandato, piccole finestre ingraticolate... orribile quadro di tutti gli spaventi dell’inquisizione. Corridoi angusti, con ai due lati porte ferrate, celle esagonali che escludono ogni possibilità di nascondersi, un finestrino in alto, nessuna visuale sulla libertà. La cuccetta di ferro è cementata sul pavimento, altrettanto il tavolino e una piccola scranna collocata davanti a questo. I passi di altri prigionieri hanno incavato il pavimento in certi punti, e i nuovi prigionieri incaveranno ancora più fondo.

    Spaventoso, il silenzio sta in agguato. Da qualche parte viene un cigolare di catene. Guardiani atletici, i loro segnali sempre uguali: Vieni! va! .

    Ricordi di gioventù... Immagini che non si cancelleranno giammai...

    Il cortile è grande, con una sola uscita, che conduce in un altro cortile. Laggiù, isolato, il massiccio di Schlüsselburg, la fortezza nella fortezza. Le mura, alte una quindicina di metri, sono formate da pietroni squadrati. Da esse si innalzano alcune torri, fra cui la famigerata torre dei principi, della quale spesso si parla a proposito di esecuzioni capitali.

    Ai tempi di Pietro il Grande e dei suoi successori gli abitatori di questa torre si reclutavano fra l’alta aristocrazia. Tra essi, ai tempi della Zarina Joanovna, anche l’onnipotente dominatore, Byron, lo Zar senza corona. Poi il principe Dolgoruki, figura ben nota. Tutti vi furono torturati, giustiziati spietatamente. Li seguì il caduto Zar Joan, che passò otto anni nella torre, e, ad un tentativo di evasione, fu ucciso a fucilate dai guardiani.

    Nella torre entrarono anche persone di più bassa estrazione, che furono torturate allo stesso modo... Creature umane murate vive...

    Non si pronuncia una sola parola. Qui ognuno, guardiano o prigioniero, conosce la propria via, perciò tutti tacciono. Non s’ode che l’eco di passi duri e pesanti, seguiti da altri angustiati e timorosi: e su questi passi mai, mai i prigionieri ritorneranno, perché conducono verso la morte.

    Una serie di gradini in discesa...

    Il gelido fiato di questa terra di orrore e di maledizione mi alita incontro brutale. Odore di umidità e di putredine. Topi mi sgusciano tra i piedi, che subito incontrano pozzanghere. Uno sgocciolio monotono e continuo d’acqua, da chissà dove.

    Se tra decine d’anni, tra secoli e millenni queste mura saranno cadute in polvere, per tutta l’eternità non cesserà di aggirarsi attorno a questo pezzo di terra l’orrore, e qui si daranno convegno le anime dei morti, a maledire.

    Alla tremula luce delle fiaccole mi si spalanca dinanzi un nero corridoio, il quale termina nel nulla, là dove non c’è più luce. Ai lati, piccole porte incrostate d’umidità recano numeri appena leggibili.

    Una di queste porte si apre, stridendo sui cardini arrugginiti; una mano mi spinge verso le larghe fauci spalancate d’una notte che mi guarda immota. La porta geme; ricade un pesante chiavistello.

    E m’ingoia un nero nulla, senza fine e senza speranza.

    In qualche parte si sente gocciolare; una stilla dopo l’altra cade. Così esse misurano qui il tempo fino alla morte, fino alla liberazione.

    In ogni angolo sta in agguato il silenzio; con tutti i nervi lo percepisco. Da ogni parte mi circonda cauto eppure sicuro. Dapprima timidamente, poi brutalmente tende i suoi artigli verso il mio corpo, verso la mia testa. Finalmente mi pare di vederlo: in una mano porta la morte, nell’altra la follia, il cui riso agghiaccia il sangue nelle vene agli uomini. Ma la follia... è forse il non-essere su questa terra, la felicità. Nessuno che sia stato qui vi è sfuggito...

    Chiudo gli occhi per non vedere il nulla. I nervi sono tesi fino allo spasimo. A poco a poco, soltanto concentrandomi rabbiosamente, riesco a rilassarmi.

    La porta. Dov’è la porta?

    La porta mi fa barcollare in qua e in là; rigettandomi indietro mi aggrappo alla porta arrugginita. E sentirmela sotto le dita, potermi sostenere all’unica cosa reale mi pare un bene indicibile.

    Le mie dita, passando e ripassando sugli occhi, constatano che sono spalancati. Eppure non vedono nulla, nulla... I nervi ottici sono tesi fino al limite del possibile, tanto che le orbite mi dolgono sordamente. I miei occhi... non vedono. Sono dunque cieco?... È mai possibile che questo frenetico sforzo di voler vedere qualcosa tutt’a un tratto mi abbia portato alla cecità? È possibile?

    Lotto disperatamente; ma il coraggio è poco contro una viltà che è grande e sopraffacente. Lotto contro il terrore dell’oscurità, e di ciò che essa cela nel suo grembo. La lotta è lunga e stremante. La viltà ha finito per vincere, poiché non oso più staccarmi dalla porta...

    Poi, quel nero abissale che da ogni parte mi avvolge, quasi a forza finisce per trarmi via. Non so più difendermi...

    Debbo, a ogni costo voglio sapere dove mi trovo, tutto debbo palpare; come una cosa concreta voglio afferrare, scrutare il buio intorno a me, quasi un oggetto palpabile, come la mia porta.

    E sempre torno a cercarla, ad aggrapparmi a essa. Poi, le mie mani scorrono lungo i muri. lì sento umidi, a tratti il cemento è sgretolato. In quei punti deve essersi formata una muffa, o qualche vegetazione, poiché sono molli e scivolosi. Prudentemente metto un piede avanti all’altro sul suolo che non vedo, nel nero nulla senza fine. E se vi fossero trabocchetti, tagliole, fossati in cui dovessi inciampare e cadere? I piedi tastano il terreno, le mani, le dita cercano appoggio alle minime sporgenze del muro. Non m’abbandona l’impressione d’aver qualcuno alle spalle, qualcuno che sta per ghermirmi, buttarmi a terra, strozzarmi.

    È l’inizio della follia... ma le mani che cercano, che indagano non incontrano che il vuoto.

    Il mio piede tocca instancabilmente ogni minimo pezzetto di quel suolo scivoloso, melmoso; eppure, nonostante la mia persistenza, non avanzo che con lentezza esasperante. Tutto il mio corpo si trova in una tensione continuata, che non cede.

    Cerco di individuare il primo angolo, ma non lo trovo... Curioso: la cella non ha angoli, oppure nel corso dei secoli la putredine e l’umidità lì hanno smussati? A passo a passo avanzo. L’invisibile cammino non ha fine. Saprò ritrovare la porta? Strano: ancora non ho trovato nemmeno il primo angolo, eppure ho già fatto tanta strada.

    D’un tratto, odo sfuggire dalle mie labbra un gemito gioioso. Le mie mani hanno di nuovo toccato la porta. La conosco, ora, ed è per me una grande conquista, poiché rappresenta l’unica realtà palpabile ed esistente: i miei occhi l’hanno veduta all’entrare nella cella.

    Questa casamatta è di una vastità inconcepibile. Spazio e distanza si annegano, si annullano in essa, e con la certezza di trovarmi in un ambiente vasto m’invade un senso di grande calma e benessere. Già lo spazio è quasi diventato un concetto costante. Respiro profondamente.

    Ma non a lungo mi concedo il riposo. Qualcosa mi spinge a esplorare più attentamente la casamatta, a sentirmela sotto le dita, a impararla a memoria, a vederla con occhio interiore.

    Ora non procedo più a tentoni lungo il muro, ma avanzo dritto, o almeno, così tento di fare. Di nuovo l’invisibile forza mi assale, vuol buttarmi a terra. E la porta, alle spalle, mi protegge.

    I miei piedi tastano il suolo viscido adagio, con cautela. Prima l’uno, poi l’altro. È un cammino faticoso, che mi tocca indovinare.

    Con le braccia aperte vado annaspando, ma le dita allargate a ventaglio non raggiungono nulla. Solo allorché incontrano la bassa volta, ne cade un po’ di terriccio, o di cemento, che si sgretola. Ho anche sentito qualcosa che striscia, che ratto sguscia via; sono ragni, forse, perché me li sento correre giù per il corpo seminudo.

    Ogni tanto mi fermo, mi riposo sulle gambe allargate e resto in attesa, in ascolto di qualcosa che mi sembra di dover percepire... Nulla... silenzio assoluto, nient’altro che lo stillare costante della goccia, l’orologio della morte, della liberazione destinata a venire...

    Riprendo la via a tentoni...

    Ora le mie mani dovrebbero aver toccato il muro opposto alla porta. In un lampo, come su uno schizzo topografico il cervello costruisce le misure del vasto ambiente: lunghezza, larghezza, altezza sono dati ormai positivi, per il mio spirito.

    Un attimo dopo, qualcosa mi scivola sui piedi, mi salta fino al ginocchio, squittisce, mi si insinua nel pantalone. Un topo!

    L’improvvisa scoperta, schifosa alla mia sensibilità, mi fa balzare indietro. Ora l’invisibile, a lungo e pazientemente in agguato, ha avuto completamente ragione di me. Mi scaglia da una parete all’altra, barcollo, ma ovunque incontro una parete che mi ferma. Il topo ciondola attaccato al mio pantalone, ora son gettato contro la porta, e là mi abbranco, irrigidito di ribrezzo, d’orrore e di spavento. Il topo squittisce, a tentoni lo cerco, lo afferro e lo butto lontano. Odo il tonfo, sulla melma o nell’acqua.

    La casamatta inconcepibilmente vasta sarebbe dunque uno stabbio?! Una gabbia?!

    Il concetto di limitazione dello spazio mi mette un vero orgasmo, che aumenta sino alla frenesia. Aria, aria... Mi sento soffocare. Ho scoperto che lo spazio in cui mi trovo non può misurar più di due metri quadrati.

    Convulsamente chiudo gli occhi, mi premo forte le palme sugli orecchi: per qualche minuto almeno non udrò lo sgocciolio d’acqua: gli occhi tesi a frugare il buio mi dolgono, il silenzio per gli orecchi è uno spasimo. Ma quanto tempo si può resistere così? Già il sangue mi martella le tempie, le braccia mi ricadono, l’udito torna a tendersi, gli occhi riprendono a fissare, sfinito mi lascio cadere a terra e mi appoggio contro la porta gocciolante umidità. Umido è tutto il mio corpo seminudo, umidi sono i cenci, e le mani.

    Cade ima stilla dopo l’altra, con odiosa ossessionante regolarità. Il corpo si accascia, non mi muovo più. Che sia già la morte... e io non possa più difendermi?...

    Sole, caldo, smagliante sole... Rigogliosi prati estivi, fiori multicolori, aria mite... Io cammino e cammino, e tanta, bellezza non ha fine... Il mondo è vasto... Note, care immagini.

    Il cuoio capelluto mi si raggriccia! Mi si rizzano i capelli! Qualcosa ha urtato contro il mio piede...

    Risveglio improvviso, gelido spavento, la realtà. Le dita tese a difendermi, toccano una materia calda, liquida - carne, pane, aringhe o...?

    Sole e prato e fiori: è stato un sogno.

    Avidamente trangugio il liquido caldo, mastico le poche croste: è pane, pane stantio che sa di muffa; o forse sono le mie mani, che hanno esplorato la cella e toccato ragni e topi? Ora soltanto che la ciotola di legno è vuota, ora sento i morsi della fame. Ignoro quante volte mi sia stato sospinto nella cella il recipiente. Le tenebre, le grandi fauci costantemente spalancate e informi, il silenzio, mi sembra che tutto ciò mi circondi da un’eternità.

    Talora lo stillare nel nero nulla si accelera; allora uno zampillo d’acqua sgorga improvviso, l’acqua sale sino al malleolo, sino al ginocchio, alle anche, al petto, e poi, con la stessa velocità com’è salita, ricade.

    Quando l’acqua sale nella mia casamatta, io so che su Pietroburgo, sul Golfo di Finlandia soffia vento di ponente, e fa salire la Neva, la quale non trova sbocco sufficiente dal lago Ladoga, sulle cui rive è situata la fortezza di Schlüsselburg. È un vento propizio per navigare a vela. Chi manovra ora la Procellaria? Il mio bel panfilo bianco, le comode cabine, la camera da letto tutta bianca, vele che garriscono al vento, piccole onde notturne che mormorano contro lo scafo...

    In un angolo, se così può chiamarsi, tanto è sbocconcellata la parete, corrosa la terra - mi sono costruito una specie di rifugio. Là dove il muro offriva maggior resistenza, con le mani ho scavato un gradino. Se l’acqua dovesse salire più alta ancora, potrò sempre rifugiarmi lassù, per non annegare. Vorrei essere più furbo degli altri. Chissà se i miei predecessori avranno avuto quest’idea?

    I miei predecessori! Che uomini saranno stati? Perché vennero condotti a Schlüsselburg? E saranno veramente periti, tutti quelli che furono rinchiusi qui dentro? Ci sarà stata, nella pratica che riferiva sulla loro vita e sulle loro azioni e delitti, sull’ultima pagina la profana parola, morto? Morto dopo poche settimane nella cella oscura...?

    Le loro tracce sono cancellate, forse la loro memoria è già scomparsa. Dalla sorte erano designati a nutrire l’orrore delle casematte, affinché assalisse altri uomini, affinché all’umanità, alla terra e al mondo intero fosse conservato per tutta l’eternità.

    Ma le ombre sfuggono attraverso muri e porte di ferro, scivolano per i corridoi, liberamente e a loro piacere si muovono in questo regno, poiché nessuno mai ha potuto fermarle, e sbarrar loro la via. Occhi stanchi soltanto, occhi presso a chiudersi per sempre, avranno potuto scorgerle, quelle ombre. Esse venivano a visitarmi, e m’erano compagne.

    Sia che rassegnate e affrante, silenziose e senza un lamento, o invasate d’orrore, di ribrezzo e follia, urlanti, smanianti, maledicenti siano andate incontro alla morte, tutte venivano a raccontarmi della loro vita, della loro morte... della liberazione.

    L’unico rumore ch’io percepisco, in tutta la giornata, è quello della ciotola di legno, che viene introdotta da non so quale apertura. Deve trovarsi sotto la porta, ma lo schifo di sozze bestie che strisciano invisibili m’impedisce d’indagare.

    Posa la ciotola accanto alla porta, mi ha detto una volta un guardiano. Donde venisse la voce non lo so. Da allora in poi, poso sempre la ciotola presso la porta; in silenzio, non voglio parlare, quella gente non deve credere ch’io voglia attaccare discorso con loro.

    I topi sono i miei peggiori nemici. Si precipitano sul mio cibo, e bisogna cacciarli via. lì acchiappo, e lì getto violentemente contro la parete, ammollita dall’umidità. Allora non vengono più. Quando zampilla l’acqua l’adopero per lavarmi le mani.

    Parlo quattro lingue. Traduco tutto ciò che ancora la mia memoria ricorda. A minuscoli passettini misurati passeggio anche per la casamatta: quando il mio dito ha toccato il muro viscido, me ne ritorno indietro. Conosco ora perfettamente la mia cella, e ciò mi rassicura.

    A volte soffro di idee coatte. Credo di sentire la stilla perenne sulla mia fronte, come se m’avessero legato sotto di essa, e io non potessi nemmeno voltar la testa. Allora, a tentoni cerco la porta, e il duro contatto mi calma.

    Talvolta, seduto col dorso appoggiato alla porta, rabbrividisco dello schifo che mi circonda. Grossi topi mi corrono sulle gambe, ragni mi si arrampicano addosso. Allora, a pugno stretto, mi metto a camminare avanti e indietro, o muovo le membra intirizzite in esercizi ginnastici, sino a che non m’assale la disperazione. Mi allineo, allora, in invisibili file di soldati, e le comando. E con gran precisione obbedisco ai miei comandi.

     Ehi, voi! Tenetevi dritti, quando siete davanti a me! - E la mia stessa voce m’incute timore.

    Davanti a chi mi trovo, infine? Davanti alla morte? Davanti alla follia? E se tutto questo divagare fossero già i sintomi della follia che si avvicina? Essa è qui, è presente ovunque, è in agguato, è nei topi, in qualche altro orrido formicolare animalesco che non vedrò mai, forse...

    Ancora sono forte! Fino a quando? Non c’è qualcuno che silenziosamente ride di me? Ride della mia resistenza, che un bel giorno, fatalmente, dovrà andarsene in frantumi? Ecco! Da capo! Pianissimo, in un punto di quella compatta impenetrabilità...

    L’orecchio, sempre teso ad ascoltare, a poco a poco stanco dell’inutile e vana fatica di cogliere il minimo rumore, ha udito improvvisamente stillare dell’acqua... un gorgoglio inconsueto, il quale indica che l’acqua sale. Di nuovo! Ho i piedi bagnati, potrei raffreddarmi... allora mi ammalerò, sarò vinto, perirò...

    Lo stillicidio nella casamatta è incessante; l’acqua sale. Ho l’acqua sino alle ginocchia... sino alla vita... sino al petto... e continua a salire. Aiutandomi con le mani e coi piedi, raggiungo il mio ben preparato rifugio. L’acqua continua a salire. Non c’è più che un mezzo metro fino alla volta, contro la quale m’inarco, curvandomi sull’acqua, Sento galleggiare, davanti alla mia faccia, la ciotola di legno. Due topi, stretti l’uno all’altro, mi sì sono appollaiati sulla nuca. Un terzo arriva a nuoto, a forza di morsi si contendono il posto. Malgrado abbia le braccia già sommerse, con la destra riesco a buttar giù le brutte bestie, ma ecco che ritornano, si mordono, squittiscono.

    Una grossa zolla s’è staccata dalla volta, e mi cade sulla testa e sul collo; i topi, improvvisamente, sono fuggiti; da un chioccolio vicino sento che la ciotola è affondata.

    ... cani...! infami...!

    Attorno a me l’acqua gorgoglia piano; nell’oscurità è un riso silenzioso sul mio ridicolo scoppio d’ira.

    L’acqua mi tocca il mento. Non mi resta che una ventina di centimetri. Per guadagnare un po’ di spazio, schiaccio la tempia destra contro la volta. I ragni mi strisciano sul viso, mi mordono. E l’acqua continua a salire...

    Anche l’orecchio destro è sommerso; storco la bocca, per non ingoiar la fetida fanghiglia nera.

    Se il mio rifugio cedesse, ora?...

    Erranti pungenti occhi che ardono di luce sovrannaturale, beffarda lingua protesa, avidi denti ferini... il ceffo ride, ora lo scorgo bene, sempre più mi si avvicina, mani fredde si tendono ad afferrarmi, palpeggiano lungo il mio corpo, se ne impossessano, lo riducono all’impotenza... ecco, la vedo, la follia!

    ... Attenzione! L’acqua si abbassa! È già caduta! L’acqua cade! Continua a cadere.

    A stento le parole escono dalla bocca storta. È assurdo, ma...

    No, è un fatto!

    L’acqua cade, come se la cella avesse un condotto di sbocco.

    Sono vivo...

    Altre due volte ancora mi tocca superare quella lotta. Appena obbedisco ancora ai miei ridicoli comandi. La mia brutalità è annientata.

    Due volte devo rodermi le unghie, e così calcolo il tempo... e so che sono trascorse da otto a dieci settimane.

    La terra si apre, stride il chiavistello alla mia porta che si spalanca. Fosco chiarore d’una lanterna.

    I miei occhi vedono!

    Scintillio di baionette, facce cupe, pozzanghere d’acqua.

    Avanti! Camminai

    Una volta ancora tocco la mia porta, e la sento dura... Un corridoio buio, dove il piede affonda nella mota, poi, una fila di gradini, una scialba luce mi ferisce gli occhi, mi trovo nel cortile.

    Piove a dirotto.

    Levo il viso al cielo, tremando. Il mio viso, le mani protese s’inumidiscono, un’acqua pura bagna le mie labbra, una forza soprannaturale mi solleva verso l’alto, quasi che il mio corpo avesse perduto la forza di gravità... E stramazzo a terra...

    Mi ridesto lentamente, come da una narcosi. Mi colpisce un suono di voci, che tuttavia non comprendo. A poco a poco un senso di benessere mi si diffonde lentamente per tutto il corpo, dopo tanto tempo torno a sentire il contatto con la lana; qualcuno mi ha coperto, e proprio quest’impressione, unita al calore che invade le mie membra, mi ridesta completamente.

    Tendo l’orecchio a quelle voci...

    Ve lo avevo ben detto, che non sapevo quando il Tedesco sarebbe stato in grado di essere interrogato. Il cuore è molto indebolito.

    Ma vivrà, oppure...?

    Sì, non c’è dubbio. Ma dovete avere pazienza, due o tre giorni almeno.

    Vi stavo appunto raccontando che Nicola Stepanovic è stato degradato al rango di soldato semplice. Si era completamente dimenticato del Tedesco, è un vero miracolo che sia rimasto in vita. Sei uomini sono annegati nelle casematte, l’acqua era salita troppo alta, e sia che l’abbia fatto apposta, sia per trascuratezza, Nicola Stepanovic non ha avvertito. Per amor di Dio, Gregorio Fadeevic, vedete un po’ voi, che quest’uomo si trovi presto in grado di subire un interrogatorio! Le autorità sono oltremodo indignate.

    Ma non sono mica un mago, io... tutti lo sanno, in che stato era ridotto quell’individuo. Un colosso simile, e da settimane si trovava a pane e acqua, che cosa volete che ne rimanesse? Bisognerà lasciar tempo al tempo, ora; gli si vorranno ben porre delle domande alle quali dovrà rispondere. Riferite quel che ho detto. Io non posso fare altro.

    Non gli date troppo da mangiare, però, è meglio che resti piuttosto debole e scosso...

    Lo so. Andate, adesso!, fu la brusca risposta.

    Le voci tacquero, una porta si chiuse. Qualcuno camminava su e giù, udii smuovere una seggiola, poi un frusciar di carta. Un odore penetrante di acido fenico mi pungeva le mani.

    Qualcuno mi prendeva il polso, innumerevoli volte controllava le pulsazioni. Accidenti, accidenti!, udivo brontolare. Un ago mi penetrava nel corpo. Che razza di belve umane... Speriamo che questo disgraziato non mi muoia sotto le mani!, tornava a mormorare la voce, e una mano morbida mi si posava sulla fronte, mi rimboccava le coperte. Un passo andava avanti e indietro, con la regolarità d’un pendolo...

    Sollevo le palpebre stanche. Una cameretta imbiancata a calce, alla parete di faccia una larga finestra a inferriata. Su un tavolino, boccette, materiale da fasciatura, ferri chirurgici luccicanti; accanto, una seggiola. Sono coricato su un letto da campo; mi ricoprono due coperte da cavallo, color grigio scuro, le lenzuola sono un po’ ruvide, ma pulite. Sotto la testa ho un guanciale bianco e morbido.

    Subitamente, come in un caleidoscopio, visioni vanno e vengono, s’incrociano, si separano. La vita delle scorse settimane... Alla morte nella tenebrosa cella son dunque sfuggito. Che cosa verrà, ora? L’interrogatorio e, poi, la sentenza...

    Il destino e la mia buona stella m’han sempre favorito, una sorte prodiga e benigna m’ha sempre sorriso.

    Figlio di genitori ricchi, ho conosciuto poco amore familiare, e scarsa tenerezza.

    Mio padre, alto e biondo, era il tipo geniale e brutale di quella civiltà europea capace d’ingaggiare la lotta col mondo intero. Uomini che sanno dissodare ogni minimo pezzetto di terra. Mia madre, piccolina e di buona razza, accorta e previdente, graziosa e sempre ben messa, amministrava da sé il proprio patrimonio, e il tempo che le restava lo dedicava agli obblighi mondani. Occuparsi dei bambini passava per poco signorile. E poi, non ne avrebbe avuto tempo. Tutto uno stato maggiore di ben pagate governanti, precettori e domestici popolava la nostra casa. C’era inoltre la mia balia, la quale faceva da angelo custode contro quei geni servizievoli. Stupita e diffidente ella guardava, nei miei quaderni, quei geroglifici che più tardi, a prezzo d’aspre fatiche, finivano per trasformarsi in lettere dell’alfabeto, ma che per lei rimanevano un enigma. Le controversie fra me e i precettori, ella le componeva con certi suoi sistemi originali e risoluti, e quando quei figli di cani non cedevano, batteva il pugno sul tavolo: Adesso lasciatemi un po’ in pace il mio bambino! E l’aguzzino in causa ammutoliva. Alla sera quella donna, alla quale volevo più bene che a mia madre, mi conduceva nella mia camera da letto, mi faceva inginocchiare e s’inginocchiava accanto a me, componeva in preghiera le mie inesperte dita, e, senza capire ma devotamente, io ripetevo davanti alle sacre immagini e alla lampada votiva le parole semplici della preghiera. Attraverso le ciglia socchiuse io vedevo la mia balia fare su di me il segno della croce e, intanto, in silenzio sorridere amorosamente. Il riflesso della fiamma cadeva sui biondi capelli, spartiti nel mezzo con scrupolosa cura. Tutto intorno a me spirava pace, in quei momenti, e, felice, le rendevo il sorriso. Anche la notte, appena mi muovevo, me la trovavo vicina, che sollecita mi rimboccava le coperte, e mentre già riprendevo sonno udivo le buone parole ch’ella mi sussurrava.

    Al mattino, era di nuovo li, bella, affettuosa e scrupolosamente linda; il suo radioso sorriso era il primo saluto che ricevevo.

    Noi due uniti portavamo avanti una quotidiana battaglia contro i nostri nemici, coloro che mi toglievano la libertà.

    Indimenticabile, come un filo rosso senza fine, corre attraverso la mia vita la fede in Dio. La fede incrollabile, che nella sua ingenuità mi ha inculcato quella donna ammirevole.

    Una volta ero gravemente ammalato. Un consulto medico non dava più speranze. Qualcuno, incautamente, lasciò cadere la parola morire.

    Dimmi, ora devo morire? - domandai alla mia balia.

    Ih! Che frottole, i dottori non sanno quel che dicono.

    Ma allora perché piangi?

    Perché me la piglio con tutti quegli scimuniti!

    Dimmi, fa male morire?

    No, piccolo mio, non fa male.

    Ma che cos’è, il morire, quand’è che si muore? Si sa prima? E non ci si può fare niente?

    Morire è la più bella cosa che ci sia nella vita m’insegnò la balia. Il buon Dio è il tuo vero padre, e a casa Sua ti troverai felice come non potrai mai esserlo in terra.

    La notte, mi svegliai a diverse riprese. Lontane, alla luce della lampada, numerose boccette di medicinali mi occhieggiavano ostili, perché non volevo più saperne di loro. Il babbo mi lasciava fare a modo mio, e, bonario, opinava: Sei un vero Meclemburghese, un cervello balzano! Tale e quale come me! Inginocchiata accanto al mio letto, la mia materna protettrice pregava. Trassi a me la sua testa bionda, e la baciai. Ella si coricò vicino a me, la mia testa calda e febbricitante sulla vellutata pelle del suo seno, e così mi addormentai.

    Mi svegliai che albeggiava, tristemente deluso. Non ero morto.

    Un bisbiglio correva per tutta la casa: La balia ha risanato il bambino, a forza di preghiere. Dopo di che, mio padre le regalò una magnifica casa, nel suo villaggio natio.

    A dieci anni mi misero in collegio in Svizzera. Il distacco dalla mia balia fu un’impressione che per mesi si riverberò sul mio spirito. Fu il mio primo amaro dolore. Con i nuovi camerati strinsi cordiali rapporti d’amicizia. Mio padre procurò ch’io avessi un’ottima educazione sportiva, e maestri di prim’ordine in tutte le materie; un attestato segui all’altro, poi vennero grandi viaggi per il mondo intero, ed eccomi diventato un uomo, dai pugni sodi, dall’animo spensierato e dai ridenti occhi nordici pieni di baldanza. Alla mia materna amica scrivevo al villaggio le più ardenti lettere

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