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L'ombra del Dragone
L'ombra del Dragone
L'ombra del Dragone
E-book207 pagine2 ore

L'ombra del Dragone

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Info su questo ebook

Proseguono le avventure di Keira de Jong: dopo La Fenice di Giada, Mauro Maltoni ci ripresenta la sua avventuriera dal torbido passato in un nuovo intricato caso di spionaggio internazionale. Questa volta lo scenario è quello della Cina dopo la recente epidemia del coronavirus Covid-19, e il conseguente tracollo economico che ha travolto il mondo intero. Nella città di Wuhan che si risveglia dall’incubo del dopo-epidemia si incrociano gli interessi politici, militari ed economici delle grandi potenze mondiali. La criminalità organizzata e la sottile invasività della rete con i suoi Social Media sono le armi attuali con cui gli stati e i grandi gruppi di potere combattono le nuove guerre del ventunesimo secolo. A margine di questa nuova vicenda, alcuni flashback che come nel primo libro della serie, ci fanno luce sul turbolento passato della nostra spregiudicata Fenice dagli occhi verdi.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2023
ISBN9781716517136
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    Anteprima del libro

    L'ombra del Dragone - Maltoni Mauro

    Mauro Maltoni

    L’Ombra del Dragone

    Copyright © 2020 by Mauro Maltoni

    Tutti i diritti riservati sull’opera letteraria.

    DISCLAIMER

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    Prima edizione: 2020

    ISBN 978-1-71651-713-6

    Per alcune situazioni descritte nella presente opera

    se ne consiglia la lettura a un pubblico adulto

    Se cambi il modo in cui guardi le cose,

    le cose che guardi cambieranno.

    Wayne Dyer

    Prologo

    Mae Sam Laep

    Mae Sam Laep... Un puntino perso sulla carta geografica dell’indocina. Se guardate su Google Maps, troverete giusto le foto scattate da qualche raro appassionato di motociclismo, che con il suo enduro si è spinto fin quaggiù. Si tratta solo di una fila di casette e un minuscolo ufficio postale, perse nel rigoglio verde della foresta tropicale; uno sperduto villaggio arrampicato sulle rive limacciose del fiume Salawin, oppure Saluen, come lo chiamano sulla riva opposta.

    Già, perché questo corso d’acqua è anche il confine naturale che segna la frontiera tra Thailandia e Myanmar, fra la provincia di Mae Hong Son e i territori delle tribù Karen.

    Come dite? Sto sparando nomi di luoghi che a voi non dicono assolutamente nulla? Avete ragione. In effetti a nessuno interessano questi territori. Non hanno attrattive turistiche, non possiedono risorse naturali preziose. Inoltre la loro natura montuosa non le fa neppure utili per coltivare il riso, il mais o le patate dolci, se non in minuscoli appezzamenti. Qui, la gente più povera della Thailandia vive al confine con l’ancor più povero Myanmar, lontana dai grandi templi dorati, dalle spiagge che prima del Covid-19 erano state piene di farang[1], dai gogo bars e dalle loro lapdancers scintillanti e poco vestite...

    -Pĕn chạywạtʹhn̒ thī̀ dī xỳā r̂xngh̄ị̂- dissi con fare paziente, mentre tenevo in braccio il bimbo -khuṇ mị̀rū̂ h̄rụ̄x ẁā p̄hū̂chāy tạw lĕk thī̀ dī mị̀ khey r̂xngh̄ị̂?[2]

    Da sopra la mia spalla, il medico finì la sua opera, strofinando delicatamente il braccino del bimbo con un tampone imbevuto di disinfettante, passando tutto intorno al punto dove aveva appena fatto la vaccinazione per la poliomielite.

    Il piccolo Chaiwat strinse gli occhietti a mandorla facendo un’espressione accigliata col suo faccino dalla pelle color dell’ambra, ma non si mise a piangere.

    -Ehi, Keira- sorrise Vitchapol dietro alla mascherina azzurra -Com’è che quando sono in braccio a te non piangono mai?

    -Perché sono troppo occupati a guardare quanto è strana la mia faccia farang- scherzai, rivolta al medico thai mentre restituivo il bambino alle attenzioni della madre, che si allontanò con un sorriso riconoscente.

    -E con questo abbiamo finito. Tutti i bambini nati negli ultimi diciotto mesi sono stati visitati e vaccinati.

    Si fermò un attimo a guardarmi, mentre si toglieva i guanti di nitrile.

    -Grazie ancora, Keira...- sorrise -le scorte medicinali che ci hai portato sono state provvidenziali. I rifornimenti del governo non sarebbero arrivati prima della stagione delle piogge.

    Mi strinsi nelle spalle, scostandomi una ciocca di capelli dagli occhi. Li avevo legati sulla nuca ma non erano ancora così lunghi da starsene a posto, senza contare che i bimbi thai di quei villaggi spesso ci giocavano coi miei capelli castani, che a loro apparivano strani al pari dei miei occhi.

    -Figurati. Quando posso e quando ho tempo, mi fa piacere dare una mano.

    Il rumore di un veicolo che si stava avvicinando ci fece voltare entrambi; da sotto la tettoia potemmo distinguere la sagoma di una grossa Lexus RX nera, che si era fermata tra il pontile delle barche e la casetta di legno che ospitava i tre agenti della polizia di frontiera thailandese.

    Io e il dottor Vitchapol aguzzammo lo sguardo: dalla vettura nera era sceso un giovanotto elegante, in camicia bianca e cravatta regimental. Lo vedemmo guardarsi intorno, comprensibilmente spaesato; in effetti appariva completamente fuori posto in quel luogo, almeno quanto il SUV che guidava. Dopo qualche istante lo vidi attraversare la strada, avvicinarsi ai doganieri e scambiare qualche parola. Il rumore del fiume che scorreva poco distante copriva ogni altro suono da quella distanza, tuttavia al termine della conversazione uno dei ragazzi in uniforme indicò al giovanotto elegante la tettoia dove stavamo noi.

    -Accidenti- osservò il dottore -Ma... quel tipo viene da questa parte?

    -Sì- sogghignai, strofinandomi le mani sui jeans sporchi di fango -penso proprio che venga a prendere me.

    Anche da quella distanza, ero riuscita a leggere qualcosa sulla portiera anteriore della Lexus RX; c’era l’emblema dorato della Singapore Airlines e sotto di esso una scritta: First Class Lounge Chauffeur Service.

    * * *

    A questo punto qualcuno di voi avrà già intuito che non sono propriamente una umile crocerossina, e avrà iniziato a fare le congetture più fantasiose sul mio conto, vero? Penserete ma chi diavolo sarà questa qui?

    Forse una ricca ereditiera?

    Una facoltosa ragazza di buona famiglia impegnata nel volontariato?

    Niente di tutto questo.

    La verità è che sono un’assassina.

    Una ricettatrice.

    Una trafficante d’armi.

    Una delinquente della peggior specie.

    Ricercata in giro per il mondo per i reati più vari.

    Come mai dunque, un avanzo di galera come me si ritrovava a portare medicine e ad aiutare un dottore in quello sperduto angolo dell’Asia?

    Se me lo chiedeste vi risponderei con la più semplice alzata di spalle: perché mi andava di farlo. Il bello di poter disporre di denaro facile è proprio quello: se ti piace una cosa, la fai. Senza renderne conto a nessuno!

    Un giorno te ne stai a leccare gelati in un resort di lusso, il giorno dopo ti porti a letto il più bel tipo che riesci a rimorchiare a bordo piscina, e quello dopo ancora vai a dare una mano alla gente che ha veramente bisogno. A me piaceva fare tutte queste cose, sentivo che tutte insieme rendevano la mia vita degna di essere vissuta, non mi facevo domande etiche e non mi chiedevo perché.

    Non me lo ero mai chiesta.

    Avevo sempre pensato che la mia anima fosse nera, perché mi piaceva stare al buio e perché in fondo se tutti sapevano che eri cattiva, nessuno poteva biasimarti se ogni tanto lo eri un po’ di meno, mentre invece se eri troppo buona...

    Beh, crescendo in una periferia degradata come avevo vissuto io, vedevi ben presto che fine faceva la gente che era troppo buona, troppo disponibile o troppo altruista. Veniva schiacciata senza ombra di pietà o di umana compassione. Per questo se volevi cavartela, ti regolavi di conseguenza.

    Lo chauffeur della Singapore Airlines rimase impassibile di fronte ai miei jeans sporchi di fango rossastro, alla mia canottiera che ostentava due chiassose labbra rosso fuoco stampate sul davanti e la scritta no money no honey sulla schiena.

    Probabilmente anche il puzzo di sudore dato dalle dodici ore abbondanti che erano trascorse dalla mia ultima doccia, non mi rendeva proprio una visione attraente.

    Con fare assolutamente professionale, il bel ragazzone sistemò il mio trolley nel vano bagagli della Lexus RX e con un gesto compito mi aprì la portiera, accompagnando un sorriso e un rispettoso cenno del capo.

    Qualcuno mi aveva cercata, qualcuno mi aveva mandato una mail cifrata che non avrei potuto ignorare. Ecco perché avevo preso quel biglietto di first class con tutti i servizi e le urgenze annesse e connesse.

    Ci sarebbero volute non meno di quattro ore, contando anche la sosta per rifocillarmi, dopodiché sarei ritornata in quel mondo fatuo, di lusso sfrenato, di giochi di potere, di corruzione e di ipocrisia...

    ...dove tutto sommato ero perfettamente a mio agio!

    Capitolo 1

    Sifu Meeting

    Singapore.

    Per alcuni, solo un concentrato di uffici, mall e di centri commerciali.

    Per altri, la Fine City.[3]

    Per me era peggio; era come camminare su un campo minato. Avere alle spalle più record criminali che quelli che potevi trovare in un braccio del carcere di Bangalore non ti faceva avanzare tranquilla per quelle strade così linde e ordinate, dove la Polizia seguiva ogni tuo passo, misurava la tua temperatura corporea e i tuoi battiti cardiaci sin da quando scendevi dall'aereo.

    Per prendere la metropolitana che mi avrebbe portata fino a Shenton way attraversai a piedi un pezzo di Little India Arcade.

    Il brillante senso del marketing locale aveva trasformato perfino i divieti in attrattiva turistica: sulle bancarelle c’erano t-shirt marchiate da nove divieti in file da tre. Ci si poteva passare il tempo a caccia dei cartelli che espongono le figure più impensabili barrate in un cerchio rosso. Un omino e una donnina stilizzati si baciano sotto un cuore: niente effusioni. Uno sciacquone: 150 dollari se non tiri la catena del water. Uccellini e sementi: non si dà il mangime ai pennuti. All’uscita del mercato, il cartonato di un poliziotto a grandezza naturale, in posa da Chuck Norris ma con gli occhi a mandorla, recitava: Il taccheggio è un crimine. Poco oltre, vidi un cartellone elettronico che indicava gli arresti mensili per il crimine in questione: segnava 96.

    Lee Kwan Yew, padre della Singapore moderna e dell’attuale primo ministro Lee Hsien Loong, aveva decretato la pena di morte per lo spaccio di droga e per ogni singolo colpo di arma da fuoco. Niente clacson, niente sgommate, niente pedoni che attraversano fuori dalle strisce tra semafori verdi; proibito schiamazzare, proibito fumare, proibito gettare cartacce... Per me era sempre terribile muoversi come se stessi camminando sulle uova! Mi aspettavo che da un momento all’altro avrei potuto imbattermi in un cartello proibito respirare!

    Finalmente giunsi in Shenton way. Poche centinaia di metri all'uscita della stazione della metropolitana e finalmente mi trovai davanti a quel lustro parallelepipedo di vetro fumè, con tanto di security privata all'ingresso.

    Dopo che il mio tenero e innocuo corpicino venne radiografato e scansionato da ogni sorta di apparato di sicurezza, potei finalmente rivolgermi all'impiegato che stava alla base di un elegante scalinata in stile liberty.

    -Posso esserle d'aiuto, madame?

    -Ho un appuntamento all'Istituto Cinese per le Relazioni Internazionali.

    -Il suo nome, prego?

    -Petra van Leeuwen

    Qualcuno mi aveva fornito un visto diplomatico, col quale avevo potuto lasciare la Thailandia che stava chiudendo tutti i suoi confini nel tentativo di controllare il contagio. Per precauzione però, avevo preferito associare a quel visto il nome del mio passaporto fasullo. In realtà chi mi attendeva sapeva perfettamente che il mio vero nome era Keira de Jong.

    L’ascensore schizzò a velocità prodigiosa, ed in un batter d’occhi mi ritrovai al trentesimo piano.

    Mi sarei immaginata di trovare due Men in Black cinesi, con impianti cibernetici negli occhi e mitragliette camuffate da valigia executive, a sorvegliare quella porta in legno pregiato e lucidissimo. Invece mi ritrovai sola soletta a fissare l’elegante targa in bronzo, che recava la scritta sia in ideogrammi cinesi che in inglese.

    Non feci in tempo ad avvicinarmi che la serratura automatica scattò, permettendomi di entrare in un luminoso studio; alle pareti, arazzi in seta che se fossero stati autentici valevano sicuramente una fortuna; un grosso vaso di ceramica decorata alto quasi quanto una persona, faceva bella mostra accanto a una scrivania di tek. L’uomo che vi stava dietro sollevò lentamente il capo ed io riconobbi quel volto squadrato, dalla pelle chiara e diafana.

    Era un volto che nella mia mente si era sostituito a quello del padre che non avevo mai avuto.

    -Mister Zhen- sorrisi -È un piacere rivederla.

    -Madame de Jong- rispose lui, ricambiando il sorriso -Sono felice di ritrovarla in piena forma.

    Mi irrigidii nel saluto del Bao quan li.

    -Sono pronta a continuare la pratica del Tai Chi, sifu.

    Il vecchio Guo Zhen si lasciò andare in una risatina educata, mentre distoglieva lo sguardo e chiudeva con uno scatto l’elegante penna stilografica placcata d’oro.

    -Ah, mia cara... Sarei felice di praticare ancora con lei il Tai Chi, purtroppo l’ho fatta convocare per motivi meno ricreativi. Si accomodi, la prego.

    Mi fece cenno verso un paio di poltrone in broccato, in tardo stile Ming. Sedetti con deferenza: ero terribilmente a disagio in quell’ambiente. Io con la mia maglietta di cotone, senza reggiseno sotto, coi miei jeans strappati al ginocchio e le scarpe di tela impolverate... Seduta in mezzo a tesori d’arte e tappeti antichi. Se avessi immaginato quel genere di accoglienza sarei prima passata nel più vicino negozio di Prada, giusto per mettere insieme un look più consono.

    -Posso offrirle un tè?- sorrise lui.

    -Con piacere.

    Zhen fece un cenno e da dietro una parete comparve una inappuntabile hostess, con i capelli raccolti in un lunga treccia.

    -Yúnquè, qǐng wèi wǒmen zhǔnbèi chá- disse in mandarino.

    Sedendomi, buttai uno sguardo oltre le vetrate in cristallo che restituivano un accattivante panorama sui quartieri nord di Singapore, con i suoi svettanti grattacieli e le insegne delle multinazionali che vi facevano bella mostra.

    -Mi dica, Keira... come vanno i suoi affari?

    Una domanda strana, per essere uscita dalle labbra di quella vecchia volpe di Zhen. Per quel che lo conoscevo, non era il tipo d’uomo che sprecava parole solo per chiacchiere informali. Decisi di restare sul vago.

    -Non mi lamento- abbozzai, scostandomi una ciocca di capelli dagli occhi -ma ammetto che ultimamente sono stata un po’ pigra. Del resto duecento milioni di rupie indiane non sono una cifra che si spende tanto in fretta.

    Guo Zhen sorrise ancora.

    -Conosco persone che la penserebbero diversamente. Ma non divaghiamo; il motivo per cui desideravo incontrarla è semplice, per cui andrò direttamente al punto: vuole lavorare ancora per la sezione 12 del Guojia Anquán Bu?

    Quella domanda non mi colse del tutto impreparata. Immaginavo che se il vecchio Guo voleva vedermi dopo nemmeno sei mesi dalla vicenda di Kuwat Prabu[4] non era certo per scambiare chiacchiere di cortesia. Incrociai le gambe, sostenendo il suo sguardo mentre mi prendevo il mento fra le dita.

    -Vede Mister, io immagino che assoldare una fidata freelancer come la sottoscritta vi costi ben più dello stipendio che voi pagate ai vostri agenti. Deduco quindi che anche questa volta la cosa che intende propormi sia diciamo... un po’ particolare.

    -Particolare e peculiare- annuì Zhen -lei ha mai sentito parlare del DF-17?

    Detestavo i quiz di cultura generale.

    -Sono un gruppo di musica rap? I famosi DF-17 Street Band?- sospirai, facendo un sorriso storto -No, scherzo... Non

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