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Novak Djokovic: The Djoker
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E-book276 pagine4 ore

Novak Djokovic: The Djoker

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Info su questo ebook

The Djoker, Nole, Plastic Man. Sono tanti i soprannomi affibbiatigli, ma tutti accomunati da un fil rouge chiaro e inconfutabile: si sta descrivendo un campione assoluto del tennis mondiale, si sta parlando di Novak Djokovic. Partendo dalle bombe di Belgrado fino ad arrivare all’olimpo dello sport “nobile” per eccellenza, Nole ha scritto – nel bene e nel male – innumerevoli pagine di questa disciplina: l’incredibile numero di ventuno titoli in trentadue finali disputate (secondo solo a Nadal), la nomea di “terzo incomodo” all’interno dell’epopea tennistica degli ultimi vent’anni tenuta da Rafa e Roger Federer, fino ad arrivare alle più recenti e controverse vicende legate al Covid e alla sua forte presa di posizione. In questo volume, l’arguta penna di Riccardo Crivelli racconta la storia sportiva e umana di un antieroe senza mezze misure. Dinnanzi al Djoker, al suo peculiare stile e al suo inarrivabile strapotere fisico, amore e odio si mescolano senza soluzione di continuità.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita23 nov 2023
ISBN9788836163564
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    Anteprima del libro

    Novak Djokovic - Riccardo Crivelli

    DJOKOVIC_FRONTE.jpg

    Riccardo Crivelli

    Novak Djokovic

    The Djoker

    A mia madre,

    roccia incrollabile delle nostre vite.

    A Giulia,

    la nipote che tutti vorrebbero avere.

    A Veronica,

    il sorriso più dolce del tennis, che mi ha insegnato come si combattono le battaglie più dure.

    A Stefania,

    per la luce negli occhi, la pazienza e per avermi introdotto all’antica arte orientale del tè.

    Prefazione di Paolo Bertolucci

    Il tennis odierno, brutale e ansimante, così lontano dalla danza elegante, composta ed estrosa dei McEnroe, dei Nastase e dei Panatta, trova in Novak Djokovic l’esemplare di massimo livello.

    Il fuoriclasse serbo, con quel suo tennis frontale fatto di rincorse e di allunghi laterali pur partendo da dietro, è riuscito a scavalcare in quanto a palmares i due mostri sacri Federer e Nadal. Il suo vantaggio fisico, sommato a una superiore comprensione delle strategie sul campo, lo ha portato a un’istintiva sintonia con i meccanismi e i tempi di gioco. Sembra prevedere quasi magicamente la direzione, la velocità e l’effetto della palla, così da potervi rispondere nel modo più efficace.

    Da sempre colpisce la flemma olimpica con la quale gestisce anche le rimonte più improbabili e i momenti bollenti del match, per poi esplodere in un urlo liberatorio. Ma al di là delle mille qualità che gli appartengono di natura e le altrettante costruite con il lavoro e la forza mentale, per lui parlano e parleranno i numeri, una collezione di record che lo rende il candidato principale alla corsa di più grande di tutti i tempi.

    Eppure non si capirebbe la grandezza di Djokovic se non si andasse oltre. Oltre il muro, quello fisico e geografico che fino al 1989 separava l’Occidente dell’Europa dalla sua parte orientale e al di là del quale, con le divisioni e le contraddizioni di quell’epoca, si è formata culturalmente la sua famiglia ed è nato lui. Una barriera, divenuta poi mentale, contro cui ha combattuto fin da quando ha saputo tenere una racchetta in mano, ribellandosi all’idea, piuttosto diffusa da questa parte dell’ex cortina di ferro, che da quell’area del Continente non potesse sorgere la stella più brillante del tennis.

    Ma Novak è andato anche oltre una rivalità che sembrava totalizzante e impossibile da scalfire, per chiunque. Federer da una parte, Nadal dall’altra, capaci di coprire per intero il terreno del tennis: bellezza, forza, eleganza, resistenza, violenza, tocco, personalità, successi, l’architettura perfetta e completa di questo sport. Roger contro Rafa, il duello che crea il racconto più bello del tennis e attrae dentro di sé non soltanto i due sfidanti, ma la passione di un intero pianeta. Di fronte alla loro magia, non sembrava esserci bisogno di altro: gli appassionati volevano quella partita, il contrasto appagava i commentatori.

    Per questo l’impresa di Djokovic è sovrumana: ha dimostrato che nello sport non esiste una frontiera insuperabile. Si è fatto posto a spallate, non a sorrisi e abbracci.

    Paolo Bertolucci, ex tennista numero dodici del mondo, vincitore della Coppa Davis, oggi opinionista tv.

    I giorni della svolta

    L’aquila e gli scudi. Nella bandiera, accanto al rosso, al blu e al bianco, campeggiano i simboli dell’orgoglio di un popolo fiero e indomabile. A Belgrado, di quei vessilli, ne stanno sventolando a migliaia.

    Sono i giorni della storia: è la prima settimana di dicembre del 2010, l’inverno incombe, ma dentro la Beogradska Arena arde il caldissimo fuoco della passione. Si gioca la finale della Coppa Davis, e in città non si muove foglia: chi non è tra i 16.200 che hanno acquistato il biglietto, riversando il proprio tifo infernale sui giocatori dalle tribune del palazzetto, affolla i locali con i maxischermi oppure è in casa davanti alla tv. La Serbia, un piccolo Paese dal grande passato con poco più di sei milioni di abitanti, sfida la Francia, una superpotenza delle racchette sempre accompagnata da quell’alone di superiorità che, per vezzo, tutti definiscono grandeur.

    Per l’occasione, tuttavia, quel senso di sfida tra il gigante e il topolino non è affatto campato per aria: i Galletti, in novantanove edizioni della gara a squadre più antica del tennis, hanno sollevato la preziosa Insalatiera d’argento per nove volte, mentre i padroni di casa sono addirittura alla prima finale, anche considerando l’ex Jugoslavia di cui sono considerati la naturale prosecuzione in ambito sportivo.

    Per contrastare il pronostico e scrivere le pagine di un romanzo memorabile, serve che l’eroe della patria serba si conceda tre pomeriggi da leggenda.

    Lui è Novak Djokovic, ha ventitré anni e sei mesi, è stato il primo vincitore Slam del Paese (agli Australian Open del 2008), l’imprenditore di se stesso, l’icona giovane di un giovane Paese. E, insieme, il numero tre, l’intruso, il campione che non riesce a farsi re perché davanti ha Federer e Nadal, «che sono più completi», come suggerisce Patrice Dominguez, ex giocatore francese poi trasformatosi in analista tra i più acuti: «E Novak è esplosivo, ma non è fluido e spreca troppe energie per stare a quel livello, anche perché ha problemi al servizio».

    Ma il simpatico, intelligentissimo Nole, come viene soprannominato praticamente dal mondo intero, che con Roger in quella fase della carriera ha perso tredici volte su diciannove (ma l’ha battuto anche in due Slam e a casa sua, al torneo di Basilea) e con Rafa sedici volte su ventitré (ma ha uno score di tre successi negli ultimi cinque incontri), certamente non è tipo da gettare la spugna. «Ed è probabile che fra due-tre anni colmerà quel millimetro di differenza con quelli che sono forse i migliori della storia del tennis», vaticina da facile profeta, alla vigilia della sfida, il mitico Niki Pilić, settantuno anni, già campione di Davis come capitano di Germania e Croazia, ora direttore tecnico serbo, e coach per quattro anni di Djokovic adolescente.

    Il protagonista più atteso di questa finale ha la grande occasione, ma anche una tensione enorme, palpabile: «Giocare l’ultimo atto della Davis è il più grande successo che il mio Paese abbia mai avuto, forse resterà un’occasione unica di giocare la Coppa in casa. E, certo, la pressione è più forte, e diversa, di qualsiasi altra gara», ammette il numero uno di Serbia, nell’arena della nuova Belgrado lontana appena 200 metri dall’azienda-Djokovic nella quale lavora l’intera famiglia. «Dobbiamo trovare un altro po’ di energie, dopo una stagione così lunga e dura, e gettarla in campo», ripete soprattutto a se stesso, con i ricordi che vanno ancora al fattaccio di un paio di settimane prima alle Atp Finals di Shanghai, il cosiddetto Masters, quando, contro Nadal, era così nervoso che continuava a montarsi una lente a contatto all’occhio destro sull’altra, non avvertendo che gli si era solo spostata.

    Ora, giocando su un campo molto più lento, ha ritrovato l’umorismo: «Taglio di capelli aerodinamico, mi sono portato avanti per la promessa che se vinciamo la Davis ci rapiamo tutti a zero». Scherza con l’avversario Simon: «Dai, mostrami le foto di tuo figlio… Adesso che hai Timothe, sei un vero uomo». E ribatte ai francesi, terrorizzati dal tifo stile calcio che potrebbe attenderli: «Pubblico ostile? Sono sicuro che darà una dimostrazione di grande ospitalità».

    Il capitano francese Guy Forget deve rinunciare ai più forti di quel momento, Tsonga (solito stop fisico) e Gasquet (solita inaffidabilità), promuove numero uno quel pazzariello di Monfils, non ancora il solido giocatore del decennio successivo e, per preservare l’allora già trentenne Llodra, fondamentale in prospettiva del doppio, schiera come secondo singolarista appunto Simon. Il capitano serbo Bogdan Obradović , però, possiede la cura per tutto: «Di certo non siamo nervosi: abbiamo con noi Novak Djokovic».

    Che il primo giorno, in un contesto già obiettivamente complicato dalla secca sconfitta di Tipsarević contro Monfils, riporta in equilibrio le sorti della sfida triturando in tre set il povero Simon. A quel punto, tutti sono convinti che Obradović schiererà Novak pure in doppio, e invece allo specialista Zimonjić , che ha appena vinto il Masters, affianca Troicki. Uno psicodramma: sopra due set a zero, la coppia di casa si fa rimontare da Clement e Llodra. Dal 1981, anno del cambiamento della formula, appena due squadre (la Russia nel 2002, la Spagna nel 2004) hanno alzato la Coppa dopo essere state in svantaggio 2-1.

    Dai giornali e da tutte le reti tv nazionali Djokovic chiama a raccolta la sua gente: «Dovete sovrastare il tifo francese, che è incredibile, ma è di mille voci, voi siete molti di più, siete a casa vostra». Lui, il condottiero, compie il suo dovere nel primo match della giornata decisiva, travolgendo Monfils. È la scintilla che ci voleva, che incendia la Beogradska Arena e le infiamma il cuore, trascinando in una dimensione sovrannaturale Troicki, l’ultimo singolarista, scelto per l’impresa da scolpire nella storia.

    E Viktor, che è di padre russo, diventa fenomeno per un giorno, consegnando alla Serbia la prima, e fin qui unica, Coppa Davis. Il supereroe, il faro, la guida di una nazione intera che si riversa per le strade a festeggiare però si chiama Novak: «La Coppa Davis è stata il mio trampolino di lancio» ricorderà spesso negli anni successivi, «da lì ho preso la spinta per diventare numero uno del mondo. Conserverò i ricordi di quel successo per il resto della mia vita. Vincere la Coppa Davis è stato fondamentale, perché ha dato un enorme impulso alla mia carriera. Ho capito che potevo diventare come Federer e Nadal, che impegnandomi ancora di più avrei raggiunto il loro livello».

    Un fiore tra le bombe

    Con il trionfo in Coppa Davis, è come se Djokovic si fosse liberato del peso di essere considerato per sempre il terzo incomodo: ora si sente finalmente al centro del villaggio, un clic mentale che finirà per cambiare la storia sua e del tennis. Intanto, la passione di un Paese è diventata amore incondizionato: «Per vent’anni non c’è stato alcun interesse per il tennis, ed era difficile allenarsi e progredire, ma ora c’è un boom, la gente ci riconosce per strada, ci considera celebrità e ci ringrazia. Siamo i maggior ambasciatori del nostro Paese. Attraverso il tennis il mondo scopre che cos’è la piccola Serbia».

    Il lungo viaggio di Novak, che l’ha portato ad ammantarsi dell’aura della regalità sportiva, inizia sulla catena montuosa di Kopaonik, con i suoi panorami da sogno e le foreste di aceri, pini e faggi dei Balcani che disegnano ombre scure su imponenti monasteri e fortezze di pietra. I genitori, Srdjan e Dijana, sono nati a Zvečan (che nel 2009 ha dato a Djokovic la cittadinanza onoraria), in Kosovo, fulcro e fiammella originaria della religione ortodossa serba, centrale per l’identità nazionale, anche se la popolazione è composta per il 90 per cento di albanesi. Teatro di guerre, tentativi di pulizia etnica e bombardamenti, la cui indipendenza è stata riconosciuta da settantacinque Paesi guidati dagli Usa, per Djokovic il Kosovo rimarrà sempre «la culla della cultura serba». Per questo, dopo il famoso e controverso discorso del 2008 (in cui riaffermerà che il Kosovo è Serbia), visita più volte la regione e dona 100 mila dollari per restaurare gli storici monasteri, ricevendo la più alta onorificenza della Chiesa ortodossa serba, l’Ordine di San Sava.

    Nel 1993, a sei anni, Djokovic segue la prima partita di tennis in televisione. È la finale di Wimbledon: Pete Sampras batte Jim Courier e conquista per la prima volta in carriera il più prestigioso degli Slam.  

    Da quel giorno, Nole passa intere giornate davanti alla recinzione dei tre campi da tennis aperti da poco sulla strada che porta alla baita-pizzeria che gestiscono i suoi genitori (il padre è stato uno sciatore professionista e una volta ha avuto ospite a cena pure Alberto Tomba), insieme a un negozio di attrezzature sportive: «Mentre costruivamo i campi davanti al ristorante, lui portava cibo e bevande agli operai» ricorderà papà Srdjan, «ho notato l’amore nei suoi occhi quando vedeva il campo, allora gli ho comprato una racchetta colorata con una pallina di spugna».

    Vivere in un contesto così particolare svilupperà la sua sensibilità sin da bambino. Una volta, lo zio voleva regalargli una giacca ma il piccolo Nole rifiutò: «Se la dai a me, non potrai venderla». Quando la nonna paterna si ammalò di un tumore alle ossa, lui si avvicinava con dolcezza, le chiedeva dove le facesse male e la massaggiava.

    Al circolo di Kopaonik, l’insegnante di tennis è una piccola leggenda in patria: si chiama Jelena Genčić, è stata atleta nazionale di pallamano vincendo il bronzo mondiale nel 1957, e ha scoperto Monica Seles, la più grande tennista jugoslava della storia e una delle più forti di sempre (anche se dopo i primi successi opterà per la cittadinanza statunitense). Jelena lo invita a provare e il giorno dopo quel bambinetto si presenta con una borsa termica, una racchetta, un asciugamano, una bottiglietta d’acqua, una banana, una seconda t-shirt e una fascia tergisudore. «Gli dissi: Tua madre ti ha preparato bene la borsa. Lui si arrabbiò e replicò piccato come solo i più piccoli sanno fare: L’ho preparata io. Sono io quello che vuole giocare a tennis, non mia madre. Era straordinario».

    Immediatamente, si convince che Djokovic è «un bambino d’oro»: ha cinque anni e mezzo e per Jelena a diciassette sarà tra i primi cinque del mondo. «Dopo cinque giorni di allenamento» ricorderà la donna, «gli ho chiesto davanti ai genitori: Novak, vuoi passare i prossimi sette, otto anni allenandoti duramente ogni giorno, con sorrisi e lacrime?. Lui ha risposto: Sì, voglio essere grande. Era solo un bambino, ma aveva già gli occhi, il cuore, l’anima di un campione».

    Srdjan e Dijana, in quegli anni, restano spesso senza parole. «Jelena ci ha detto che Novak era il più grande talento che avesse mai visto dopo Monica Seles. È stato incoraggiante, ma certo non ci ha levato tutti i dubbi. Abbiamo parlato molto con Novak in quel periodo. Quando aveva dieci anni gli abbiamo chiesto: Che cosa vuoi diventare? Ci ha risposto: Voglio diventare un grande campione di tennis. Da quel momento l’abbiamo appoggiato in tutto, senza riserve».

    La domanda dei genitori, in verità, non era legata semplicemente alle legittime preoccupazioni per il futuro, ma aveva pure un fondamento sportivo: fino a quell’età, infatti, Nole si divide ancora tra tennis e sci, la disciplina di papà. E perciò, quando arriva l’ora delle scelte, decide senza ripensamenti di affidarsi a una racchetta per inseguire i suoi sogni.

    Al Partizan Tennis Club di Belgrado, dove la Genčić lo porta per allenarlo meglio, ancora ricordano quel bambino che già sembrava cresciuto, che arrivava presto, per poter vedere i più grandi allenarsi, con tutto l’occorrente perfettamente organizzato. «Un giorno» racconterà l’amico Dušan Vemić, che poi diventerà per un paio d’anni suo compagno di allenamenti quando Nole è già numero uno del mondo, «ci stavamo ancora allenando quando Djokovic ha cominciato a girare intorno al campo e ha iniziato qualche esercizio. L’ho salutato, gli ho fatto un paio di domande. Lui si è fermato qualche secondo, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha risposto che aveva bisogno di migliorare il movimento dei piedi per diventare un giocatore. Era incredibile: aveva sette anni».

    Spesso dopo l’allenamento, Djokovic si trattiene a casa di Jelena, a Belgrado, per guardare i video dei grandi campioni. «Forse è per questo che da grande è diventato così bravo a imitare i movimenti degli altri giocatori. Mi chiedeva: Per favore, mi spieghi come fa Sampras a tirare così il dritto lungolinea in corsa? E io gli spiegavo quale gamba doveva fermare, con quale trasferire il peso in avanti e così via».

    Sampras è il suo idolo, ma Nole a sette anni capisce di essere troppo debole per continuare a giocare il rovescio a una mano come il fuoriclasse che lo ispira, soprattutto sulle palle alte, e passa alla presa bimane. La Genčić ispira il suo talento con le poesie di Puškin e la musica classica, Beethoven e Chopin, che usa per aiutare la visualizzazione dei colpi: i due compositori rimarranno una grande passione di Novak per tutta la vita. A sette anni, il bambino viene invitato per la prima volta in tv e mostra già idee chiarissime: «Il tennis è il mio lavoro e il mio obiettivo è diventare numero uno».

    Ma il corso della storia, a volte, mette di fronte a eventi capaci di segnare un’esistenza in modo indelebile, costringendo ad apprendere lezioni che fanno maturare e crescere in fretta, richiudendo in un cassetto l’ingenuità del fanciullo.

    Il 24 marzo 1999 la Nato lancia il primo bombardamento su Belgrado: è il culmine della guerra con il Kosovo. Per due giorni e due notti Novak, i suoi genitori e i suoi due fratelli si rifugiano nel seminterrato del loro condominio. Poi trovano riparo nell’appartamento del nonno. In quelle ore tragiche, Novak gioca a tennis tutti i giorni, nonostante la paura. «La mattina» rivelerà la Genčić, che perderà la sorella durante i bombardamenti, «ascoltavamo la radio per sapere dove erano previsti i raid e andavamo ad allenarci da un’altra parte. Se poi sentivamo gli aerei avvicinarsi, scappavamo dentro il club». Questo è invece il racconto di mamma Dijana: «Stavamo fuori, sul campo, tutto il giorno, e questo ci ha salvato. Non era un posto più o meno sicuro degli altri, ma se te ne stai tutto il giorno in cantina pensando che stanno per venire a bombardare casa tua diventi matto. Decidemmo di continuare a vivere normalmente. Se fosse accaduto qualcosa, sarebbe successo e basta».

    Benché fosse obbligato a svegliarsi ogni notte alle due o alle tre per le bombe, Nole si è sempre rapportato con animo sereno a quei giorni: «Non dovevamo andare a scuola e abbiamo giocato di più a tennis. La guerra ci ha resi più forti, più affamati di successo».

    La famigerata mattina del 22 maggio 1999, verso mezzogiorno, Djokovic sta festeggiando il dodicesimo compleanno al Partizan Tennis Klub: «I miei genitori stavano cantando Tanti auguri a te quando cominciò l’attacco su Belgrado. All’improvviso le sirene cominciarono a urlare e, subito dopo, i bombardieri stavano ronzando nel cielo. Erano proprio sopra la mia testa. Poi ci furono delle esplosioni e la fornitura di elettricità venne interrotta». 

    Da quei momenti, imparerà a convivere con la paura, si allenerà in una piscina olimpionica in disuso riempita di terra rossa e riadattata in campo da tennis insieme ad Ana Ivanović, che diventerà numero uno del mondo tra le donne. Soprattutto, apprenderà a mettere in prospettiva la tensione, la pressione per una palla break o un match point a sfavore, e si trasformerà nell’immagine stessa della resilienza: «La guerra mi ha reso una persona migliore perché ho imparato a non dare niente per scontato e mi ha reso un tennista migliore perché mi sono promesso allora di dimostrare al mondo che esistono anche dei serbi buoni».

    Per Vlade Divac, straordinario giocatore di basket, pivot dei Los Angeles Lakers adorato da Magic Johnson e poi diventato capo del Comitato olimpico serbo, che ha visto concludersi la fraterna amicizia con il croato Dražen Petrović per questioni nazionalistiche (durante i festeggiamenti per la vittoria ai Mondiali di Buenos Aires nel 1990 buttò a terra una bandiera croata portata da un tifoso a Petrović), Djokovic è molto più di un campione: «Per anni, soprattutto in quelli segnati dalle guerre civili, tutti ci guardavano come se fossimo cattivi. Novak ci ha fatto sentire di nuovo fieri di essere serbi».

    Sei mesi dopo la fine dei bombardamenti, accade ciò che non si può più evitare: Novak è diventato troppo bravo per rimanere a Belgrado, dove non avrebbe più la possibilità di affinarsi tecnicamente. Così, la Genčić chiama l’amico Nikola Pilić, detto Niki, che ha aperto un’accademia molto accreditata a Oberschleißheim, vicino a Monaco di Baviera. Pilić, di nascita croata, non è un personaggio qualsiasi, ma il casus belli del clamoroso boicottaggio, per solidarietà, di ottantuno giocatori a Wimbledon 1973, finalista nello stesso anno al Roland Garros. È titubante: di solito non accetta allievi sotto i quattordici anni, e il suo regime di allenamento è troppo pesante per un ragazzino che deve ancora compierne tredici, perché prevede ore e ore a palleggiare contro il muro per migliorare la tecnica e sedute specifiche con una benda di gomma per aumentare la flessibilità del polso

    Ma Djokovic, che ha preso il suo primo aereo per l’audizione accompagnato dal croato Goran Ivanišević, a quel tempo il più forte e celebre tennista di etnia slava, che negli anni a venire diventerà una figura centrale per la sua carriera, lo convince. Quando lo vede palleggiare per la prima volta, Pilić si infuria con la Genčić: «Perché non me l›hai mandato prima?» E lei, di rimando: «Perché ti saresti preso tutti i meriti». Una mattina di qualche settimana dopo, Nole trova Niki e la madre Dijana a chiacchierare davanti a una tazza di caffè: è arrabbiatissimo, passa loro accanto senza dire una parola. «Gli chiesi perché» ha raccontato Pilić, «e mi disse che era in ritardo per l’allenamento e che non aveva tempo da perdere. Non aveva ancora tredici anni, ma le sue idee erano chiarissime su cosa dovesse fare nella vita. Non avevo dubbi che sarebbe diventato un grande giocatore».

    In quegli anni conosce giocatori con i quali condividerà momenti importanti. A Monaco si allena anche Ernests Gulbis, figlio di un miliardario lettone, futuro top ten che si lascerà dietro una lunga scia di rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e che non è diventato, proprio perché cresciuto nella bambagia del benessere: rimarrà impressionato dalla professionalità e dalla dedizione di Djokovic. Come a dire che la fame può fare miracoli. Nei primi tornei internazionali conosce un ragazzino scozzese nato appena sette giorni prima di lui: Andy Murray. I due diventeranno amici veri, forti di ricordi che restano vivi per sempre. Una volta si iscrivono insieme a un torneo internazionale a Livorno e trascorrono tutto il tempo a giocare a pallone, sotto gli occhi sgomenti dei genitori.

    Per sostenere la carriera del figlio, Srdjan è disposto a tutto: «Nessuno ci voleva aiutare, ho dovuto fare tutto da solo, per dieci anni ci sono stato solo io accanto a lui. Ovunque andassimo, tutti gli altri avevano coach

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