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Sognava i leoni: L'eroismo fragile di Ernest Hemingway
Sognava i leoni: L'eroismo fragile di Ernest Hemingway
Sognava i leoni: L'eroismo fragile di Ernest Hemingway
E-book298 pagine4 ore

Sognava i leoni: L'eroismo fragile di Ernest Hemingway

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Info su questo ebook

Hemingway ha capito infine il ruolo decisivo della pietà umana. La pietà che ci unisce a tutti gli esseri che nella natura vivono e muoiono, la pietà che gli esseri umani possono dirsi fino a non dirsi più. La più grande altezza che ci è concessa durante la nostra breve vita.

Pescatore, cacciatore, bevitore, sempre in viaggio fra guerre, corride e matrimoni, Ernest Hemingway è ricordato per aspetti che ne hanno fatto un personaggio da copertina. Eppure, egli fu innanzitutto scrittore. Anzi, il più influente scrittore del Novecento, per larghi tratti il più amato, sicuramente il più imitato.

Matteo Nucci decide di liberare il campo dai falsi miti e partendo dalle opere, prima ancora che dalla vita, ce ne offre un ritratto nuovo e decisivo. Quello di un uomo tormentato, sempre in lotta con la morte sfiorata in Italia durante la Grande Guerra, e soprattutto scrittore straordinario, ossessionato dallo stile e ancor più dalla ricerca della verità profonda, che non coincide mai col mero resoconto dei fatti realmente accaduti.

Nucci rilegge Hemingway con i suoi occhi di autore, oltre che di amante della letteratura più antica. Omero e Platone entrano in scena per aiutarci a gettare nuova luce su alcune delle teorie più celebri e fraintese dello scrittore, come quella secondo cui la vera letteratura è un iceberg, una montagna di cui si vede solo la punta, e che resta quasi interamente nascosta dalle profondità marine, o come l’espressione, meravigliosa, “grace under pressure”, “grazia sotto pressione”. Perché, nella sfida costante al mondo, alla pagina e soprattutto a sé stesso, Hemingway cercò di non perdere mai la grazia. Quella stessa grazia che pervade i suoi libri, raccontando la semplicità, la fragilità e la pietà di eroi indimenticabili. L’immagine con cui chiudiamo il libro finirà per sorprenderci. Ci troveremo davanti a uno scrittore che si è avviato verso le vette mistiche dell’amore assoluto. Uno scrittore che ci chiede infine di fare i conti con noi stessi.

Sognava i leoni è un libro importante e rivelatore su Hemingway e sulla scrittura in generale. Un libro indispensabile per chi crede che letteratura e vita siano inesorabilmente e inestricabilmente intrecciate.

LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2024
ISBN9788830593695
Sognava i leoni: L'eroismo fragile di Ernest Hemingway
Autore

Matteo Nucci

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega) e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Per Einaudi sono usciti una nuova edizione del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013) e Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (2020). I suoi racconti sono apparsi in riviste e antologie. Collabora con il Venerdì di Repubblica e l’Espresso. Per HarperCollins ha pubblicato Sono difficili le cose belle (2022). 

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    Anteprima del libro

    Sognava i leoni - Matteo Nucci

    PARTE PRIMA

    Come è arrivato al suo stile?

    Descrivere le cose quali veramente erano spesso era molto difficile, e così scrivevo in modo goffo ed è questa goffaggine che è stata definita il mio stile. Gli errori e le goffaggini si vedono subito, ma li hanno chiamati stile.

    E. HEMINGWAY

    Incontro con i ragazzi di Padre O’Connor, chiesa cattolica di Hailey, Idaho, 1958 (da A.E. Hotchner, Papà Hemingway)

    Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce.

    L’incipit dell’ultimo libro di Ernest Hemingway è famosissimo. Anche chi non ne conosca l’opera, o non sia appassionato di letteratura, saprà dire senza grandi esitazioni che il vecchio di cui si parla è quel pescatore cubano perseguitato dalla sfortuna che ingaggia una straordinaria e lunga lotta con un enorme marlin, la vince, ma il suo pesce viene assalito e divorato dagli squali mentre l’uomo rientra in porto. Pochi del resto ignorano che quel vecchio è un personaggio particolare. Vive solo e non ha parenti, ma la solidarietà dei vicini, degli altri pescatori, e soprattutto di un ragazzino che da lui ha imparato a pescare, rende la sua vita quotidiana non una semplice lotta per la sopravvivenza.

    Sono idee che abbiamo dentro, ormai. Come certe storie antiche e moderne che sono diventate quasi reali, al punto da soppiantare la menzogna della letteratura che le ha create. Forse, nel caso de Il vecchio e il mare, la nostra consapevolezza è alterata anche da film spesso passati sugli schermi, o da rievocazioni di altro genere rispetto alla forma in cui la storia comparve nel primo fine settimana del settembre 1952 in un’edizione inarrivabile, capace di un successo planetario. Il libro fu infatti immediatamente un caso editoriale.

    Lanciato come una grande scommessa su un unico numero della rivista Life, arrivò a vendere oltre cinque milioni di copie (per l’esattezza 5.318.650) nell’arco di quarantott’ore. Incalcolabile il successo che seguì in ogni lingua in cui fu tradotto. Per noi italiani fu chiamata a lavorare su indicazione dello stesso Hemingway – che le era molto amico – Fernanda Pivano. E per quanto quella traduzione possa essere datata (un nuovo lavoro è uscito a cura di Silvia Pareschi), essa stessa, con la sua sintassi cantilenante, è entrata nelle nostre vene.

    Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.

    La bandiera di una sconfitta perenne. Fin dalla prima pagina del libro ci sentiamo chiamati in causa. E non tanto perché è facile cedere alla tentazione di un certo vittimismo, ma perché ci sembra che l’umanità di questo vecchio pescatore cubano racconti in maniera paradigmatica la nostra, ovvero l’umanità di chiunque è condannato a vivere per morire, attraversando il tempo che gli è dato con alterne fortune, ma mai sventolando la bandiera di una vittoria duratura. Del resto, la vittoria non si addice a quelli che i poeti antichi chiamavano effimeri, ossia esseri viventi un solo giorno per dirne l’umanità legata alla breve vita. E probabilmente è questa condizione comune a spiegare il successo di un piccolo libro talmente pieno di grazia che sembra toccato dagli dèi. Un’opera, dunque, il cui mistero può essere relegato solo in una dimensione divina. Perché è davvero difficile dire il segreto di storie che escono dal loro tempo e s’imprimono per sempre nella memoria collettiva.

    Ci hanno provato in molti, in questo caso. Al di là della fragile umanità che viene messa in scena, critici, cultori e appassionati hanno cercato di indagare la fortuna della storia e la perfezione stilistica in cui venne proposta. I biografi hanno rovistato nelle motivazioni dello scrittore e nella curiosa genesi dello scritto. Chi invece è propenso, per mestiere o vocazione, a sondare la psiche si è dedicato a studiare i significati profondi del testo e ciò da cui sarebbero stati prodotti. Si tratta di analisi che possono affascinare, intrigare, incuriosire, ma che si rivelano comunque inutili a spiegare ciò che in definitiva è inspiegabile. Visto che inspiegabile resta quella mano divina capace di dare alla luce un’opera destinata a farsi eterna.

    C’è un aspetto interessante però che merita di essere approfondito. Quando veniamo a sapere dei mesi in cui Hemingway concepì l’opera eppoi la scrisse, quel che ci colpisce è l’estrema semplicità che si prese la scena. Semplicità nell’individuare la storia, sebbene altri fossero originariamente gli obiettivi dell’autore. Semplicità nello scriverla, tanto che pochissime furono le correzioni, i tagli e i tentennamenti. Semplicità poi nel proporla al primo pubblico, al punto che inizialmente le reazioni entusiaste sorpresero Hemingway. È quella semplicità che in fondo domina il racconto stesso, sia stilisticamente sia contenutisticamente. Una semplicità tale che spesso la storia è stata ritenuta adatta a un pubblico di lettori molto giovani, se non quasi troppo giovani.

    E tuttavia è vero. La semplicità domina in quest’opera. Ma che tipo di semplicità? Ecco cosa dobbiamo chiederci. Perché se confondiamo semplicità e facilità andiamo immediatamente fuori strada.

    Nulla in questo libriccino – romanzo breve? racconto lungo? opera sui generis che è inutile classificare? – porta l’impronta dei lavori facili e veloci, visto che alla facilità spesso si affianca la velocità. A partire dalla trama. Sappiamo che di un pescatore che ingaggiò una vera e propria battaglia col suo marlin e fu poi sconfitto dai pescecani, Hemingway aveva conosciuto la sorte da ben sedici anni. È probabile che fin dall’inizio, fin da quando venne a sapere dell’uomo che era stato ritrovato piangente sulla barca, egli ebbe voglia di scriverne. Certamente nel 1939 iniziò a progettare qualcosa, poiché lo confessò via lettera al suo amico e editor Maxwell Perkins. Del resto, già nel 1936, appena ebbe ascoltato il racconto, ne scrisse in un pezzo giornalistico dominato dall’understatement, terribilmente necessario per una vicenda già di per sé tanto tragica.

    Eppure, se davvero vogliamo fare i conti con il tempo che fu necessario a Hemingway per scrivere Il vecchio e il mare siamo ancora fuori strada. Perché è altrove che dobbiamo guardare.

    Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.

    Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.

    Se continuiamo a leggere, infatti, mentre la figura del vecchio prende luce, proprio quando Manolín, il ragazzo che lo adora come un padre, sta per pronunciare le sue prime parole chiamando il vecchio per nome, proprio allora, noi sentiamo che la vera semplicità con cui dobbiamo fare i conti è quella in cui danzano i segni sulla pagina, ossia i nomi, i verbi, la punteggiatura e ciò che essi evocano, ossia soprattutto la forma in cui ciò che avvenne un giorno nei mari cubani prese vita sulla pagina mescolandosi all’arte di mentire del narratore. E sappiamo allora che dobbiamo partire davvero dall’inizio. Perché per scrivere la sua opera toccata dalla grazia, Hemingway non aveva dovuto aspettare quindici anni. In effetti quello di cui aveva avuto bisogno era stato altro: la sua vita, la sua intera vita di scrittore.

    PARIGI

    DALL’ORLO DELL’ABISSO: SEMPLICITÀ

    1. Alla fine e all’inizio

    Il viaggiatore ama una cosa su tutte le altre: tornare. Nulla però è difficile e complesso, durante le nostre brevi vite, come il ritorno. Che del resto non significa semplicemente tornare da dove siamo partiti. Bensì significa soprattutto tornare ovunque noi siamo stati. Per ritrovare la casa perduta, per rivedere facce conosciute, per essere salutati come fosse ieri il giorno in cui ce ne siamo andati via.

    Chi ama viaggiare sa quanto questa sensazione del ritorno in luoghi che sono diventati casa (e che ogni volta si ritrovano per poi abbandonarli) sia decisiva. Si assapora una specie di eternità, si ha l’impressione che tutto sia sempre possibile e che la nostra casa possa davvero essere e restare là dove il nostro amore si è espanso con la sua potenza invincibile.

    Queste sensazioni aeree, ideali, metafisiche sono spesso legate a qualcosa di esclusivamente fisico. Gli odori e i sapori, innanzitutto. Assieme ovviamente ai paesaggi, le architetture, le strade. Quel che colpisce i sensi, insomma, e che definisce un luogo.

    E tuttavia di solito non domina affatto ciò che è indissolubilmente legato al luogo. Prevalgono piuttosto le piccole cose contingenti, cose soltanto nostre, che appartengono in via esclusiva a noi e che noi abbiamo legato a un luogo. Si tratta in genere di oggetti. Li ritroviamo dove li abbiamo lasciati o dove sappiamo che devono trovarsi. E ci danno quella certezza che assomiglia al delirio. Ossia l’impressione che, mentre eravamo lontani, i luoghi e le persone che noi consideriamo casa ci abbiano aspettato.

    Certo era così che quel grande viaggiatore di nome Ernest Miller Hemingway considerava i due piccoli bauli da marinaio depositati all’Hotel Ritz nel marzo 1928, prima di lasciare Parigi dopo anni decisivi per la sua formazione di uomo e di scrittore. Sapeva che erano lì, ma preferiva dimenticarsene. Prima o poi li avrebbe recuperati per portarli con sé, aprirli, e ritrovare ciò che aveva lasciato. Meglio rimandare, però. Il giorno in cui questo fosse accaduto avrebbe rappresentato una specie di fine.

    Quel giorno arrivò nel novembre del 1956, quando la direzione dell’Hotel Ritz, spinta dalle necessità, chiese a Hemingway di riprendere possesso dei due bauli. Non credo che ne fu felice come si è poi raccontato. Non siamo mai felici quando veniamo costretti a confrontarci con ciò che in qualche misura abbiamo voluto mettere da parte, convinti però che non si tratta di vero oblio perché ci basta aprire la scatola, il contenitore, la busta e tutto verrà di nuovo a galla. Per questo non buttiamo via quello che un giorno, nel passato, abbiamo pensato dovesse essere conservato. Per questo, però, allo stesso tempo non vogliamo fare i conti con ciò che lì dentro abbiamo dimenticato. E infatti ci capita generalmente quando non possiamo più farne a meno. Quando veniamo obbligati, o una necessità ce lo impone.

    Hemingway prese i bauli, li portò con sé a Cuba, li aprì e lasciò che i ricordi venissero a galla. Trovò dentro pagine dattiloscritte scartate, appunti che gli erano serviti per la stesura di Fiesta, biglietti di corse e incontri sportivi, libri, ritagli di giornali, vestiti. Ogni cosa rimetteva in vita il tempo passato a Parigi a partire dal novembre del 1921, quando con sua moglie Hadley Richardson arrivò in città deciso a diventare scrittore. Era il tempo eroico dei primi incontri intellettuali, dei gruppi di artisti, delle discussioni, della ricerca, delle paure di fallire e delle speranze di riuscire. Il tempo dei caffè dove scrivere se la stanza era troppo fredda, dei parchi dove passeggiare per far passare la fame e far risorgere le idee, delle librerie e delle case dove discutere, ascoltare e imparare.

    Bastò poco a Hemingway per mettersi davanti alla macchina da scrivere. In piedi, come era abituato a fare per evitare di metter su pancia e di intristirsi in una vita sedentaria, cominciò a battere sui tasti. Mary Welsh, la sua quarta moglie, lo sentiva fin dal mattino presto. Gli domandò a cosa stesse lavorando e seppe subito che si trattava di quadretti parigini. Ci ha raccontato lei che a The Paris Sketches, come lui era solito chiamare il libro, il marito lavorò a più riprese, in quegli anni, e che lo terminò a Cuba nella primavera del 1960, dopo averlo messo da parte per scrivere il reportage narrativo dedicato alle corride, intitolato Un’estate pericolosa. Fu dunque l’ultimo libro dello scrittore più influente del Novecento, che un anno dopo, il 2 luglio 1961, si somministrò la morte.

    Oggi sappiamo che quanto raccontò Mary introducendo il testo, che apparve nel 1964 con il titolo di Festa mobile, non è completamente vero. Hemingway non chiuse mai il libro, come non chiuse Un’estate pericolosa. Il disagio psichico gli impediva di fare buon uso della principale delle sue armi affilate in anni e anni di mestiere: le forbici. Entrambe le opere, uscite postume, furono quindi tagliate e editate da Mary stessa e da un giornalista con cui Hemingway ebbe ottimi rapporti negli ultimi anni, A. E. Hotchner, autore peraltro di uno struggente racconto di quella malinconica decadenza: Papa Hemingway.

    Recentemente, una versione filologica di The Paris Sketches è stata pubblicata e tradotta in italiano (benché ancora con il vecchio titolo di successo). Ma a noi non importa troppo il lavoro filologico. Noi amiamo quel vecchio libro con tutte le sue imperfezioni nella traduzione inarrivabile di Vincenzo Mantovani. Perché in quell’addio troviamo l’inizio. Perché nel racconto di Parigi con cui Hemingway si congedò dalla scrittura e dalla vita, noi troviamo le fatiche degli esordi. E sentiamo vibrare una penna e un’anima piene di grazia e fragilità, come gli eroi a cui quella penna e quell’anima seppero dare vita.

    2. Immedesimazione

    Poi veniva la brutta stagione. Alla fine dell’autunno, in un solo giorno, cambiava il tempo. Di notte dovevamo chiudere le finestre perché non entrasse la pioggia e il vento freddo strappava le foglie dagli alberi di Place de la Contrescarpe.

    L’ultima opera che Ernest Hemingway arrivò quasi a completare nella sua breve vita felice di scrittore in cerca della grazia si apre così. È l’inverno del 1921. Assieme a sua moglie Hadley, il cronista dello Star e dello Star Weekly di Toronto si è installato in un piccolo appartamento al 74 di rue Cardinal Lemoine. Tutto è nuovo per il ragazzo che è arrivato in città con la benedizione di Sherwood Anderson , scrittore americano allora all’apice del successo. La città però già lo invita a un’osservazione che più di trent’anni dopo è ancora precisa, nitida. L’incipit del libro, del resto, è un perfetto esempio del suo stile maturo. E non c’è inizio migliore per chi voglia calarsi nelle imprendibili profondità della ricerca letteraria che a quello stile avrebbe portato.

    Forse ispirato da un demone che lo spinse a ripercorrere le tappe del suo apprendistato, Hemingway, infatti, nei primi capitoli del suo memoir è capace di gettare luce sul proprio lavoro con una lucidità e una chiarezza che generalmente sono prerogativa dello studioso, del critico, di chi, insomma, può osservare dall’esterno il percorso di un artista. Poche pennellate e ci troviamo di fronte a un ragazzo pieno di speranze che, nel suo primo inverno parigino, scopre quanto è difficile chiudersi nella stanza all’ultimo piano dell’hotel in cui era morto Verlaine, affittata per restare solo davanti a un’opera da edificare. Estremo il freddo; troppo costosa la legna da infilare nel camino; e devastante il fumo che allaga la stanza. Meglio un piccolo caffè in Place St. Michel per immergersi nei luoghi e nei movimenti che è necessario incidere sulla pagina del racconto.

    Stavo scrivendo di quando ero su nel Michigan, e poiché era una fredda giornata di vento sferzante, era lo stesso tipo di giornata anche nel racconto. […] Ma nel racconto i ragazzi bevevano e questo mi fece venir sete e ordinai un rum St. James. Aveva un sapore straordinario in quella fredda giornata e continuai a scrivere, sentendomi benissimo.

    Il freddo dell’inverno diventa il freddo del Michigan. E l’alcol che bevono i protagonisti della storia diventa l’alcol che beve Hemingway.

    Sono bastate due frasi per spiegarci come il primo sforzo, dunque, fu l’immedesimazione.

    Tutto era cominciato anni prima, in effetti. Difficile dire con esattezza quando. Certo però fu tra le regole apprese dal giovane aspirante giornalista che si può cercare una prima traccia precisa e incontrovertibile. Sappiamo dove andare, allora. E abbiamo anche un nome.

    C.G. Wellington, detto Pete, nel 1917 è il vicedirettore del Kansas City Star. Hemingway lo conosce a ottobre, quando ha da poco compiuto diciotto anni, appena uscito dal liceo e trascorsa l’estate dall’altra parte del lago, nella fattoria paterna, a costruire una tettoia, tagliare fieno e curare un orto. Wellington al giornale ha stabilito regole minuziose per calibrare lo stile. La tavola delle leggi è molto chiara. Per raggiungere precisione e leggibilità è necessario limitare al massimo l’uso degli aggettivi, usare uno slang sempre fresco e nuovo, essere brevi, e dire cose semplici in modo semplice. Prima di tutto questo, tuttavia, chi vuole raccontare un fatto facendolo vivere al lettore deve essere entrato in contatto profondo con ciò che scrive, lo deve conoscere.

    Il diciottenne assorbe questi insegnamenti come una spugna. Corre da una stazione di polizia a un ospedale, cerca di parlare ai criminali e di sapere quel che è possibile sulle vittime, poi torna al giornale e, prima di lavorare su quello che diventerà il suo argomento decisivo – ossia la morte –, ne discute con i colleghi più anziani e chiede loro aiuto, cercando di appropriarsi di trucchi e artifici pur di conquistarsi la stima dei giornalisti stessi e dei lettori. Il trucco fondamentale però lo impara subito e anzi si può dire che sia sempre stato già suo. Si tratta dell’immedesimazione. Nulla è possibile senza immedesimarsi profondamente in chi si vuole raccontare.

    Eccolo, adesso, passati quattro anni pieni di vita vera e morte vera, a cercare di trasformare quello stile giornalistico nello stile degno di un narratore. Lo sforzo prende non solo la mente, ma tutto il corpo.

    Poi mi rimisi a scrivere e mi addentrai nella storia e mi ci smarrii. Ora la stavo scrivendo io e non si stava più scrivendo da sé e non alzavo gli occhi né sapevo più che ora fosse né pensavo dove mi trovavo e non ordinavo più rum St. James. Senza saperlo, ero stanco di rum St. James. Poi il racconto fu finito e io ero molto stanco.

    La stanchezza fisica è il primo segno di un lavoro che pretende per prima cosa uno sforzo fisico di immedesimazione. Ma certo non è tutto: non basta la forza empatica che permette di immedesimarsi per scrivere in maniera tale da spingere all’immedesimazione. Ci vuole altro per costruire uno stile, trovare la propria strada, scoprire il tono, cadere nella melodia delle frasi e dei dialoghi e delle descrizioni. Bisogna innanzitutto imparare a scrivere.

    3. Disciplina

    Per imparare a scrivere bisogna scrivere.

    Chiunque faccia questo mestiere sa quanto è vera quella che ha la parvenza di una banalità e che Hemingway si sentì dire da un collega del giornale prima di lasciare gli Stati Uniti con la fede in ciò che si era ripromesso di costruire. Per imparare a scrivere bisogna scrivere, sì, ma bisogna scrivere davvero, e per scrivere davvero sono necessarie costanza, dedizione e tenacia. In una parola, la disciplina. È necessario mettersi di fronte a un foglio, a una macchina da scrivere, un computer e dare forma a frasi, periodi, paragrafi. Imparando a modellare ciò che creiamo non soltanto in funzione del giorno in cui siamo al lavoro, ma anche in funzione dell’indomani e della prospettiva più ampia che abbiamo o non abbiamo in mente. Lo scoprì in fretta, Hemingway, a Parigi.

    Lavoravo sempre finché non avessi combinato qualcosa e smettevo sempre quando sapevo cosa sarebbe successo in seguito. Così ero sicuro di continuare il giorno dopo.

    Mai fermarsi – è la regola che ha deciso di darsi. E per evitare problemi il giorno seguente, mai esaurire l’argomento o la scena a cui sta lavorando. Fermarsi prima che tutto sia stato detto. L’indomani si correggerà ciò che si è scritto il giorno precedente e si darà spazio a ciò che si vuole raccontare per proseguire su nuove storie e interromperle prima di esaurirle.

    La tecnica, molto semplice e elementare, descritta in maniera quasi scabra qui come altrove, è diventata una specie di regola di scrittura così celebre e di successo che innumerevoli aspiranti autori l’hanno fatta loro. Uno di questi, un grande appassionato di Hemingway, fu Gabriel García Márquez. Parlando della disciplina di ferro che gli veniva riconosciuta, in una famosa lettera a Plinio Apuleyo Mendoza, Gabo scrisse così: Quanto al resto del lavoro, non ho molto da dire, perché l’ha già detto Hemingway nei consigli più utili che io abbia ricevuto in vita mia: interrompi sempre oggi quando sai come continuerai domani, non solo perché questo ti permette di continuare domani, non solo perché questo ti permette di continuare a pensare tutta la notte all’attacco del giorno dopo, ma perché le sfacchinate mattutine sono demoralizzanti, tossiche ed esasperanti e sembrano inventate dal diavolo perché uno debba pentirsi di quello che sta facendo.

    In realtà, Gabo trasformò parzialmente il consiglio di metodo artigianale. Perché Hemingway invitava a non pensare più a ciò che si sarebbe scritto l’indomani, meno che mai di notte, quando è meglio dedicarsi all’amore.

    Se continuavi a pensarci, perdevi il filo di ciò che stavi scrivendo prima di poterlo riprendere l’indomani. Occorreva fare ginnastica, stancarsi fisicamente, e era un’ottima cosa fare l’amore con la persona che amavi. Quella era la soluzione migliore. Ma dopo, quando ti sentivi svuotato, bisognava leggere per non pensare o preoccuparti del tuo lavoro fino al momento in cui avresti potuto riprenderlo. Avevo già imparato a non vuotare mai il pozzo della fantasia, ma a fermarmi sempre quando c’era ancora qualcosa, là in fondo, e a lasciare che tornasse a riempirsi durante la notte con l’acqua delle sorgenti che lo alimentavano.

    Certo il pozzo della fantasia di García Márquez doveva essere infinito, benché anche in quel caso fosse alimentato dalla memoria, che per qualsiasi scrittore è la vera divinità da sempre. Lo sa bene chi legge i poemi antichi e trova nel proemio la classica invocazione alle Muse e sa che esse contano innanzitutto per via della madre mai nominata: Mnemosyne, la dea della Memoria.

    Quanto a Hemingway, la sua memoria era prodigiosa. E fu raccontata con chiarezza dai colleghi giornalisti, con cui condivideva esperienze ogni volta che lasciava Parigi. Sappiamo per esempio che nell’aprile del 1922, mentre seguiva la Conferenza internazionale economica e finanziaria di Genova, che si teneva a Palazzo San Giorgio

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