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Gramsci reloaded: Una teoria sociale della cultura
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E-book305 pagine4 ore

Gramsci reloaded: Una teoria sociale della cultura

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In questo volume antologico i brani essenziali dei "Quaderni dal carcere" vengono raccolti e riorganizzati secondo una nuova interpretazione del pensiero gramsciano, provocatoriamente sganciato dalle letture del marxismo ortodosso e riportato alla sua dimensione schiettamente in-attuale, anche alla luce delle influenze che esso ha saputo esercitare in tutto il mondo.

Nelle strette della sua prigionia, Antonio Gramsci, giorno dopo giorno, riga dopo riga, scrive una lunga serie di note, analisi, saggi brevissimi, spesso parziali, su cui torna in qualche caso a più riprese. La sua lotta per sopravvivere, intellettualmente e materialmente, lo porta così a dare vita ai Quaderni dal carcere, uno dei grandi testi del Novecento, incompiuto come L’uomo senza qualità di Musil o la Ricerca proustiana, come le ricerche filosofiche di Wittgenstein o la prosa aforismatica di Bloch. In quest’opera Gramsci ingaggia un corpo a corpo con i paradossi della cultura popolare e del ruolo degli intellettuali, e lancia un prezioso messaggio di dissidenza morale e politica. Nel dopoguerra, ben dopo la morte del suo autore, i Quaderni si costituiscono come una coscienza instancabile e molesta, che richiama gli intellettuali critici a esercitare la loro funzione di comprensione e testimonianza.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita26 mar 2020
ISBN9788835394174
Gramsci reloaded: Una teoria sociale della cultura

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    Anteprima del libro

    Gramsci reloaded - Antonio Gramsci

    vitale

    Gramsci: un pensatore contemporaneo - di Fausto Colombo

    Questa antologia del pensiero di Antonio Gramsci, costituita da una selezione di scritti dei Quaderni dal carcere dedicati alla riflessione sociale sulla cultura, ha due ambizioni. La prima è riproporre il pensatore sardo all’attenzione soprattutto dei giovani, in un momento politico e culturale che sembra rendere il suo lavoro più utile che mai. La seconda è elaborarne una rilettura per quanto possibile originale, anche se nel rispetto dell’amplissima letteratura che, in Italia come nel resto del mondo, ha esplorato ogni aspetto della sua riflessione.

    La mia introduzione è dedicata dunque a dare ragione di queste due ambizioni, attraverso un percorso – spero non pedante – che si snoderà in quattro tappe: l’esperienza gramsciana, la forma del suo pensiero e della sua scrittura, le tematiche culturali della sua riflessione, la sua contemporaneità [1] .

    1. L’esperienza gramsciana

    Della vita di Antonio Gramsci sappiamo quasi ogni cosa. In particolare, si può rimandare alla eccellente biografia di Giuseppe Fiori [2] , così come alla ricca introduzione di Valentino Gerratana [3] all’edizione Einaudi dei Quaderni, chi volesse approfondire l’a­spetto propriamente storico della sua vicenda umana.

    Vale comunque la pena di richiamarne i tratti salienti: Gramsci nacque nel 1891 ad Ales, in Sardegna, quarto di sette figli. Ammalatosi a due anni di una forma di tubercolosi ossea, ne risultò segnato per tutta la vita, perché il suo fisico (tra l’altro rimasto di piccola statura) soffrì sempre di malferme condizioni di salute. Nonostante questo, e a dispetto della sostanziale povertà della sua famiglia, Gramsci riuscì – con innumerevoli sacrifici – a completare gli studi, e – grazie a una borsa di studio – a trasferirsi a Torino per frequentare l’Università, dove seguì i corsi della Facoltà di Lettere, entrando in contatto con alcuni brillanti intellettuali del periodo (un nome su tutti: Luigi Einaudi). Mentre l’Italia viveva lo stato sospeso della sua neutralità allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Gramsci si iscrisse al Partito Socialista, e cominciò a scrivere prima sul Grido del Popolo, poi anche sul foglio torinese de L’Avanti. Per i due giornali fu anche critico teatrale, e sono da segnalare, proprio in questo periodo, le sue recensioni su diverse commedie pirandelliane e sulla poetica dell’autore siciliano. Ma nel frattempo la Grande Guerra, che aveva ormai coinvolto anche il nostro Paese, proseguiva la sua folle corsa di sterminio, e nel 1917 la Rivoluzione Bolscevica dava nuove prospettive alla teoria marxista della storia. Fu proprio la necessità di confrontarsi con queste radicali novità che fece nascere a Torino Ordine Nuovo, un giornale in cui Gramsci fu attivamente impegnato e che ben presto si distinse per una vocazione profondamente operaistica e per un dialogo stretto fra gli intellettuali che gli davano origine e quei proletari cui essi intendevano rivolgersi. Fu il primo passo (tra le altre, successive cause scatenanti le diverse posizioni sugli scioperi torinesi e milanesi del 1920) in direzione di una svolta che di lì a poco avrebbe portato Gramsci e molti suoi compagni di strada a lasciare il Partito Socialista e a fondare (a Livorno, nel 1921) il Partito Comunista d’Italia.

    Nel 1923 Gramsci, che nel frattempo era divenuto direttore di Ordine Nuovo e aveva compiuto il suo primo viaggio a Mosca, sposò Giulia (Julka) Schucht, figlia e sorella di dirigenti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (e in seguito membro del suo servizio di sicurezza). I due ebbero due figli, ma negli anni della prigionia Gramsci sentì drammaticamente il distacco progressivo della moglie. I tempi intanto diventavano sempre più duri. L’avvento del fascismo e la dura repressione delle opposizioni fecero sì che Gramsci si trovasse a essere (lui ancora a Mosca) il più alto dirigente del Partito Comunista d’Italia. Nel 1924 usciva a Milano la prima copia dell’Unità.

    Eletto al parlamento nello stesso anno, e protetto dall’immunità, Gramsci rientrò in Italia, in tempo per vivere il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, che provocò l’Aventino dello opposizioni, divise tra loro. Dopo il celebre discorso del 3 gennaio 1925, in cui Benito Mussolini rivendicò alla Camera dei Deputati la responsabilità del delitto, dando così il via ufficiale al regime fascista, Gramsci, dopo un breve soggiorno a Mosca, rientrò in Italia, dove tenne il suo unico discorso in parlamento (una feroce analisi del potere mussoliniano e del suo vero volto).

    Le vicende assunsero a quel punto per Gramsci un andamento incalzante: sul fronte delle lotte politiche interne al regime sovietico (per la successione a Lenin si scontravano due fazioni, di cui quella staliniana risultò poi vincitrice) egli si sforzò di raccomandare moderazione e unità, fino al punto da trovarsi in dissenso con Palmiro Togliatti, schierato a favore della fazione vincente. In Italia il potere fascista non conosceva più freni né intendeva rispettare la sia pur formale apparenza democratica. Gramsci venne così arrestato – a dispetto della immunità parlamentare – e, dopo una fase di confino e di detenzione, fu condannato nel 1928 a vent’anni di carcere. Nel 1931 e nel 1933 fu colpito da gravi crisi di salute da cui si risollevò a fatica. Solo alla fine del 1934 fu posto in libertà condizionata. Il regime fu poi trasformato in piena libertà solo nel 1937, il 21 aprile. Gramsci morì il 27 dello stesso mese.

    Durante la sua prigionia, Gramsci non smise di studiare e scrivere, sia appunti, abbozzi di saggi o libri, note interpretative, sia lettere ad amici (in particolare Piero Sraffa, che fu per lui un prezioso interlocutore) e parenti (tra tutti, oltre alla madre, cui indirizzò commoventi segni di affetto filiale, alla moglie e alla cognata Tatiana – Tania –, che non cessò di essergli vicina epistolarmente), così combattendo una vera battaglia per la propria vita. Su una cosa, infatti, l’intellettuale comunista e l’apparato fascista che lo aveva costretto alla detenzione convergevano nelle proprie interpretazioni: Gramsci era il suo pensiero, e al cessare dell’uno sarebbe cessata anche l’esistenza dell’altro. Così, se il fascismo dichiarava apertamente la necessità di far cessare di funzionare quel cervello per vent’anni, Gramsci si indirizzò da subito verso la progettazione di un’attività intellettuale che lo tenesse vivo e operoso. Ha fatto e ancora fa molto discutere, in particolare, il primo progetto dei quaderni, contenuto in una lettera a Tania:

    Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa für ewig, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore…

    E ancora:

    [...] una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc. Argomento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente potrei solo abbozzare nelle grandi linee, data l’assoluta impossibilità di avere a disposizione l’immensa mole di materiale che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista disinteressato, für ewig.

    (Antonio Gramsci, a Tania, 26 marzo 1927, in Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 55-57)

    Di questo passaggio vanno sottolineati due aspetti. Il primo è che esso contiene la bozza di articolazione degli studi a venire, che Gramsci enuncia con particolare chiarezza (e a cui poi sarà sostanzialmente fedele nelle progressive stesure dei suoi appunti e nell’ampliamento costante dei suoi interessi e delle sue curiosità intellettuali); il secondo è l’idea di un lavoro disinteressato (für ewig, ossia per sempre o in una prospettiva trans-storica). Questo secondo aspetto è di particolare interesse, perché sembra mettere in discussione la radice marxista di Gramsci, ossia la prospettiva eminentemente dialettica e storica di quella che egli chiamava la filosofia della prassi [4] . Tuttavia, possiamo forse appoggiarci a questo accenno al disinteresse für ewig, per richiamare la peculiare condizione di Gramsci carcerato e la sua svolta intellettuale. Politico impegnato, comunista fiducioso nel ruolo della classe operaia, ottimista della volontà a dispetto del pessimismo della ragione, l’intellettuale si trova ormai fuori dall’agone politico. La prospettiva rivoluzionaria – cui egli non ha mai cessato di dedicare attenzione – trascolora in un’ottica necessariamente diversa, che potremmo forse definire dissidenza. Il termine è posteriore, e dovrà sembrare balzano applicarlo a Gramsci. Lo si è riservato, più recentemente, alla dissidenza anticomunista in Unione Sovietica e nei Paesi oltre la cosiddetta Cortina di Ferro fino alla caduta del muro. Per estensione, lo si è anche applicato ad alcuni nuclei antinazisti della Germania di Hitler e, in particolare, al movimento cecoslovacco Charta 77, guidato dal filosofo Ian Patocka.

    La dissidenza agisce di solito non tanto progettando un rovesciamento rivoluzionario del regime, quanto piuttosto rivendicando da parte di questo il rispetto di alcuni elementari diritti e soprattutto costruendo circuiti alternativi di discussione culturale e politica. In effetti, i Quaderni ci mostrano lo sforzo continuo di Gramsci di tornare a una discussione tipicamente culturale (e talora quasi accademica nel senso alto del termine) che prescinda dalle tematiche fasciste e dalla loro attualità spesso propagandistica. Se – per ovvie ragioni – questa discussione non coinvolge la prospettiva strettamente politica, essa tuttavia mette le condizioni di un’ altra cultura, di un’ altra comprensione del mondo che Gramsci affida al futuro (un futuro cui teme di non poter prendere parte). In questo senso, la dissidenza gramsciana che si esprime nell’attività intellettuale riportata nei Quaderni è una forma specifica della politica in determinate condizioni: quelle di un regime dominante e repressivo in cui la prospettiva rivoluzionaria – per ragioni oggettive e/o soggettive – non appare praticabile nel breve periodo.

    2. La forma del pensiero e la scrittura gramsciana

    Com’è noto, i Quaderni non sono un’opera lineare e del tutto coerente, né tanto meno conclusa. La trama del lavoro è costituita da diversi frammenti distribuiti lungo alcune direttrici di fondo, su cui Gramsci ha lavorato, spesso riprendendo e ampliando, aggiornando a seconda delle sue letture progressive, o delle sue nuove intuizioni. È quasi ovvio attribuire le ragioni di questa forma peculiare alle costrizioni esterne della carcerazione, ma per comprendere a fondo l’opera occorre prendere in considerazione anche altri aspetti della sua vicenda intellettuale.

    Il primo punto da sottolineare è che Gramsci non scrisse alcuna opera finita. In una lettera alla cognata Tania (19 marzo 1927), egli osservava che tutti i suoi articoli su Pirandello, scritti all’epoca del suo impegno come critico teatrale militante, avrebbero potuto comporre un volume di duecento pagine, ma l’attività politica lo aveva distolto da iniziative di questo tipo. Eppure la sua attrazione per la riflessione scientifica (e potremmo dire accademica) è piuttosto manifesta nel suo già citato proposito di scrivere qualcosa für evig. E dobbiamo ricordare che durante la prigionia Gramsci tentava di accreditare (anche per ragioni strumentali) di essere più un intellettuale accademico che un politico, più un professore (pur avendo abbandonato l’università durante la sua frequenza come studente) che uno stratega o un uomo di partito. Quindi l’enunciazione del progetto dei Quaderni suona in sé stessa piuttosto contraddittoria: da un lato l’autore afferma di voler scrivere qualcosa di saggistico su temi importanti e assolutamente degni di interesse; dall’altro osserva da subito che tale progetto non potrà compiersi date le condizioni limitanti del suo lavoro.

    La realtà è che Gramsci pensa e scrive per tenersi vivo [5] , temendo le dinamiche di degrado e di alienazione che le condizioni di carcerazione sembrano portare ineluttabilmente con sé:

    ho sempre la paura di essere soverchiato dalla routine carceraria. È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione su me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati. Certo io resisterò.

    (Antonio Gramsci, a Giulia del 19 novembre 1928, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino 1965, p. 236)

    Questo fa sì che i Quaderni siano una Lebenswerk, ossia un’opera che si identifica con la vita stessa dell’autore (una lunga parte della vita, l’ultima, e la più difficile e sfidante), un lungo diario intellettuale che sopravvive a chi lo scrive e ce lo rende tuttavia sempre attuale e presente.

    Nel primo Novecento, la letteratura europea produsse diverse Lebenswerk: Alla ricerca del tempo perduto di Proust e L’uomo senza qualità di Musil ne sono esempi significativi in campo letterario, ma proprio negli stessi anni alcuni teorici importanti materializzarono il loro pensiero nella medesima forma frammentata e continuamente ripresa e ridefinita utilizzata da Gramsci. Basti pensare a Walter Benjamin, Ludwig Wittgenstein, Ernst Bloch, e allo stesso lavoro di Maurice Halbwachs sulla memoria.

    Se accettiamo questa evidenza, possiamo collocare meglio i Quaderni, inserendoli in un genere scientifico letterario che non tende alla costruzione di una cattedrale teorica compiuta, ma piuttosto procede per intuizioni e frammenti, spesso costruiti sulla base di scambi con il mondo accademico o intellettuale più prossimo (per Gramsci con gli interlocutori epistolarmente più vicini, fra cui la cognata Tatiana e l’amico Piero Sraffa, che fece probabilmente da tramite con il pensiero di Wittgenstein [6] ).

    Visti in questa prospettiva, i Quaderni ci appaiono come una grande Opera Aperta, capaci di sopravvivere al momento storico in cui furono composti e di adattarsi nei decenni successivi a contesti culturali e politici assai differenti.

    Testo progettualmente incompiuto, strettamente identificato con la vita del suo autore, sostanzialmente e paradossalmente antidogmatico, i Quaderni continuano a parlarci attraverso il tempo come le Ricerche Filosofiche wittgensteiniane, i frammenti benjaminiani o certi apologhi riletti da Ernst Bloch, obbligandoci a riempire i vuoti con la nostra interpretazione. Naturalmente questo approccio può sembrare paradossale per un autore come Gramsci (e come Benjamin o Bloch, d’altronde), ispirato e radicato nella lettura marxista della società. Ma per comprendere a fondo il suo lavoro occorre rispettarne anche la natura eretica rispetto al pensiero dialettico, rileggendone i legami con la più ampia riflessione europea, soprattutto quella che si confrontava in diretta – e drammaticamente – con i totalitarismi, la sconfitta provvisoria della rivoluzione e della sua speranza, le conseguenze abnormi di un pensiero universale del tutto. Come dire: è arrivato il momento di accettare che se la matrice marxista e comunista di Gramsci non può essere dimenticata, non occorre essere marxisti o comunisti per leggerlo, comprenderlo e coglierne la sorprendente attualità.

    3. Le tematiche di teoria della cultura nei Quaderni

    Abbiamo chiarito la natura frammentaria e incompleta dei Quaderni. In essi è espressa comunque, almeno in nuce, una teoria sociale della cultura, con tutti i pilastri necessari a sostenerla. Tali pilastri sono: i soggetti della pratica culturale, i meccanismi o forze in essa attivi e i legami con la vita collettiva, i contenuti prodotti.

    Cominciamo dai soggetti, cui Gramsci si avvicina a partire da alcune storie nazionali.

    La formazione degli intellettuali tradizionali è il problema storico più interessante. Esso è certamente legato alla schiavitù del mondo classico e alla posizione dei liberti di origine greca e orientale nell’organizzazione sociale dell’Impero romano. Questo distacco non solo sociale ma nazionale, di razza, tra masse notevoli di intellettuali e la classe dominante dell’Impero romano si riproduce dopo la caduta dell’Impero tra guerrieri germanici e intellettuali di origine romanizzati, continuatori della categoria dei liberti. Si intreccia con questi fenomeni il nascere e lo svilupparsi del cattolicismo e dell’organizzazione ecclesiastica che per molti secoli assorbe la maggior parte delle attività intellettuali ed esercita il monopolio della direzione culturale […] In Italia si verifica il fenomeno […] della funzione cosmopolita degli intellettuali della penisola.

    (Q12, §1, vol. III, 1523-1524)

    Questo approccio è una caratteristica fondamentale del pensiero gramsciano, attento in modo particolare alle condizioni concrete di formazione delle personalità individuali e dei movimenti collettivi. Pensare le culture nazionali significa per Gramsci guardare allo sviluppo storico peculiare di ogni collettività, e dentro alle collettività nazionali alle varie identità (per esempio di classe) portatrici di forme e di contenuti specifici di cultura.

    Tra queste identità, ovviamente, Gramsci prende in considerazione gli intellettuali, di cui traccia una storia, e di cui riconosce il ruolo essenziale come intermediari, all’interno di una divisione del lavoro che per certi versi si contrappone al comune patrimonio intellettuale degli esseri umani:

    Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali, in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali […] Ciò significa che, se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono.

    (Q12, §3, vol. III, 1550)

    E tuttavia, la figura dell’intellettuale non solo si autonomizza, ma si complessifica profondamente al suo interno:

    Dal punto di vista intrinseco, l’attività intellettuale può essere distinta in gradi, che nei momenti di estrema opposizione danno una vera e propria differenza qualitativa: nel più alto gradino troviamo i «creatori» delle varie scienze, della filosofia, della poesia ecc.; nel più basso i più umili «amministratori e divulgatori» della ricchezza intellettuale tradizionale, ma nell’insieme tutte le parti si sentono solidali. Avviene anzi che gli strati più bassi sentano di più questa solidarietà di corpo e ne traggano una certa «boria» che spesso li espone ai frizzi e ai motteggi.

    È da notare che nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in misura inaudita. La formazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica tecnica e come psicologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza individuale che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione ecc.

    (Q4, §49, vol. I, p. 476)

    E d’altronde anche la funzione e il livello di autonomia degli intellettuali offre distinzioni importanti:

    Il punto centrale della quistione rimane però la distinzione tra intellettuali categoria organica di ogni gruppo sociale e intellettuali come categoria tradizionale, distinzione da cui scaturisce tutta una serie di problemi e di possibili ricerche storiche.

    (Q 4, §49, vol I, p. 477)

    Ben prima dello sviluppo compiuto della sociologia della cultura, Gramsci coglie che – più che un produttore o un creatore di contenuti – l’intellettuale agisce legittimando (replicandole e trasmettendole) idee, visioni del mondo, forme e stili. Può farlo per ragioni per così dire corporative, in difesa della propria appartenenza professionale e di classe (come nel caso degli intellettuali tradizionali) o può farlo in prospettiva politica, come attore appartenente a un partito per esempio. Ma certamente lo farà agendo dall’interno di una serie di campi simbolici diversi, che potrebbero essere definiti come strati progressivi di sedimentazione culturale.

    Il senso comune, in primo luogo, ossia l’insieme di credenze e convinzioni circolanti soprattutto tra le classi subalterne, o più in generale in quel crocevia che è la vita quotidiana [7] . Poi la cultura popolare, che incrocia in qualche modo il folclore e la cultura di massa (per Gramsci la letteratura d’appendice o il teatro di avanspettacolo) [8] .

    Un ulteriore livello è costituito dall’opinione pubblica, costituita dai mezzi di informazione [9] . Infine, la cultura nazionale alta, cui si accede attraverso le carriere scolastiche e universitarie. Nessuno di questi differenti livelli è di per sé privo di limiti o di opportunità. Il senso comune corre il rischio della superficialità, della superstizione o del pregiudizio. La cultura popolare, oltre a costituire un collante fra le classi subalterne, può fungere da schermo deformante degli autentici conflitti sociali. L’opinione pubblica dei giornali, capace di mostrare la realtà delle relazioni sociali, può essere asservita al potere politico o agli interessi economici. La cultura alta, potenzialmente capace di costruire una dimensione nazional-popolare, può essere – come secondo Gramsci avviene in Italia – separata dalle classi subalterne e diventare così una cultura di classe dei poteri dominanti, assumendo un ruolo egemonico [10] .

    La nozione di egemonia ci consente di passare alla questione dei meccanismi attivi nella cultura, in quanto radicata nelle concrete società storiche.

    Su questo, come su molti altri aspetti, Gramsci va al di là della classica lettura marxiana dell’ideologia come mascheramento e naturalizzazione delle condizioni economiche e sociali [11] . Il problema di Gramsci è da un lato quello di spiegare la difficoltà delle rivoluzioni comuniste nei paesi industrializzati e il comportamento non rivoluzionario del proletariato, spesso attratto dalle destre estreme come nel caso del fascismo; dall’altro elaborare una strategia rivoluzionaria in un contesto del tutto sfavorevole.

    La sua risposta (appunto: il concetto di egemonia) parte da una interessante distinzione tra due aspetti dello scontro per il potere (fra classi, fra visioni del mondo, fra soggetti politici) che Gramsci espone attraverso due metafore: rispettivamente la guerra di movimento e la guerra di posizione. La prima è costituita dall’uso della forza, e – nel caso del conflitto fra capitalismo e proletariato – consiste evidentemente nell’insurrezione del secondo (guidato dai partiti che lo rappresentano) contro il primo. La seconda, invece, avviene nel campo della cultura, e vede lo scontro fra i valori borghesi alla base del capitalismo (che si presentano come naturali) e i valori alternativi. La guerra di posizione non implica l’uso della forza, quanto piuttosto la persuasione e la mediazione. Persuasione nel senso che – attraverso il ruolo svolto dagli intellettuali schierati con le classi dominate – le persone possono essere convinte a criticare i valori borghesi e quindi a non accettarli come valori guida. E mediazione perché – per garantire la vittoria – i valori di una classe subalterna devono trovare punti di contatto o di integrazione con i valori di altre classi subalterne ma con interessi immediati differenti. E qui il ruolo dell’intellettuale diventa appunto quello di indicare le migliori strategie di integrazione e mediazione.

    Esposta così sinteticamente, la dottrina gramsciana può apparire puramente tattica o strumentale. Ma Gramsci non è né dogmatico né machiavellico. Egli ritiene che le culture siano in continua evoluzione, così come le società: e che quindi alleanze fra classi e fra elementi culturali e valori siano effettivamente possibili, e possano disegnare vie d’uscita imprevedibili dalle situazioni apparentemente più rigide e bloccate. Il punto di arrivo della guerra di posizione (ossia dell’attività politico-culturale) è il consenso, ossia da un lato la convinzione, dall’altro l’adesione a movimenti compositi. I luoghi in cui il consenso può essere plasmato sono i media, le istituzioni educative o quelle religiose. Ed è dunque in quei luoghi, primariamente, che si articola la lotta per l’egemonia, il cui esito non è mai scontato.

    La concezione di egemonia [12] costituisce senza dubbio uno dei lasciti fondamentali di Antonio Gramsci. Nel tempo, essa è stata studiata soprattutto dal punto di vista politologico, ma anche una sociologia della cultura può avvalersene da un punto di vista generale, in quanto contiene, in nuce, la nozione di autonomia del campo simbolico.

    Se è vero infatti che Gramsci insiste continuamente sulla necessità di studiare i fenomeni culturali nel concreto della vita sociale, l’idea di una guerra di posizione che si attua nel campo della società civile [13] , dominio del consenso, contrapposta alla guerra di movimento che si attua nel campo della società politica, dominio della forza, ci fa comprendere tre cose. Prima di tutto, per accettare l’idea gramsciana occorre anche ipotizzare che gli esiti nelle due guerre possano essere difformi, se non in contrasto. Ciò vuol dire che un primato politico, per esempio un lungo periodo di governo più o meno democratico da parte di un partito, non significa necessariamente che in campo culturale si confermi lo stesso primato. In secondo luogo, gli esiti egemonici della guerra di posizione (che è appunto il campo della cultura, o dell’azione simbolica) non sono semplicemente sovradeterminati da ciò che avviene nella seconda. Ne discende che una egemonia culturale può alla lunga determinare cambiamenti anche nel campo politico e strategico. La terza conseguenza è che il campo simbolico descritto da Gramsci è in realtà un continuo confronto di posizioni e visioni del mondo in lotta per l’egemonia. Ed è su

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