L' asino mancino: Archeologia di un'educazione
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Svogliato e mancino, più volte rimandato e bocciato, il somaro della classe sceglie per sé sempre l'ultimissimo banco, proprio all'angolo dove le due pareti possono sorreggere meglio il collo, l’ideale per assopirsi. Reclutato senza averlo chiesto da una scuola che non riesce in alcun modo ad accendere in lui la minima curiosità, e - come spesso accade - dato per irrimediabilmente perso, il ciuco è però destinato a cambiare pelle, proprio come il Pinocchio di Collodi.
Nella sua vita, infatti, qualcosa è destinato a cambiare, grazie all’incontro con un vero professore e alcuni insospettabili maestri. L’asino si sperimenta come educatore a Napoli, si trasferisce per un lungo periodo in Brasile, supera tutti gli esami per diventare docente universitario, insegna Pedagogia a Rio de Janeiro e diventa uno tra i maggiori esperti internazionali del pensiero di Paulo Freire, con libri tradotti in molte lingue, e rientra a Napoli per insegnare all’Università Federico II.
In questa specie di Diario di scuola alla Pennac, capace di alternare serietà e leggerezza, ironia e politica, Paolo Vittoria ripercorre la sua storia, che è anche la fotografia impietosa e lucidissima dell’attuale modello di scuola, ossessionata dal mercato, dalla tecnologia, dall’ideologia del merito e dalla retorica dell’eccellenza. Una scuola che porta spesso i ragazzi e vivere ansie e frustrazioni e si limita a diagnosticare e certificare deficit di attenzione. Una scuola che non sospetta minimamente che il ragazzo dell’ultimo banco possa un giorno sedere in cattedra e prendere la parola.
Paolo Vittoria
Paolo Vittoria, uno dei maggiori studiosi di Paulo Freire a livello internazionale, è docente di Pedagogia generale e sociale all'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e all’Istituto universitario Pratesi di Soverato (Catanzaro), affiliato alla Pontificia Università Salesiana di Roma. Ha insegnato a lungo in Brasile all’Universidade Federal do Rio de Janeiro. Condirettore della rivista Educazione Aperta, scrive sul quotidiano Il Manifesto. A Teora, nell’entroterra irpino, ha ideato con la Federico II un esperimento di Università popolare per l’insegnamento della lingua italiana agli stranieri.
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L' asino mancino - Paolo Vittoria
Paolo Vittoria
L’asino mancino
Archeologia di un’educazione
Memorie
© 2024 Bibliotheka Edizioni
www.bibliotheka.it
I edizione, maggio 2024
Isbn 9788869349058
e-Isbn 9788869349065
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A tutti gli asini del mondo
perché possano essere liberi di viaggiare…
Un pensiero mancino
Une delle cose basilari che si imparano a scuola, soprattutto nei primi anni, è il coordinamento mente-mano. Questo collegamento fondamentale tra gli input che manda il cervello e l’esecuzione che ne facciamo in azioni quotidiane ha una delle versioni più elaborate nella scrittura, che può rappresentare un grande problema quando si trova difficoltà a tracciare i codici grafici chiamati lettere in modo chiaro e leggibile.
Questo è stato certamente il mio caso nella scrittura in corsivo: la L diventava una specie di forbice sospesa in aria, la O non concludeva quasi mai il suo circuito chiuso, la A sembrava una O, la U sembrava una Q che sembrava una O che a sua volta sembrava una A in un circolo vizioso. La F minuscola era una delle lettere più ostiche; sembrava disegnare i baffi di un gatto ispido e dispettoso. Avrei tranquillamente evitato le parole con la F. E poi perché la M ha tre zampe quando la N ne ha solo due? Quando arrivava il momento di scrivere le lettere in corsivo maiuscolo si sfiorava la catastrofe. Cascavo in uno scarabocchio infinito: un vero spreco di inchiostro e carta (il solo profumo dei quaderni nuovi di cartoleria che tanti amano, mi fa inorridire).
Così quando calcavo il lungo corridoio della scuola (il cui odore di alcool igienizzante mi atterriva) la mia paura era varcarne i confini e trovarmi improvvisamente in aula.
Non sapevo di essere inquadrato in un modello pedagogico – apparentemente laico – ma fondato sul premio e il castigo e che aveva come orientamento la cosiddetta normalizzazione, ossia riportare il soggetto a una regola imposta, anche se non sempre condivisibile o comprensibile. La regola – o l’insieme di regole – può essere di varia natura: dal comportamento al linguaggio alla condotta. Certamente le regole sono importanti e necessarie per un buon andamento di una comunità. Altre regole direi un po’ meno necessarie. Tra quelle più strambe – o sinistre – ce n’è stata una in passato (in alcuni disastrati casi ancora presente) che ha riguardato molti di noi in prima persona. Ed è la regola della mano destra
: abbastanza disumana e tragicomica, considera(va) poco normale – o potremmo dire non convenzionale – il libero uso della mano sinistra, quindi l’essere mancini. Da dove proviene questa regola
? Una ragione potrebbe essere di carattere cognitivo: magari il bambino mancino può avere più difficoltà a imparare quello che fanno i destrorsi, tipo suonare la chitarra o scrivere, oppure altre abilità che in effetti richiedono un diverso sistema di pensiero. L’altra, ancora più aberrante, è di stretto carattere superstizioso. Certo, dal punto di vista etico, è alquanto singolare pensare che una superstizione abbia avuto la potenza valoriale di trasformarsi in regola didattica. Bene, questa seconda caratteristica etico-superstiziosa considera che la destra è la mano che benedice e quindi di contro la sinistra sarebbe la mano del diavolo. Va detto che uno dei grandi geni che ha contraddetto questa sciocchezza è stato Diego Armando Maradona quando è salito in cielo e ha (di)segnato un gol strepitoso, benedicendo il pallone con la mano sinistra, per poi dichiarare con orgoglio: è stata la mano de Dios. Senza scadere nell’apologia dei mancini geniali, va tuttavia sottolineato un aspetto: la credenza che utilizzare la mano sinistra sia segno di possessioni malefiche ha fatto sì che molti bambini fossero costretti a un meccanismo violento di correzione e normalizzazione
. Stiamo parlando del fenomeno del cosiddetto mancinismo contrastato
in cui mi sono ritrovato anch’io.
Il pedagogista Jerome Bruner, nel libro Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, fa un’apologia della mano sinistra quando scrive:
Accettare i contributi dalla mano sinistra significa tenere presente tutto ciò che è impulso, irrazionalità, soggettività, eccezionalità individuale, tutto ciò che la luminosa traduzione o trasposizione della conoscenza (della mano destra) non riesce a esaurire… La forza della conoscenza è allora il riconoscimento di non aver tradotto interamente il soggettivo; la sua capacità critica è il saper tornare, sempre, alle suggestioni, e ai suggerimenti, della mano sinistra
.
È possibile tornare alla mano sinistra? Bruner lo intende anche dal punto di vista metaforico, in quanto impulso, irrazionalità, soggettività, eccezionalità
e soprattutto spiega che l’educazione è un passaggio dal cuore alla ragione, ma questo non vuol dire che sia un passaggio così ovvio.
Semplificando il tutto, il sistema dovrebbe funzionare così: l’input parte dal cervello che è suddiviso in due emisferi, di cui di norma quello sovrastante è il sinistro che comanda – per uno schema incrociato – la mano destra. Se invece è l’emisfero destro a dominare, allora il cervello si collega alla mano sinistra (o al piede sinistro, come nel caso del pibe de oro
). Per quanto mi riguarda, ho iniziato a sospettare
di essere mancino mancato (a questo punto direi contrastato) osservando mio figlio che usa con maggiore disinvoltura la mano sinistra rispetto alla destra e che – senza che nessuno si spaventi – è, dunque, un mancino naturale a tutti gli effetti. Avevo rimosso per molti anni questa mia caratteristica, ma riflettendo mi è venuto alla mente il ricordo della prima alfabetizzazione quando – gettato in primina a soli quattro anni – mi cambiavano continuamente la mano, e quindi facevo sempre più fatica a scrivere e ad avere una grafia leggibile. Oltretutto, il fatto di essere gettato nella mischia con oltre un anno di anticipo mi tolse improvvisamente dall’età del gioco per