Introduzione al liberalsocialismo moderno
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"La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica."
(Adriano Olivetti)
Vera imprenditoria, dunque imprenditoria etica e pertanto non neoliberista, è - data la concretezza in cui queste parole si sono tradotte nell’azienda Olivetti - non soltanto possibile ma comunque ingentemente remunerativa per chi vi investa: finanziario-economicamente Adriano Olivetti non se la passava certo male.
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Anteprima del libro
Introduzione al liberalsocialismo moderno - Francesco Sabbatucci
Francesco Sabbatucci
INTRODUZIONE
AL
LIBERALSOCIALISMO
MODERNO
Proprietà letteraria riservata
© Francesco Sabbatucci
© Ikonos Editore (relativamente all’opera editoriale) - editoria.ikonos.tv
è vietata la riproduzione del testo e delle immagini, anche parziale, contenute in questa pubblicazione senza la preventiva autorizzazione.
I edizione aprile 2024
Tutti i diritti riservati
Ai miei genitori
A tutte le vittime defunte e viventi del comunismo,
del neoliberismo e di ogni dittatura
In memoria di Enrico Caldari
PREMESSA
Nessuna predestinazione. Nell’imporre e nel subire la legge del mercato non vi è predestinazione alcuna. Poi certamente ci sarà chi abbia spalle finanziariamente più robuste e chi meno ma ciò, logicamente, non inficia tale realtà in qualsivoglia modo e maniera. Quando la legge del mercato diventi o rischi di mutare in legge del più forte - cioè quando il liber(al)ismo divenga o rischi di metamorfizzarsi in neoliber(al)ismo - essa può quindi essere sconfitta attraverso sé stessa; mediante dunque la concorrenza mercantile. Una concorrenza mercantile nel contempo (ri)equilibratrice della democrazia e tutelativo-salvaguardante del bene comune.
Tale tipologia di concorrenza mercantile può tuttavia essere tale soltanto se provenga dallo Stato; in quanto realtà superpartes garante di democrazia e bene comune. Una tipologia di concorrenza mercantile che può pertanto essere attuata soltanto da uno Stato che sia capace di essere appunto superpartes nonché nel contempo garante di democrazia e bene comune avendone - per ragioni evidenti ulteriore presupposto fondamentale - prerogative, volontà e capacità. Del resto la stessa upper-class finanziario-economica, ed essa per prima, dovrebbe avere tutto l’interesse a mantenere la pace sociale e pertanto il benessere materialistico della e nella società: l’indigenza della moltitudine è stata, è e sempre sarà il miglior combustibile per le rivoluzioni; le quali a propria volta - già a rigor di logica - sono state, sono e sempre saranno la peggior insidia per i privilegiati rispetto al mantenimento dei propri vantaggi. Anche - ad insegnarlo è la storia - in termini di incolumità fisica.
Per propria stessa natura il neoliberismo non ha amici, ha soltanto clienti. Clienti rispetto ai quali finge di essere amico soltanto fino a quando essi abbiano la capacità di essere tali, di essere - appunto - clienti e dunque fino a quando si abbia la forza finanziario-economica di poter essere acquirenti. A dimostrarlo anche i tanti ex imprenditori benestanti caduti in disgrazia per colpa di politiche neoliberiste subite. Ai (divenuti) meno o per nulla abbienti, perciò, il neoliberismo rivela senz’altro più rapidamente il proprio vero volto, la propria inconfutabile (dacché connaturata) essenza socio-cannibale rispetto alla tempistica con cui possa venire in tali termini parimenti smascherato dai maggiormente censo-potenti. Tuttavia, ciò non toglie che tale disvelamento - prima o poi - avvenga comunque anche ai piani alti della cosiddetta scala sociale: depredando il ceto medio si erode innegabilmente ed inevitabilmente quel cuscinetto
separante l’élite finanziario-economica dal ceto popolare. Il che, evidentemente, non può che incrementare i ranghi di quest’ultimo inasprendone per giunta l’insofferenza attraverso quello stentare materialistico al quale il ceto medio non è, in quanto tale, abituato; né rispetto al ceto popolare né in generale. Aspetto, quest’ultimo, costituente prova ulteriore di come e perché il neoliberismo nuoccia e non possa non nuocere, per quanto a giro più ampio o meno stretto in senso temporale rispetto al ceto popolare, anche alla upper-class finanziario-economica.
Tutto quanto sin qui esposto testimonia come alla élite finanziario-economica sia senz’altro più conveniente non soltanto la tutela del ceto medio ma anche il miglioramento delle condizioni di vita generalmente intese del ceto basico; intesi in senso altrettanto finanziario-economico. E dunque la messa al bando definitiva del neoliberismo.
Quanto a élite ed al concetto di élite: l’asserire, ad esempio, che non tutti possano essere leader non significa di per sé essere elitisti, significa semplicemente essere realisti. Così come non sia obbligatoriamente elitista chi sostenga la necessarietà e magari anche l’imprescindibilità e l’eticità della gerarchia: non gerarchia significa caos, ed il caos non è certo più etico né maggiormente funzionale alla pace sociale delle gerarchie. E gerarchizzando è inevitabile configurare un’élite. Proprio come riguardo gli ordini professionali ed i relativi albi il problema non siano questi in sé ma l’eventuale nepotismo ed affini con cui - nel caso, vengano gestiti da chi ne abbia autorità. Il punto vero della questione in disamina sono allora i parametri sulla base dei quali si gerarchizzi e l’eticità o la non eticità con cui i vertici della gerarchia esercitino il proprio potere: nulla vieta che si possa gerarchizzare su base etica ed anche comandare con etica ed eticità.
Elitismo è invece, semplificando riguardo la sfera della governance generalmente intesa della società, il (voler) gerarchizzare e comandare oltranzistico, svincolato dall’etica, indemocratico. In breve: se l’élite può essere un problema, l’elitismo lo è sempre. Stessa cosa per il pensiero unico: ad essere democraticamente rischioso non è tanto il pensiero o un pensiero unico in sé, quanto piuttosto il o un pensiero unico eretto su basi inetiche e dunque anche indemocratiche. Una tipologia ed un’eventualità di pensiero unico, quest’ultima, che all’elitismo è evidentemente assai utile e comoda.
N.B: le note presenti lungo lo svilupparsi del testo sino al capitolo 6
trovano i rispettivi approfondimenti sotto la sezione titolata in indice Approfondimenti delle note in itinere
e collocata in appendice.
Tali approfondimenti riportano il medesimo numero della nota cui si riferiscono.
CAPITOLO 1
SUL LIBERALSOCIALISMO MODERNO
Vi sono casi in cui il totale è qualcosa di più, e dunque di diverso, della mera somma delle parti. Il liberalsocialismo moderno è uno di questi casi. Nel liberalsocialismo moderno il liberalsocialismo è inteso - e dunque da intendersi - come il prodotto di una fusione bilanciata (e pertanto dall’esito inscindibile) di liber(al)ismo e socialismo; e non come la semplice
addizione liber(al)ismo + socialismo desunta al lordo di quanto da essa si possa ottenere. Non è pertanto possibile capacitarsi della praticabilità, vista come applicabilità concreta alla realtà, del liberalsocialismo moderno se non si sia prima compreso ciò.
Unitamente al fatto che sia la definizione di liber(al)ismo che quella di socialismo abbiano conosciuto e soffrano tuttora - in quanto concetti evidentemente ed inevitabilmente insistenti su ambiti cruciali rispetto alla regolazione dei rapporti di potere nella società - tentativi di distorsione finalizzati a tornaconto particolaristici. Il che costituisce monito, più o meno implicito, al verificare costantemente rispetto al se vi